Ritratto di Raffaele Viviani
Raffaele Viviani
Attore e autore era tutto e sempre nell'episodio, nel tratto che rivela, nel particolare addensato e fulmineo
Il 22 marzo 1950, nelle prime ore del mattino, è morto a Napoli, Raffaele Viviani. Era nato a Castellammare di Stabia il primo gennaio 1888. Aveva incominciato a recitare ancora giovinetto, in teatrini di marionette e varietà ; non recitava più, perchè infermo, dal principio dell’ultima guerra.
Raffaele Viviani aveva un suo modo inimitabile di impallidire in scena. La figuretta di scugnizzo stava tesa, nervosa, un po’ sollevato sulla punto dei piedi; teneva egli gli occhi socchiusi, e il suo volto irregolare, brutto, straordinariamente patetico, impallidiva, impallidiva ancora, fino all’incredibile, si facevo cereo, disfatto. In mezzo al palroscenico Viviani inghiottiva saliva amara, i muscoli del collo irrigiditi, le labbra sporgenti in una smorfia atroce; e dominava l'ira, il panico, lo smarrimento.
Egli stava così, come dissanguato, sotto i colpi del dramma, nell'attesa di un dolore che si faceva sempre più grande e lacerante: erano gli insulti di un un amico infame, lo scherno e il tradimento della donna amata, la beffa o l'ingiuria di gente frivola o crudele. Viviani, frenando il tremito interiore, così accettava la situazione del personaggio, e pareva a noi, spettatori, di vederlo sprofondare, perdersi in quell'angoscia. Poi veniva lo scatto liberatore, la scena a grand’effetto, che faceva scrosciare gli applausi. Ma tutto Viviani era stato lì, in quella concentrazione di sofferenza, in quel momento di estrema umanità; Viviani attore-autore era tutto e sempre nell'episodio, nel tratto che rivela, nel particolare addensato e fulmineo.
Da quel punto avrebbero potuto svolgersi bellissime, ricche commedie e drammi complessi e ben favoleggiati. Ma ciò non gli riusciva che raramente: suo ero il taglio spesso magistrale di un atto, di una scena, l'entrata veloce in argomento, di un verismo che mozzava il fiato, suo era quello schizzare una macchietta tragica in pochi secondi: poi le stupende promesse non avevano gran seguilo, esaurite in se stesse, nel suo temperammo di artista rozzo, autodidatta, affocato e sentimentale e romantico, pel quale anche l’espressione pittoresca, il dialetto, il napoletanismo, il colore non erano che mezzi a far trasparire tenerezza e ansietà. I primi atti delle sue commedie erano spesso, per questa ragione, i migliori; Viviani vi condensava l’intravista realtà di un tipo umano, che poi da quell'affanno, da quell'ironia, da quel patimento non sapeva più districarsi e smuoversi; e per la stessa ragione egli, che aveva a volte trovate teatralmente arditissime, riusciva a dare in una scena sola tutto l'aspetto di una vita, di un destino, là ove ad altri ci sarebbero volute scene e scene e vari atti: ma poi si fermava li, quasi svuotato.
