Musco e i suoi primi passi
Dalla Piazza degli Studi con i chioschi illuminati tra mostre di giornali, sentore d’anice e batter secco di spremi-limoni, percorrendo via Ogninella che aveva a destra il Teatro Machiavelli, ove Giovanni Grasso passava da Cavalleria rusticana a Zoljara, a Omertà e a qualche zibaldone di effetto sicuro come La iena del cimitero, si arrivava al Teatro San Carlino.
Teatro ? Al pianterreno di un palazzetto che non tentava neppure di nascondere le finestre sconnesse ed i panni stesi ad asciugare, due grandi porte e un finestrino per i biglietti che spesso inquadrava una barba rossastra ed una pipa lunga come un bastone.
Tra le due porte, sul muro, figure di donne: pose e fogge che si contorcevano e si sperdevano in molteplici motivi ornamentali. All’interno: due stanzoni da deposito o da rimessa, separati da una arcata da cui pendeva una lampada ad arco. Sedie nelle prime file, panche in fondo, in alto, superate le scalette laterali, posti di palco a centesimi venticinque.
Precorrendo tempi lontani, vi agiva una compagnia stabile; tutta, o quasi, la famiglia Anseimi, compresa la nota attrice Rosina, in quel tempo tanto magra; e con lei la sorella minore Margherita, che era - come si dice ancora - la beniamina del pubblico. Biondissima, fine, con una vocetta bene intonata, teneva sulla scena un contegno pudico che strideva col suo gonnellino lampeggiante di lustrini e colle scollature dei suoi corpetti. Margherita non recitava mai; cantava: romanze sentimentali o duetti di amore con Angelo Mu-sca. Perchè Musca (non Musco) agiva lì.
Il programma comprendeva : un atto drammatico, la farsa ed in fine le canzonette. Non di rado il pubblico - studenti, impiegati, operai — esigeva a gran voce il ballo (ciò provocava l’apparizione di qualche questurino che eloquentemente si limitava a guardare attorno) e allora gli stessi interpreti del dramma si abbandonavano alla contradanza, tra apprassi, prominà e pasticcè che mandavano in visibilio la folla, questurino compreso.
Musco pigliava parte a tutto il programma: nel lavoro drammatico interpretando la parte del suonatore cieco o del piccolo rissoso venditore ambulante; nella farsa sotto lo striminzito quadrettato vestito di Piripicchio; nelle canzonette quale macchiettista; ed affermava ogni sera di più la sua prodigiosa, allegra estemporaneità. Egli era il conte Eucassio: baffi arricciati, soprabito stretto alla vita, ghette bianche, cilindro lungo quanto un fumaiolo, un piccolo giardino all’occhiello, qualche fondo di bicchiere alla cravatta chiassosa... Era donna Agnese: tinta, inzaccherata, ciabattante, smorti gli occhi che avevano fatto vittime al primo sguardo, stanca del vano sorridere la bocca sdentata... Era il cantastorie, coi suoi iperbolici racconti, la sua enfasi e i commenti salaci sempre nuovi che scatenavano nella sala gremita, mentre il sipario scendeva e saliva e l’orchestrina tentava di calmare il delirio, grida forsennate di bis.
Ma lo spettacolo divertente della serata era costituito dai duetti Anseimi-Musco. Musco cantava, sì; però spesso s’interrompeva con lunghe improvvisazioni in cui cose, persone, eventi della vita di tutti i giorni si inseguivano e intrecciavano coloriti e scoppiettanti come girandole. Era durante queste larghe parentesi che egli trovava modo di abbracciare l'Anseimi, di stringerla, di baciarla e, quando c’era riuscito, dava rumorosamente sfogo alla gioia, non già per il bene abilmente procuratosi, ma perchè era convinto che ogni suo atto aveva scatenato tempeste di gelosia nel cuore di tanti adoratori di Margherita, i quali con gli occhi spalancati assistevano dalle prime file di sedie.
Quello era il suo godimento, e Musco per esaltarlo, dopo di avere strillato comu s’ammalignunu ! (come si rodono !), cominciava a saltellare vorticosamente, accompagnando il ritmo con uno scroscio di riso che vero riso non era, ina convulsione, singulto, sibilo, che finiva con lo sciogliersi per lui e per il pubblico, già estenuato dal ridere, in irresistibili lagrime.
