Muore Pulcinella: nasce don Felice Sciosciammocca
Pubbreco bello mio,
Scusate nu momento...
Primme de dirve addio,
Figliemo ve presento.
Pur’isso è nu Petito!
Perciò... ve raccumanne...
Io v' aggio divertito
Pe cchiù de quarant'anne...
Ma ll'arte n’è cchiù chella
Mo l'epoca è cagnata...
Se vo’ Pulicenella
A machina sforzata!
De me la gente è sazia
Li forze meie nun ponno...
Sto riecchio... re ringrazia...
E lasse a vuie Totonno!
Con questi versi Salvatore Petito presentava al pubblico del San Carlino suo figlio Antonio, che doveva egregiamente continuare la carriera del grande attore nell’interpretare la famosa maschera di Pulcinella. Ma non solo vecchiezza disarmava il cuore del generoso Salvatore Petito, accenna infatti a un Pulcinella più dinamico che il pubblico reclamava per non sottoscrivere completamente il decrescere dell'entusiasmo verso la maschera preferita. Con Antonio il personaggio dal vestito bianco e dalla smorfia fissa ritentò con rinnovata energia di riprendere il «suo» pubblico e ci riuscì onorevolmente pur decurtando lazzi e sconcerie e certe situazioni troppo ingenue che i gusti degli spettatori sembrano ripudiare. Anche al San Carlino e per i frequentatori di questa roccaforte del teatro napoletano il Petito vagheggiò una formula di trasformare in viso la maschera nera e di incarnare più realisticamente l'agire di un costume con cappuccio.
Infatti solo in alcuni dei lavori da lui scritti o adattati seppe essere scrupoloso: questo personaggio volgare, egoista, poltrone, affamato, sciocco e furbo nello stesso tempo, era incompatibile colla sua vivacità di attore difficilmente compressa dalla consuetudine del ruolo. Ecco Pulcinella costretto a girovagare pei paesi del mondo, eccolo epicentro di tutte le situazioni più imprevedute, ficcato di forza nelle trame ingenue o paradossali: «Pulcinella pulizzastivali», «Le cento disgrazie di Pulcinella», «Minicuccio pigliato pe’ pazze», «Li quattro matrimonie a la Pignasecca». Non mancarono nel repertorio del Petito dei tentativi di evasione: «Pascariello sapunaro» e «Pascarieilo filatore» rimasero come grandi interpretazioni dove Totonno ebbe modo di uscire dalla maschera irrigidita e creare un personaggio più umano e convincente.
Intanto il «vaudeville» dilagava tentando di sommergere, colla vistosità delle scene e lo sfarzo dei costumi, il repertorio consunto, la vecchia recitazione codina e impolverata come le tavole dei palcoscenici tarlati dall’uso e dall’incuria. Nonostante l’impiego di quei mezzi non riuscì a distogliere il pubblico dal teatro dialettale, lo spettatore riconosceva ancora ragione di riso nei lazzi, nelle iperboliche trovate, ricreava il suo spirito partecipando ai tiri birboni, ai travestimenti, alle saporite battute, nonché all’esordio che non era tale senza l’invito alla clemenza e all’applauso obbligatorio per ripagare le fatiche dei comici.
«Lu varo de la Duilio», opera solennemente fischiata, potè continuare le repliche grazie ad un finale aggiunto «d’urgenza» dall’allora debuttante Eduardo Scarpetta:
Pubbreco rispettabile, mo l’opera è fernute...
E credo... già m’immagino che avite assai redute
Chisto è lo scopo, è l'unico pensiero de nuie tutte
Quanno nun state a ridere, allora sì che è brutte...
e dopo aver chiesto scusa se tutto non era di «prima scelta», concludeva :
«Dinto a sti quattro sproccole che se puteva fa?
Vuie mo comme a lo soleto nce avit’a perdonà...
E simmo cuntentissime, si vuie no nce applaudite,
ma forte no, sbattitece no dite co no dite».
Questa l’essenza di un continuo colloquio col pubblico, tipico esempio del teatro in vernacolo che ritrovava nelle persone che stipavano sedie e palchetti il suo interlocutore e si nutriva e viveva di questa calda partecipazione per tessere il filo della tradizione.
Ma fu merito indubitato di un grande attore comico: Eduardo Scarpetta, quello di aver avvertito, soppesato, compreso appieno questa decadenza di repertorio e della recitazione, entrambi assisi sul comodo retaggio della tradizione, sulla pigrizia professionale dei comici restii al rinnovamento e abbarbicati ai ruoli del «guappo» e del «Pulcinella» inairanti delle «toilettes» personali e dello affiatamento della compagnia. Eduardo crede a. una riforma del teatro dialettale, crede alla necessità di «alzare il tono» della messinscena, del trucco, dei costumi ma soprattutto «creare» un repertorio che non rinneghi le basi della tradizione ma modifichi nella forma quelle creature care al pubblico napoletano ormai avvizzite dal consumo e dall’esagerato abuso. Nasce Felice Sciosciammocca anzi Feliciello nella farsa in un atto: «Feliciello Sciosciammocca mariuolo de na pizza». Questo Sciosciammocca (Feli—soufflé—moi—dans—la—bouche, come si peritò di tradurre l’intraducibile nomignolo Peppino Turco) fu il personaggio che ritroveremo in tutta la produzione teatrale dello Scarpetta (una novantina di commedie originali e due operette) personaggio che pur mantenendo certi requisiti tipici della maschera pulcinelliana poteva agire libero da'lle pastoie del costume e quindi umanizzato, umanizzato dalla trasformazione che Eduardo operò con la tua gnande arte di comico. Nelle notissime farse francesi, allora imperanti sul teatro di prosa europeo, alle quali egli prestò attenzione per interpolarne con più dignità il dialetto, vi intravide un teatro strettamente borghese e gli piacque accostarsi a fotografare la borghesia napoletana che come risulta dalle sue stesse parole serviva egregiamente al suo esperimento: «... dove infatti se non in questo mezzo ceto, così caratteristico e così dissimile nella sostanza e nell’apparenza, io avrei trovato maggior campo di studio e di osservazione, più svariata ricchezza di tipi, di figure, di macchiette, terreno più fertile d'intrighi e di comici episodi, esagerazioni, pregiudizi, difetti più acconci alla satira e alla caricatura?».