Del suo repertorio potrebbe rimanere celebre, ed esemplare, la scena di un primo atto appunto ('O masto ’e forgia), dove un marito, un fabbro-ferraio, entra in casa mentre alcuni coinquilini commentavano a mezza voce la fuga, avvenuta pochi minuti prima, della moglie di lui. Egli coglie a volo una frase qualunque, spregiativa e offensiva; ma non scatta, non si adira; egli sa già tutto, è perfettamente padrone di sé. Si avvicina al gruppo e rapidamente entra in argomento. Con dolore inenarrabile, segreto, che traspare appena dal discorso spoglio castigato serrato, narra di sé, spiega la situazione sua, dimostra di non essere un marito volgare, o condiscendente o imbecille, e confessa, altero sincero straziante, di amare la moglie con disperata lucidità. E’ una scena svelta lieve scorrevolissima; ma ogni parola scavava a fondo, ogni parola era una rivelazione. Scena stupenda, inventata, creata con elementi dal nulla, racchiusa in un rapido impeto drammatico, svolta e conclusa con una specie di furore, teatrale e poetico, Poi il dramma si perdeva in scene incerte e varie. Ma in quella scena Viviani era diventato per pochi secondi maestro di teatrale umanità. Viviani, che molti unni fa narrò la sua vita su queste colonne (ne fece anche un volume: «Dalla vita alla scena»), veniva dal caffè-concerto: era stato un umilissimo attore di varietà. Ma negli anni che immediatamente precedettero la prima guerra mondiale, aveva raggiunto la celebrità. Egli era riuscito a riprodurre, con una specie di drammatica austerità, tra canterine e acrobati, la figura, il tipo, la «maschera» dello scugnizzo in tutte le sue variazioni e sfumature. Non tutti i goderecci frequentatori del caffè-concerto lo apprezzavano; ma vi fu chi ne rilevò la potenza plastica ed espressiva. Scugnizzo era allora, e, se con questa parola si vuole anche accennare a un modo di crudezza sentimentale, di miseria fantasiosa, ili sofferta malinconia, scugnizzo egli rimase sempre. E nel ’18 rappresentò, con pochi attori, in un teatro napoletano, un atto ch'egli aveva scritto, ’O vico, e che segna l’inizio della sua carriera di commediografo e di interprete delle proprie commedie. A ricordare ora le tappe degli anni felici molti nomi ci soccorrono, di opere colorite accese beffarde tristi e buffe: ’E Piscature, ’O fatt’ ’e cronaca, 'O Spusalizzio, Tre amici un soldo, Padroni di barche.
Erano spesso spettacoli vivacissimi, ombreggiati, contro quel gran sole meridionale, da un che di opaco, di struggente, con la sorella di Raffaele, Luisella, magnifica attrice, dalla voce gutturale, dall’accento aspro, che creava figure di popolane proterve, appassionate, silenziosamente tenaci, ed accresceva la commozione di quei drammi festosi di non so che remota violenza, di non so che naturalezza primitiva e confusa. Primitivo, nel senso di ingenuo, di candido, pur era Raffaele. Le sue abilità di teatrante, le sue esperienze umane e sceniche non avevano corrotto o nascosto quel candore d’animo. Egli (che scrisse anche poesie) credeva in quel suo mondo realistico e di fantasia; credeva, con patimento. Tutto il ciarpame dialettale, i luoghi convenzionali, le cose banali e comuni, di cui ampiamente si serviva, anche i suoi errori non avevano soffocato, entro di lui, l’aspirazione a far sua, fraternamente, la sofferenza dei suoi personaggi. Violenti o crepuscolari, pietosi o buffi, egli, recitando, se li teneva stretti al cuore. E quando con quel rictus sul viso strambo, con quel sorriso tra i denti, a passetti brevi quasi scivolando, egli veniva alla ribalta a ringraziare, a noi, più di una volta, parve di scorgere nei suoi occhi pungcni una specie di infantile timidezza, qualcosa che stava tra l’innocente vanità e la soddisfazione. Perché Viviani era soddisfatto, e un po' orgoglioso, ogni qualvolta gli pareva di aver fatto vivere «veramente» sul palcoscenico, per qualche minuto, una di quelle creature umili, patite, straziate, alle quali gli altri non pensano...