Nonostante questo, tutti, specialmente i giovani, gli volevano bene. Ad Angelo tutto era permesso. Guai se non fosse stato lui ! De vie scure vicine al teatro, tra i panchetti della gazzosa e i carrettini delle arance o dei cocomeri, più volte sentivano risuonare schiaffi o grandinare di pugni tra rivali. Una sera, si disse, luccicò un coltello; un'altra volta, e quella sera nessuno ebbe voglia di ridere, si seppe che uno dei tanti si era avvelenato.
Musco tra i suoi amici aveva il prediletto: uno studente. Negli intermezzi si incontravano per scambiare saluti, notizie, ma, sopratutto, sigarette. Anzi, per la verità, le sigarette le portava l’amico e Musco le prendeva. E l’amico non solo seguiva attentamente la rappresentazione, ma si curava anche d’altro; quando Musco interpretava la figura del venditore ambulante, siccome la mercanzia occorrente per la finzione scenica — magnifici fichidindia — non era nè d’alabastro nè di gesso — ne profittava per farne scorpacciate. Una sera, lo studente, dopo di averne contate esattamente trenta, si slanciò a scongiurare l’attore di smettere se non voleva rovinarsi. Musco sorrise:
— Ma che dici ? Quei sessanta bocconcini — perchè a tanti si sono ridotti — si mettono qui come una balata (lastra di pietra) e chiudono lo stomaco d’ogni parte. Le budella, rimaste sole, abbandonate, non possono nè parlare, nè chiamare aiuto per la debolezza... Ed io come un signore posso aspettare comodissimamente le quattro dopo mezzogiorno per mangiare. Capito ?
Di sera il teatro, di giorno i più umili mestieri per vivere. Questa era la vita di Musco. D’amico studente, pur sapendo ciò, si vide costretto una sera a chiedergli un favore: rosso in viso come un peperone, gli confessò che, non volendo più ricorrere ah a dolce compiacenza della mamma, non gli sembrava corretto seguire la via battuta dagli amici: trasferire cioè qualche bel volume dalla propria casa alla botteguccia dei libri usati. Intanto, per l’indomani gli occorrevano « assolutamente » dieci lire.
Musco, davanti a quell’urgente necessità, diede in una grande risata:
— Che ti scade una cambiale ? — e gli battè una mano sulla spalla.
Ma poiché l’altro, senza neppure sorridere, ripeteva le stesse cose, divenne serio anche lui, lo fissò negli occhi arrossati, non indagò, non volle sapere, pensò un istante:
— Giudizio, eh ? — ammonì dopo, affettuoso. — Domani avrai le dieci lire.
D’attore non diede le dieci lire nè il giorno dopo, nè mai-, perchè i due amici non si videro più.
Una lunga malattia e il successivo trasferimento da Catania della famiglia dello studente, la luminosa nuova vita per Angelo Musco: prima con Giovanni Grasso, poi solo: il grande successo, la fama, gli onori, la ricchezza. I due amici s’incontrarono solo dopo circa diciotto anni, non a teatro, ma in una sala severa di ministero, ove il grande ufficiale Musco era andato a trovare l'ex studente divenuto un così detto pezzo grosso.
Fu un incontro quello o, piuttosto, uno scontro ? D’uno cadde nelle braccia dell’altro. Poi vennero i ricordi, e alla fine l’amico disse:
— Angelo, un regaluccio sancarliniano al vecchio amico ci vuole. Per esempio: Orlandu e Rinardu
Musco si scosse come svegliandosi da un brutto sogno, con le mani scardassò rapidamente la massa crespa dei capelli e cominciò:
« Aspetta, aspetta, ca m'abbasta l’animo ccu’n corpo solo della mia fusberta di apparaggiarti questa tua probosciti ! » Così dicendo s’inquartò alla sverta fici girari l’arma comi animmolo e quannu s’addunò che il solo vento che produceva arrifiscava l’aria, fici catari lesto il suo fendento !...
A questo punto, in altri tempi, tuonava dal pubblico un formidabile : bum ! Quel giorno invece tutti risero, semplicemente.
Solo qualcuno, ancora una volta preso dalla recitazione del grande attore, istintivamente guardò in giro — dal lungo tavolo agli scaffali — come per timore che il gran vento potesse di colpo far roteare fuori della finestra fogli, fascicoli e libri.
Raffaele D’Angelo, «Scenario», anno XII, n.10, novembre 1943
Raffaele D’Angelo, «Scenario», anno XII, n.10, novembre 1943 |