Non scomparve, dunque, Pulcinella per partito preso, ma il suo suicidio fu provocato dalla lenta graduale sostituzione, forse inavvertita, ma certamente gradita se per più di vent’anni trovò confortevole successo non solo a Napoli ma in tutta Italia e ampia risonanza all’estero. Merito, dicevamo, del commediografo Scarpetta che sapeva riconoscere nelle riduzioni e nei rifacimenti le parti caduche da quelle valide, che sapeva aggiungere, stralciare, spessissimo «rifare» con spiccato senso teatrale quei tipi e quelle scene giudicate inefficienti, anacronistiche. Quale brio e quale divertimento nel «Tetillo ’nzurato» tratto dal «Bebé» di Najac e Hennequin, nel «Mettiteva a fà l’ammure cu' mme» dal «Fatemi la corte» del Salvestri e «Duje marite ’mbrugliune» dal «Domino Rosa». Sempre il gusto dialettale, l’innesto. della vivacità dell'arguzia della malizia partenopea trovarono ampio , risalto in questi rifacimenti che servirono, in fondo, allo Scarpetta come trame di situazioni e d’intrigo onde rinvigorire il decrepito tessuto d’intrecci e dare nuova vita a macchiette, tipi, personaggi svincolati dal ruolo che venivano a parlarci più vivi e simpatici e a farci ridere nella loro fisionomia più scaltrita e prestante.
Il San Carlino conobbe il trionfo massimo dello Scarpetta autore e toccò a Eduardo il maggior alloro di attore, poiché i suoi lavori seguiti per moltissimi anni da un pubblico entusiasta furono sostenuti dalle sue prodigiose e insuperate qualità d’attore comico e quando un inconsulto decreto municipale autorizzò il piccone a demolire quel glorioso teatro, Scarpetta lo fece rivivere ai «Fiorentini», al «Politeama», al «Valle» di Roma, al «Manzoni» di Milano, al «Bellini» di Palermo.
Le polemiche che seguirono la fertile produzione di questo instancabile capocomico-autore furono logicamente molte ed eterogenee. L’accusa più precisa in mezzo a tante malignità rimase quella di non aver voluto tentare o per lo meno incoraggiare la creazione di un vero teatro popolare. Questo appunto, che traeva origine nel fraintender: il termine dialettale con popolare, non ebbe, ad onor del vero, validi termini di prova in quanto il pubblico che accompagnò, acclamò, festeggiò, rimpianse Edoardo Scarpetta, decretò col biglietto d’ingresso e con i battimani che la strada da lui intrapresa era coerentemente giusta. «I napoletani vogliono solo ridere» — questo sostenne lo autore di «Miseria e nobiltà» — «Il teatro popolare napoletano non può essere che comico» E’ certo che alle sue doti d'interprete e di commediografo sono legate queste affermazioni.
Chiudiamo lasciando la parola ad uno scritto di Michele Uda apparso sul «Pungolo» il 26 Gennaio dell’81. «Bisogna andare al San Carlino per avere un'idea del garbo, del talento, e anche dell’originalità con cui vanno fatte le riduzioni. Lo spirito, il buon senso, il rispetto all'arte si sono oggi rifugiati nella topaia che fu un tempo-la reggia di Pulcinella. Se Questo è un miracolo, il tanto che lo fece è un attore nel quale la nobiltà della espressione comica si accoppia mirabilmente alla naturalezza del portamento, del gesto e della parola. Metteteci di giunta, una intuizione sicura degli effetti scenici ed un talento di assimilazione che dà alle riduzioni dei lavori altrui, francesi o italiani, quell’impronta di schietta originalità, onde, in parte, è spiegata la voga che oggi ha tra noi la commedia in dialetto. Le ragioni per cui la maschera del Pulcinella non piace più, al San Carlino, le abbiamo dette, sono quelle del pubblico che accorre in folla alle rappresentazioni di quel teatro tutte le volte che sul manifesto si legge il nome di Sciosciammocca».
E lo stesso irriducibile Verdinois del «Corriere del Mattino», sceso in feroce battaglia giornalistica con l'Uda, in occasione dello spettacolo dato appositamente in onore della polemica, era costretto a intitolare la sua recensione: «Trionfo di Sciosciammocca».
Carlo Di Stefano, «Teatro», anno II, n.5, 1 marzo 1950
Carlo Di Stefano, «Teatro», anno II, n.5, 1 marzo 1950 |