Ettore Petrolini, la mia scuderia di purosangue
Ottobre, grande gioia di vivere, come tutti i mesi dell’anno tra sigarette denicotinizzate e propositi di saggezza. Me ne torno passo passo, nel tardo pomeriggio allegro e assolo, dal campo di corse di San Siro. Ripenso a qua famosi ritorni romani dalle Capannelle, tiri a quattro, a otto, e berline, cavalli infiocchettati e infiorati, schioccare di lunghe fruste, belle donne tutte sorrisi e diamanti, modellate, avresti detto, dal Canova o dal Bernini, da ingolosire i seminaristi di ritorno dal giuoco del calcio. Er conte Tacchta, er generate «Mannaggia la Rocca» nella fila doppia del Corso, su e giù, a pavoneggiarsi : «Tacchta ‘n 'accidente!... Intanto ste pariie tu nun cell'hai. E schiatta!»
Quel corso, che Stendhal definiva «la più bella strada dell'universo», nella speranza «che un papa artista abbattesse qualche casa e costruisse una salita che, sempre nella stessa linea arrivasse press'a poco sotto la chiesa di Ara Coeli». Miracolo che è stato compiuto proprio ora da Mussolini. Come si vede, dalle corse al corso il passo è breve... Io ho sempre avuto una passione sfrenata per le corse. Se fossi nato in altre scarpe, forse avrei fatto il fantino. Con ciò non intendo dire che sono un uomo leggero.
Ho accettato l’impegno di parlare di me e della mia arte ai lettori di Comoedia; e questo pensiero mi fa compagnia lungo la strada. Petrolini e la sua compagnia: vale a dire, in questo caso, Petrolini con sé stesso, a tu per tu. Vi confesso però che il dover fare il ritratto al mio «cavallo di battaglia» mi preoccupa assai, perché io, quando faccio qualche cosa, non riesco a parare da un principio, come tutti. Preferisco, per sicurezza. partire dalla stazione. Se poi si tratti, come nel caso attuale, di cavalli, bisogna guardarsi dalle false partenze, che possono compromettere la corsa. Ecco che, per quanto mi studia, non son capace di separare l’idea della mia produzione preferita che rappresenti nel mio repertorio il famoso cavallo, dal favorito dagli esperti dell'ippodromo, che un momento fa mi ha fatto perdere la scommessa. Me lo avevano dato, come sempre accade, per sicuro, e invece quello, a un dato punto s'è fermato a magnà erba der prato. Così ho avuto la solita disillusione.
Ho saputo dopo (troppo tardi!) che non era aflatto un cavallo, ma una cavalla, e se chiamava Giggia e mi sovvenni che anni or sono in una compagnia di guitti facevo la parte der Vitturino e cantavo :
ho la sola compagnia
della frusta e la cavalla
mentre lei la Giggia mia
vorrebb’esse ndé la stalla.
Le cavalle sono fatte così : quando s’accorgono che le preferisci, si divertono a farti i dispetti. Come la donna che preferisci. Il cavallo di battaglia d’un attore, è quello in cui egli è bravissimo, per sé, per la critica, per l’arte, o quello in cui è tale per il pubblico e che non riesce a soddisfare l’attore stesso?
E, inoltre, è sicuro che tutto il pubblico sia d’accordo nel considerare questa o quell’interpretazione dell’attore preferito, il vero cavallo di battaglia? Uno dei più bei cavalli di battaglia per un attore io credo sia l'incasso.
Ai tempi dell’Imperatore Augusto, (levatevi il cappello per piacere!) Roma impazziva per il teatro; ma gli spettatori avevano formato due partiti: gli uni preferivano Pilade Publio Elio, che mimava (precursore di Mario Bonnard) soggetti storici eroici, tragici e gli altri propendevano per Caio Giulio Badilo (Caio, consigliere delegato delle Società in accomandita Caio, Tizio e Sempronio), che mimava scene comiche finali e satiriche. Ne nacquero, cernie riferì il «Messaggero» in un corsivo otto di Luciano Folgore, disordini indescrivibili, tanto che il governo fu costretto a esiliare Pilade, sebbene fosse amico inumo di Augusto (andavano spesso, assieme, alla latteria di Villa Borghese, perché amavano unto le vaccherelle) mentre Badilo si nascondeva in casa di Mecenate.
(Mecenate, per chi non lo sapesse, è quel tale che in tutte le epoche promette mari e mond in favore dell'arte drammatica, ma che invariabilmente, una bella sera, scappa con l’incasso e lascia i comici col becco asciutto).