Francesco Bernardelli
"statte bbuono Rafè"
Salutandoci, quel giorno, tu dicesti: «Nun ci vedimme cchiù». Ti aggredii con una interrogazione e affermazione insieme: «Ma tu che vai dicenne?». Strabuzzasti gli occhi, e con la mano ossuta ti cercasti il petto le braccia la testa; volevi dimostrarmi ancora una volta con l’eloquenza del gesto, poiché me ne avevi già molto parlato, che sapevi tutto di te. Rimanemmo abbracciati qualche istante e quindi rapido mi voltai, falsamente disinvolto, con l’ostentazione di voler considerare quell'addio, uno dei mille saluti dei nostri trentanni e più d'amicizia. «Statte bbuono Rafé», dissi. Ma non ebbi più il coraggio di voltarmi. Ti sentivo dietro di me, aggrappato più che con lo sguardo con le mani stesse alle mie spalle, perchè io ero un tuo amico ancora sano che si allontanava, e tu volevi seguire solo quelli che potevano ancora facilmente e con sicurezza poter dire: «Statte bbuono Rafé». Avevi terrore che a qualcuno sfuggisse: «Addio, Rafé». Ed io non te lo dico nemmeno adesso, che nemmeno adesso voglio darti dispiacere, Rafé. Forse in questo istante, mentre io scrivo e di lassù tu leggi parola per parola, e vuoi vedere che dico e come «vado a finire», sorridi *cu l’uocchie e co corei a questo mio imbarazzo. Ma non è più imbarazzo, Rafé: è dolore. So che non te ne sei andato contento, che troppo hai sofferto prima, soprattutto dentro, sempre più dentro quanto più cresceva Famarezza di questi ultimi tempi che «cu l'uocchie e co core» hai sorriso a tutti. Però «mo si vede» che sorridevi «pe fa piacere», per non «affliggere» gli altri.
Rafé, quanto «tiempo» è passato? Se dico «tutta ’na vita», «'u tiempo» ci sta giusto giusto: ci siamo incontrati la prima volta che io avevo quindici anni e tu ventidue. Ma tu eri già, per me, un’artista; anzi, eri un'artista per tutti: «stavi n’coppa o tiatro» : cantavi mimavi recitavi; già facevi «lo scugnizzo», e in quella baracca di legno che si chiamava Sala Marconi, tu «chiudevi la prima parte» e tua sorella Luisella, indimenticabile, era già una «stella» e cantava nella «seconda parte», cioè nel «clou dello spettacolo». Eravamo al caffè-concerto millenovecentodieci; E l'utimo numero era Yvonne de Fleuriel o Armand Gil. Anche Petrolini e Cuttica e Molinari erano ancora nella «prima parte»; solo per Maldacea l’orchestra suonava una marcetta speciale prima che comparisse applauditissimo. Io impazzivo «per veni n’coppa o tiatro» e tutto mi sembrava splendido sublime celestiale, purché fosse in palcoscenico. Non vedevo nemmeno l'orrore della Sala Marconi, dove i marinai colmi di alcool si toglievano le scarpe e dalla platea le scaraventavano in direzione dell' «artista» non gradito.
Quelle scarpacce andavano a finire sull'orchestra, e il maestro tranquillamente le raccoglieva e le posava in fila sul pianoforte. Alla fine i marinai si picchiavano tra loro perchè ognuno affermava che le scarpe più nuove erano le sue. Tua sorella Luisella, scicchissima e disgustata, diceva: «Madonna che ambiente» e tu, accomodante, la calmavi ripetendo: «Che ci vuoi fare, qua sono plebe, ma noi stiamo scritturati per l'Alta Italia». Io frequentavo il laboratorio di un fotografo dove eri venuto a «farti i ritratti delle macchiette»; avevi cioè portati gli stracci dello «scugnizzo» e dell'«acquajuolo» per posare con lo sfondo di una tela dipinta: l'albero, la costa e il Vesuvio fumante. Eri venuto nello studio solo perchè sapevi che avevamo quel fondale. Ma sul pavimento di legno, per educazione di fronte a un grande artista, avevamo messo uno scendiletto. Il principale rimaneva delle mezzore sotto il panno nero, con la sua enorme macchina davanti — il solo soffietto si allungava oltre mezzo metro — dal cui otturatore, pendeva una peretta farmaceutica in proporzione del monumentale apparecchio. Quando venisti allo «studio» io tremavo di ammirazione; ti servivo come il chierico sull'altare. Ti vidi spogliare, rivestire, truccare. Feci di tutto perchè mi fosse ordinalo di portare io il pacchetto, uscendo. Volevo essere al tuo fianco per la strada; ero sicuro che «tutti» si sarebbero voltati a guardarti e mi avrebbero visto con un artista.
