Morte di Petrolini: la cronaca
Roma 29 giugno.
Stamane, alle 2,24, nella sua abitazione in via Maria Adelaide, è morto Ettore Petrolini.vIl popolare attore da vario tempo era ammalato di angina pectoris. Le condizioni dell'infermo erano andate peggiorando in guasti ultimi due giorni e ieri era entrato in agonia.
Saran due mesi, l’ho veduto nella sua casa romana. Conoscevo la gravità del suo male. La conosceva certo anche lui, ma non fino a perdere le speranze. Altre crisi pericolose aveva superate e forse s’illudeva di vincere anche questa. Scherzava sulla sua infermità. Diceva: «Ho trovato un medico che a buonissimo prezzo mi fa le mie belle endovenosine e mi sta rimettendo in piedi ». A un amico aveva scritto, poche settimane prima, una lettera burlesca: «Ho sognato che m’è entrato in camera un ladro, e m’ha puntato contro una pistola. gridando: se ti muovi sei morto. — Lo so, — gli ho risposto. — Me lo sta dicendo da un pezzo anche il dottore.»
Ma chi può giurare che queste suo sorridere scanzonato non fosse, invece, una smorfia della sua angoscia segreta? Petrolini era giunte alla crudele riproduzione della verità umana attraverso la caricatura prepotente, con colpi di forza che parevano talvolta stordire fino all’inebetimento i suoi personaggi. Porse egli, meno per pietà di sè che per odio contro la inguaribile malattia, si beffava di essa, le opponeva una grinta spavalda, con quell'ira che si spandeva vigile e vindice anche nella sua ilarità, con quel gusto dell’estremo e dell’audacemente eccessivo che era sempre nella sua comicità, anche quando voleva sembrare mansueta e benigna. Vigorosissimo temperamento di satireggiatore, per popolaresco bisogno di sincerità, scherniva egli, approssimandosi al gran viaggio, il pallido sgomento dei morenti, il dolore, che aveva tante volte parodiato, dei superstiti?
Se ha saputo che i suoi giorni erano contati, grande dovette essere la sua intima ribellione. La morte gli si avvicinava quand'ei si sentiva più orgoglioso del presente, più sicuro dell’avvenire. A Parigi, a Berlino, a Londra, aveva avuto trionfi che gli avevano tolto ogni dubbio, se pur egli, così impetuosamente ardito, ne ha mai avuto. E, in verità, era tale attore, si disciolto da ogni pregiudizio, sì pronto ad uscire dalla finzione del personaggio, con un sarcasmo o uno sberleffo, per rinascondercisi poi, godendo di aver svelato il gioco dell’arte e tuttavia di poter subito ricreare la suggestione e l'illusione, che ogni teoria estetica, ogni spirito o tendenza differenti dalla sua pronta e capricciosa e felice ispirazione gli parevano perditempi insensati. Al tempo del Congresso Volta per l’Arte drammatica, convocato dalla Reale Accademia d’Italia, a chi gli chiedeva perchè non assistesse alle sedute rispondeva : « Io il teatro lo fo, non lo discuto». E tutte le sere i congressisti andavano a vederlo e a udirlo nel teatro dove recitava: e nei discorsi di Gordon Craig, e degli altri stranieri, oltre che in quelli degli Italiani, suonava entusiastica la sua lode.
Noi lo ammiravamo da gran tempo: ma, per quella gente d’altre terre, egli appariva nella sua formidabile novità. Vedevano essi, rinato in lui, uno dei grandi comici della Commedia dell'Arte, che erano, di per sè stessi, tutto il teatro, e costruivano ogni sera l’opera che rappresentavano, e sopraffacevano, con la spregiudicata fantasia della parola e del gesto, il canovaccio sul quale s’erano concertati. Quell’uomo che passava dal dramma, dove era stato o tremendo o commovente, alla macchietta che sembrava insensata ed era piena di senso, alla canzoncina chioccia, alla strofetta perfida e salace, e s’interrompeva per dire tutto quello che gli passava per il capo, come se teatro e vita fossero per lui la stessa cosa, e i suoi antagonisti non fossero soltanto quelli che gli stavano intorno alla ribalta, ma tutto il pubblico, gli amici o gli ignoti che vedeva nei palchi o in platea, e, oltre ai presenti, anche gli assenti, sì che talora non recitava la commedia, ma si divertiva, con lepida impertinenza, a costringere gli spettatori a figurare da cattivi attori davanti a lui, era, per essi, un liberatore da tutte le convenzioni e da tutte le stanche tradizioni. Vedevano, certo, in lui, i segni e gli annunzi d’un ricominciamento del teatro, d’un ripartire dell’arte drammatica dall’attore e non già dal poeta, come molti in Europa auspicano, in Russia specialmente.