Quando Pilade ottenne il permesso di ritornare a Roma, a patto che non si facesse più vedere insieme a quello scocciatore di Oreste, Augusto lo minacciò inoltre del confino se si fossero ripetute baruffe per causa sua e di Badilo. E pare che l'attore gli abbia risposto (vedi «Messaggero») : «Principe, voi siete ingiusto nel rimproverarmi. Dovreste esser contento, invece, che la popolaglia e la plebaglia si occupino delle nostre quisquilie. Così non bada alle vostre!».
Il che, in parole in libertà, vorrebbe dire che in teatro il pubblico si è sempre diviso in due fazioni: Cannellisti i Bruneriani.
Figuratevi dunque le mie difficoltà, poiché, come sapete, io, nella quarta Roma, occupo allo stesso tempo (accaparratore d’impiegni e di prebende!) il posto di Pilade e quello di Badilo. Sono cioè un'erma bifronte, ma di quelle erme che i neo-classici piazzano alle teste di ponte, per simboleggiare l'abbondanza e la carestia, il sabato inglese e la scadenza delle tasse, con la maschera della tragedia su una faccia e la maschera della commedia sull’altra. Pianto e riso. Risi e bisi. come dicono a Venezia. Vivo quindi tra l'incudine e il martello, sospeso in un amletico dubbio Quando mi esibisco (o mi porgo) nelle macchiette, è un castigo di Dio: gli smofyngi delle poltrone chiedono a gran voce Giggetto er bullo e le giacche a due petti delle poltroncine vogliono Fortunello, mentre i fracs dei palchi invocano Il prence di Danimarca e gli scamiciati del loggione pretendono L'amor mio non muore.
lo, non sapendo che decidere, mi attacco al guanto di Gastone e lo lascio penduto! E poi, una dopo l’altra, le faccio tutte e così non se ne parla più. Avevo dunque ricominciato a scrivere l'articolo, in questo modo: «Macchietta, secondo il Fanfani, vuol dire piccola macchia, e macchiettare significa spargere o seminare di macchiette o macchioline un qualche oggetto.
Che c’entra, dunque la mia arte? Io ritengo perciò che l’origine di questa definizione scenica, derivi dal vocabolo machia, che vuol dire arte di saper dissimulare i propri pensieri e di cattivarsi l’altrui simpala intelligentemente. Tra le mie machie. Castone rappresenta...».
Ma ho dovuto nuovamente interrompermi, di fronte a un altro mio sdoppiamento. Come posso limitare l'indagine intrapresa alle machie, quando il mio repertorio si compone di machie e di commedie? Ed ecco l'erma trifronte, come certe figure mitologiche che sembrano suonatori ai tromba col torcicollo. S'imponeva la scelta di ben tre cavalli di battaglia : uno delle machie, uno delle commedie buffe, uno delle commedie serie! Grave pondo! Annusate un momento il mio pubblico.
Coloro che mi preferiscono nel comico, vengono anche alle produzioni drammatiche per dirlo a quelli che mi preferiscono nelle produzioni drammatiche e quelli invece che mi preferiscono nelle produzioni drammatiche vengono in folla anche alle produzioni comiche per dire a quelli che mi preferiscono nelle produzioni comiche che loro mi preferiscono nelle produzioni drammatiche. Che pasticcio! Far piacere agli uni e scontentare gli altri? Dire a chi ride contento: «Siamo seri, siamo seri! chi vuol ridere vada fuori !» e a chi piange : «Su belli con la vita, se volete piangere andate a piangere a casa vostra»? Come raccapezzarsi tra tante opinioni, gusti, tendenze, e fattispecie? Non si tratta più di scegliere un cavallo, ma uno squadrone di cavalleria!
Tanto più che io mi sento a cavallo con tutte le produzioni. Il mio repertorio è una scuderia di purisangue, cavalli da piazza e ronzini, dove la mangiatoia (non faccio per vantarmi) è sempre ben fornita. Per debito di coscienza, debbo anche aggiungere che in certi momenti, di tanti cavalli non ne ho nemmeno uno e il cavallo sono me. E mi piare molto la parte di cavallo (anche il cacio cavallo è abbastanza buono). Non appena in linea, calptto, nitrisco, smanio. Spronato dalla folla, corro, volo, divento Pegaso (da non confondersi con la Rivista omonima). Sopporto le frustate, sento le redini, subisco i punzecchiamenti da mosca cavallina del critico nervoso, gli speroni del critico serio, e cerco di vincere il derby. Sono mansueto, docile, arrendevole, accomodante, remissivo, indulgente, modesto oh si! Ma se poi m’accorgo che mi hanno bagnato il terreno apposta o che si tenti contro di me la solita camorra, allora tiro calci. Dove colgo colgo! Sul mio box ho fatto scrivere a caratteri fosforescenti (perché si leggano anche di notte): «A cavai donato non si guarda in bocca». Me so' spiegato?