Fu stabilito anche, dopo miei infiniti armeggìi, che sarei venuto io stesso a portarti le fotografie in teatro, due o tre sere dopo la posa. Tu aggiungesti con sussiego : «Cosi potrai stare alla rappresentazione». Ma quando il principale, che era milanese, mi consegnò la busta con gli «ingrandimenti formato gabinetto» e precisò di «stare bene accorto, e non lasciarle se non ri danno sette lire e mezza», mi sentii avvampare il volto. Una cifra astronomica. Rafé mio, quanti ingrandimenti ti avevi ordinato? Il mio vecchio principale non capiva in quale baratro ti eri cacciato, ma, pur avendo quindici anni e forse perchè possedevo l’istinto di «fare l’artista», io sapevo che mai più al mondo avresti potuto avere sette lire e mezza per le fotografie. Infatti, quando ti fui davanti in camerino e il tuo viso divenne lutto un sorriso e mi strappasti la busta di mano, non ebbi più il minimo dubbio di aver mirato giusto. «Stetti alla rappresentazione» ; ritornai in camerino a spettacolo finito; uscimmo come amici, e finalmente ri svelai il mio segreto: dissi che volevo fare l'artista. «Ma tu sai cantare?» domandasti. E alla mia stupita meraviglia, aggiungesti: «figlio mio, ma tu che artista vuoi fare se non sai cantare?». Non ci avevo mai pensato prima; ma era logico. Decisi quindi che avrei dovuto imparare. Per una settimana venni nel tuo camerino tutte le sere e gratis sedetti in platea mercè tua, per la rappresentazione, ma allo «studio» non mi presentai più. Ora te lo posso dire: fui anche sospettato di aver «tenuto mano», cioè di averti avvertito, l'ultima sera, che fuori della Sala Marconi c’era il fotografo. Era vero: te lo avevo detto candidamente, perchè tu potessi consegnare al mio principale la cambiale di sette lire e mezza che avevi deciso di lasciargli. Il giorno dopo una guardia municipale, conoscente della nostra famiglia, comunicò ai miei che ero stalo «cacciato dal fotografo». Tre anni dopo li comparii davanti nel tuo camerino al San Martino di Milano; come tua sorella, eri già nella «seconda parte». Fuori del teatro erano esposte «quelle» fotografie, e ancora da quelle fotografie furono più lardi eseguiti i due cartelli murali che li presentavano nello scugnizzo e nell'acquajuolo. Questa volta venivo dal Teatro Lirico, dove avevo anch'io un camerino — non tutto mio, non sul palcoscenico certamente — ma un camerino era : recitavo con Alfredo De Sanctis: facevo Tiburzio nell’Aiglon. Era stata la tua partenza a mettermi il fuoco addosso, a spingermi solo e «nudo» fino a Milano. E tu invece lodasti — questo ricordo mi è ritornato in mente poi tante volle — i guanti che avevo in mano: erano bianchi, lattei, scamosciati. Me li aveva regalati mio fratello carabiniere; erano quindi di ordinanza.
Quando ti dissi che ero «entrato in arte» spalancasti gli occhi; ed io soggiunsi: «ma non so cantare». Avevi lasciato il «ragazzo del fotografo» ; ti stava di fronte un attore : mi abbracciasti. E quella stretta me la sento ancora sul cuore. La nostra amicizia si stabilì in quel momento: e non è finita nemmeno all'alba del 22 marzo, quando te ne sei andato per sempre. Che una bella limpida stupenda amicizia è sì grande dono, conforta cosi tanto, che non si può proprio pensare sia finita per sempre. Ecco perchè nemmeno adesso posso dirti addio: statte bbuono Rafé.
Torino, 23 marzo 1950.
Lucio Ridenti
«Il Dramma» 1 aprile 1950
Francesco Bernardelli e Lucio Ridenti, «Il Dramma» 1 aprile 1950 |