Altri comici hanno avuto, come il Petrolini, umili origini. Ma le hanno rinnegate. Esse sono rimaste solo nel loro ricordo, duro noviziato dal quale sono usciti, per ascendere verso forme d’arte più epurate. Ma questo Petrolini che ora non parla più. questo Petrolini sul cui volto ora la morte ha posato l’ultima gelida maschera, portò sempre con sè gli spiriti caldi e irriverenti del suo primo vagabondaggio di guitto improvvisatore. Diventato celebre come artista di varietà, quando si compose un repertorio di commedie, al teatro di varietà rimase tuttavia fedele. Non solo perchè continuò a portare alla ribalta le pazze e grottesche figurette d’allora, ma anche perchè da quella vena che gliele aveva colorate derivò sempre freschezze, indipendenze, ghiribizzi, fiorettature, tratti artisticamente sintetici e deformatóri per le sue interpretazioni più serie. Ho già detto che egli scoprì la verità umana attraverso la propria potenza di caricaturista. Si può andare più in là. e dire che i personaggi delle commedie si atteggiavano primamente nella sua immaginazione come caricature, che poi egli andava spogliando dei tratti troppo grossi, e arricchendo di particolari con rapace precisione osservati: ma quasi sempre serbava in sè una specie di spregiosa diffidenza per essi e, assumendo il loro viso e le loro parole, non mancò mai di farci sentire quale giudizio morale faceva di essi, sì che in essi sentivamo l’arte d’un Petrolini obbiettivo, e la malizia d’un Petrolini subbiettivo. Ha modellato figure che non potremo dimenticare, stagliate sul fondale del teatro moderno con un rilievo stupendo; ma non sapremo mai dove in esse finisse Petrolini e cominciasse il personaggio. Sempre abbiamo sentito fondersi ed esasperarsi nella loro psicologia la simulazione del vero scenico e la irriducibile verità petroniana. Erano carichi d’una vita non premeditata e non prevedibile. Con pronti soprassalti l’artista li squassava, li abbatteva, li risollevava: ora li svuotava, con ironia impaziente, del loro contenuto, ora li riempiva d’una forza prodigiosa. Dalla vita balzava all'artificio, dall’artificio si riprofondava nella vita, con non so quale provocante disfida, aggricciando il duro naso aquilino, facendo greppo delle labbra con una burlesca dolcedine dalla quale schizzavano fuori, in apparenza melliflue, le più ratte e taglienti frecciate; dinoccolandosi remissivo, storcendosi dondoloni o impedendosi aggressivo, e girando intorno certi occhi che ridevano insidiosi; poi. buttando via del tutto quella finta untuosità o quel sussiego intontito, per erigersi nervoso, con un riso d'altro tono, secco e schiaffeggiante, e un viso fiero e dominatori.
La sua personalità fu la misura delle commedie che rappresentava. Ne scrisse egli stesso, nascendogli già, con il dialogo, l’interpretazione. Trasse le altre alla sua natura e alla sua libertà, troppo ricco di immaginazione e troppo indipendente per irrigidire entro di esse quel suo mimetismo prodigioso, che prendeva colore dalle più inattese circostanze. Non possiamo paragonarlo a nessuno. Scompare con lui un'arte sanguigna, acerba e vìva, un attore che non si inquadrò mai interamente nel teatro, ma spesso lo superò, e talora parve del tutto diverso da esso. Nulla prese dagli altri, chè, contro gli altri, era istintivamente armato di una intolleranza polemica, naturale difesa della sua versatile e aspra genuinità. Un grande artista egli è stato: un grande artista che non potrà essere imitato, perchè non cessò mai d’inventare se stesso. E perciò, mentre la morte se lo prendeva, aveva nell’anima e nel cervello tanta sostanza e tanta volontà di sorprendenti domani!