A questo proposito, mi viene in mente un episodio giovanile. Ero appena all'inizio di una carriera che se m'ha condotto a questo punto non lo ha certo fatto per compiacermi, come chi dicesse per simpatia personale, ché le corse a ostacoli, tra muriccioli, siepi spinate e specchi d'acqua son giochetti da bambini...; tu fai un passo e quello ti mette sotto il piede una coccia de cocommero per farti scivolare, raggiungi, dopo tanto capogiro, un po' di terraferma da prender respiro e godertela un momento, e nossignore, sei ancora a dorso nudo d'una bestiaccia maremmana che non sopporta pesi e che te vi butta in metto a un pantano!
Dunque, mi avevano scritturato a Milano, con la Suvini e Zerboni, per l’Eden, che non era proprio il paradiso. Agente intermediario, a base di mediatorato, il ben noto Ignazio Battaglia. Un buon diavolo, ma nemico d'ogni modernità, recalcitrante a qualsiasi progresso. In arte era rimasto fedele alla tradizione, alla muffa e nella vita al carrettino a mano, rifiutando, non dico l'automobile, ma addirittura la bicicletta. Per cui, andandogli bene gli affari, s’era provvisto di un rapido mezzo di locomozione. Carrozzino e ronzino. Nelle vene del ronzino scorreva sangue di palcoscenico e anche i finimenti e la frusta erano composti con i nostri réfrains più in voga, tanto che io avevo battezzato l'accia tutta nodi e fiocchi, scoppiettante, che pendeva solenne dall'estremità della sferza, col nome di una mia macchietta che faceva furori : «Il cocchiere».
Ignazio era orgogliosissimo di quel suo attacco. La notte lo avrebbe messo volentieri sul comò. E a noi attori era molto utile: un'infallibile segnalazione. Quando mi recavo all’agenzia per vedere se ci fosse nulla di nuovo, non avevo da chiedere al portinaio se l’amico fosse reperibile. Pensavo : «Davanti al portone c’è il cavallo di Battaglia, dunque lui è in ufficio». Questo ricordo m’ha impedito, in seguito, di prender sul serio l'immagine, piuttosto retorica, del cavallo di battaglia come definizione del pezzo di bravura di un attore. Non so dissociarla dal quadretto fine di secolo del mio primo agente teatrale issato sul suo trionfale biroccio. E, per associazione d’idee, tutte le volte che qualcuno mi dice che il cavallo di battaglia di Salvini era l'Otello o di Alamanno Morelli l'Amleto, io, con tutto il rispetto, non posso fare a meno di pensare a un'infinità di cose che non hanno alcun rapporto con l'arte drammatica: al cavallo del Colleoni, a quello di Marc'Aurelio che scopre in oro, a Felice Cavallotti, a fra Domenico Cavalca, a Guido Cavalcanti, ai cavalloni del mare di Viareggio, ai cavalli di Frisia, alle cavallette del deserto, al giuoco dei cavallini della Costa Azzurra, al cavallo del Prode Anselmo, ai bellissimi destrieri dipinti da Salvator Rosa e dal Borgognona, così focosi, impennati, tutti muscoli e slanci giovanili. E adesso, a quell'affamatissima cavalla che m’ha fatto perdere la scommessa a San Siro...
Un tale mi disse: — Veda, io l'ammiro in tutte le salse, ma quando fa Nerone i proprio nei suoi panni...
E io: — Oh! i panni di Nerone! Son panni di famiglia. Panni sporchi!
E un altro: — Nel Medico per forza, signor Petrolini, lei è inarrivabile... Quello è proprio il suo ca...
Gli chiusi precipitosamente la bocca: — Non lo dica, per carità! Rischia di farsi bastonare da quel signore laggiù che mi preferisce nell'ultima mia creazione. E ritengo che non abbui torto. Se un giorno dovranno erigermi un monumento equestre, credo che mi vestiranno proprio alla maniera del mio ultimo «personaggio», e mi metteranno a cavalcioni d'un manico di scopa. E sotto ci scriveranno:
— Su questo bizzarro destriero l'attore romano Petrolini cavalcò alla ricerca di tutto sé stesso, antiretorico, antiletterario, semplice, senza pose, umano, avendo cura di spazzar via dal suo cammino tutte le frasi latte che, con sopportazione del prossimo, gli davano tremendamente fastidio...
Ettore Petrolini, «Comoedia», 1931 - Disegni di Umberto Onorato
Ettore Petrolini, «Comoedia», 1931 - Disegni di Umberto Onorato |