Renato Simoni, «Corriere della Sera», 29 giugno 1936
Vita ed arte di Petrolini
I primi passi sulle tavole dei palcoscenici - Tempi difficili e grandiosi successi - Un libro di memorie - La esemplare tenacia del grande attore scomparso
E' scomparso un artista originale, un grande artista. Petrolini s’è conquistato le sue vittorie a fatica. Il successo, la fama, l’agiatezza li ha strappati alla sorte dopo lunghi anni duri, ostili. L’artista ha trovato nella nativa genialità spontanea, nella comicità caustica e aggressiva gli elementi del suo consistere; l'uomo ha avuto da una coscienza luminosamente caparbia del proprio valore e da una tenacia mirabilmente coraggiosa, l'aiuto per imporre a tutti i pubblici le inesauribili risorse dell’attore.
Era nato a Roma il 13 gennaio 1886, da Luigi e da Anna Maria Antonelli. A sedici anni andò dall'agente teatrale Giulio Fabi, e con quattro scudi strappati alla madre si fece mandare nella Compagnia di Angelo Tabaneili detto il Panzone, che recitava a Campagnano presso Roma, in un vecchio granaio municipale. Detto, fatto: alla sera esordiva nella macchietta «Il bell'Arturo», ma andava a fluire sotto le tavole dello sgangherato palcoscenico. Lasciata la Compagnia insieme con un collega che faceva il Pulcinella, se ne andò a Roma. La via era talmente lunga che egli continuava a pensare alla frase lusinghiera deH’agente Fabi: «Tul farai molta strada!». E fu poi il Fabi a farlo esordire a Roma al Gambrinus, locale poi demolito, allora davanti alla Stazione di Termini. Là iniziò la sua carriera di caffè concerto, e là pensò di formare una Compagnia «stabile e movibile di arte varia» con altri colleghi e con una canzonettista che pareva, secondo egli scrisse, «un pegno da una lira; si trasferì presso una trattoria di Velletri, e di qui a Civitavecchia, di dove dovette far ritorno a Roma a piedi e senza un soldo. Trascorse cosi un lungo periodo duro e penoso, sostenuto soltanto dalla compiacenza dei successi che andava via via cogliendo. Entrato più tardi nella Compagni^ di Antonio Varenti col ruolo di primo buffo, non seppe mai nemmeno lui se nella sera di esordio la Compagnia ebbe successo o no, perchè in teatro c’erano cinque persone: «La solita crisi!», egli notava raccontando.
La sua vita diventava sempre più inquieta. Ritornato a Roma, entrò nella Compagnia di operette di Gaetano Galassi, poi si recò a Montecarlo, sempre senza nessun risultato finanziario. Tornato in Italia, dopo pochi giorni di lavoro a Ferrara. si era fatto mandare a Roma per mezzo della Questura. Nuove speranze nella Compagnia Bovio, ma immediate delusioni. Pure, Petrolini non cedette mai ai tiri della sorte; diede rappresentazioni in piccoli locali dell'Alta Italia, e fu applauditissimo. Allora cominciò un instancabile girare all'estero: si recò in America dove si ammalò.
Guarito, ripartì per l'Italia, e quando sbarcò a Genova aveva un grosso brillante al mignolo. La fortuna cominciava a ricordarsi di lui. E tanto se ne ricordò da non abbandonarlo più.
Dal 1910 Petrolini passò di scrittura in scrittura, a Parigi, al Messico, all’Avana, a Cuba. Trascorse due altri anni nell’America Centrale, poi fu a Nuova York, e qui di nuovo in Patria, dove cominciò a lavorare per conto proprio. Dopo la guerra formò una Compagnia di riviste, poi una Compagnia di prosa, per la quale scrisse molti lavori fortunatissimi tra cui Gastone, Benedetto tra le donne, Chicchignola. Rappresentò anche numerose commedie di autori italiani. Ormai aveva raggiunto fama mondiale. Aveva pubblicato un volume di memorie gustosissime. Da poco s'era trasferito a Roma in una nuova casa in via Maria Adelaide, e fra i suoi libri, i suoi quadri, i piccoli oggetti rari raccolti nelle botteghe degli antiquari, aveva composto, nelle tregue concessegli dal male, un altro libro dì cui è appena riuscito a vedere le bozze di stampa e le prime copie da lui destinate ai familiari e ai più intimi amici.
Questo libro ha un titolo che può anche parere un presentimento della morte: «Un pò per celia e un po' per non morir...», e in più di 200 pagine ci racconta le avventure di Petrolini ragazzo. I suoi primi passi sulle tavole dei palcoscenici fatti a Roma, i suoi successi in Italia, le sue rappresentazioni all’estero.
Ragazzo, Petrolini fu, almeno in apparenza, un poco di buono. «Una sera — sono parole sue — durante le mie recite ad Alessandria (Piemonte) capitò nel mio camerino fra gli altri un signore dall'apparenza timida e cordiale. Si presentò con la massima deferenza, parlò sulle generali e infine venne al busillis. (Quando imo sta sulle generali io di solito mi preoccupo del particolare). E mi disse: «Pensi che strano caso, commendatore. Al riformatorio di Bosco Marengo, di cui sono direttore, riguardando nell'archivio ho trovato un suo omonimo». «Lasci andare — risposi — l'omonimo sono io». E raccontai al signore dal tono timido e cordiale la mia lontana disavventura».
A tredici anni all'Orto Botanico, venuto a lite con un suo coetaneo, lo ferì, sembra involontariamente, alla testa con un colpo di bastone. Il bastone era stato la causa della lite e la ferita riportata dal coetaneo dì Petrolini fu la causa dei-lontrata di questo nel riformatorio, dove ritornò giusto venticinque anni dopo in compagnia del direttore conosciuto ad Alessandria che lo considerava come il corrigendo divenuto illustre.
Petrolini possedeva da alcuni anni una villa a Castel Gandolfo dove spesso si davano convegno i suoi amici di Roma. Una volta andò a trovarlo un monsignore il quale rimase un po’ disorientato quando l'attore gli disse: «Non le sembra, monsignore, che da questa mia villa ai veda qualche cosa di grandioso che non è possibile vedere dalla villa papale?» Mi domandò perchè e allora risposi : «Pensi che io da qui vedo e ammiro la magnifica residenza papale e dalla residenza guardando qui si vede una modesta casa».
Già si è detto del clamorosi successi riportati all’estero. A Londra una sera fece al pubblico, naturalmente in italiano e con grande serietà, questa dichiarazione: «Io qui non parlo inglese. Può darsi però che lo parli. Saperlo, l’inglese, e parlarlo, è cosa facilissima. L’abilità è di saperlo e di non volerlo parlare. C’è dunque da sentirsi dire: com’è modesto Petrolini, sa l'inglese e non lo parla».
La dichiarazione lasciò il pubblico, in cui ben pochi conoscevano l'italiano, assai perplesso. Allora Petrolini continuò: «Persisto nel non voler parlare inglese. Ma se ci fosse qualche italiano disposto ’ a farmi da interprete, allora pregherei di tradurre quanto ho detto».
Vari Italiani assolsero tale piacevole compito e ci fu nello spettacolo circa un quarto d'ora di risate e di applausi.
«Per chi non lo sapsse — scrive Petrolini — purtroppo sono in disordine con la salute, perchè altrimenti, e sono certo, ora mi sarei trovato nell'Africa Orientale in quanto, fino dal marzo 1935, rispondendo all'appello del Duce, inoltrai a S. E. Teruzzi domanda per l'arruolamento volontario. Ma poi il «colpetto anginoso» mi ha messo in quarantena».
Povero, caro Petrolini! Anche nelle ore più gravi della sua malattia voleva intorno a sè gli amici, negli occhi .dei quali cercava di leggere il segreto della sua sorte. Poi comprese, e continuando a scherzare diceva: «Io sono l'Upim delle malattie».
Soltanto nelle ultime ore aveva dovuto darsi per vinto. E davanti ad alcuni intimi, vedendo se stesso ormai finito, aveva avuto una crisi di pianto e fra le lagrime aveva detto: «Ah, che vergogna! A cinquant'anni. che vergogna!». E forse voleva aggiungere che avrebbe preferito morire sulla scena.
«Corriere della Sera», 30 giugno 1936
«Corriere della Sera», 29 e 30 giugno 1936 |