Petrolini ogni sera inventava sé stesso
Sono passati vent'anni giusti dalla morte di Ettore Petrolini, dal giorno in cui, vergognandosi di morire « non ancora cinquantenne », l’attore si spense in Roma, dopo lungo patire. Tutte le volte che la sua immagine si riaffaccia alla mia memoria, o quando traversando il Verano mi vien fatto di sostare davanti alla sua tomba, costantemente infiorata, sempre mi accade di domandarmi a quale tra i maggiori attori da me uditi sarebbe possibile accostarlo. E sempre me lo ritrovo davanti isolato.
I grandi attori sono inimitabili, e restano tali nonostante il numero spesso rilevante degli imitatori: si pensi, per citare due tipi diversissimi, a un Ferravilla e a un Ruggeri. Ma non sappiamo nemmeno se Petrolini, attore da cima a fondo, debba essere considerato entro i limiti che solitamente vengono assegnati agli interpreti, anche sommi. Andando a rileggere certe sue pagine, che a quanti non fecero in tempo a conoscerlo direbbero poco, e ripensando alla animazione che la sua presenza fisica conferiva ad esse, parrebbe più giusto dire che Petrolini, attore e uomo, lo si consideri come scrittore di commedie, inventore di filastrocche, creatore di tipi, fu. fino ai momento del suo ultimo respiro, una « energia » al servizio della scena.
Coricato lo vidi una volta sola, quando lo colse a Milano il primo attacco del male che qualche anno più tardi lo avrebbe ucciso. Petrolini, credo per la prima volta, fu costretto a interrompere le recite; e la sua assenza dal palco-scenico durò circa un mese. Ma dell'ansia di quanti lo circondavano pareva essere il solo a non avvedersi. Certo non la condivise. E se egli pure temette per la propria sorte nessuno, allora, potè veramente sapere. Il giorno che nel corridoio dell’albergo udì le voci sommesse di amici i quali erano venuti a prendere sue notizie, egli volle vederli nonostante la infermiera li consigliasse di andarsene. Non si contentò di un saluto: li trattenne e propose loro una partita a carte che quelli, temendo di contrariarlo, finirono per accettare. « Se non mi decido a uscire dal letto », disse non senza violenza, « andrete a battere le mani a Viviani ».
E dal letto usci anzi tempo. Pallido ed emaciato riapparve alla ribalta del «Trianon». In quel teatro, il cui nome era legato al suoi primi successi di attore del varietà, recitò una sua riduzione di Molière. Alla fine, stremato dalla fatica e madido di sudore, il medico lo riportò in albergo. Se lo avessero lasciato fare, sarebbe andato al ristorante. Così- diritto e scattante, con quel suo scheletro proteso in un perenne atteggiamento di sfida, Petrolini pareva essersi assicurata la vitalità dei bruchi che continuano a vivere spezzati in due.
Certo amò la vita con attaccamento quasi feroce, e anche per questo, forse, gli piacque di deriderla. Per istinto, come pochi, ne conobbe i segreti: e li espresse attraverso il gesto e la parola in sintesi di mirabile potenza; e quelle sintesi talvolta capovolse, sicurissimo di sé, delle sue capacità di creatore e interprete. Ma al fondo della sua chiarezza rimaneva una zona inviolata, qualcosa che egli avrebbe detto « più tardi ». Gran parte del suo fascino di attore, delia attrazione ch’egli esercitava su quanti lo avevano udito e riudito innumerevoli volte, va ricercata proprio in quella sua costante promessa. Entrando in teatro per ascoltare Petrolini non si sapeva mai davanti a quale nuova scoperta, quella sera, egli avrebbe potuto portarci.
Perché è vero ch’egli spesso usciva dal personaggio con sarcasmi improvvisi, o anche soltanto per un cenno di saluto a un conoscente entrato in platea, ed era difficile dire se il suo piacere nascesse dall'aver distrutto una illusione o non piuttosto dal proposito di immediatamente ricrearla, ma quelle sue bravure e scaltrezze, quei suoi estri, che talvolta parendo tali nascevano dal calcolo e i suoi calcolatissimi effetti che invece s'accendevano dì invenzioni repentine, oggi non sapremmo intenderli se per avventura dimenticassimo che il personaggio vero era lui, Petrolini, e ch’egli ogni giorno, ogni sera, inventava se stesso.
Per questo la sua arte, della quale si sono tentate innumerevoli catalogazioni, non assomigliò a nessuna. Petrolini non aveva -ascendenti, e se ne avesse avuti li avrebbe rinnegati. All’idea di una qualunque parentela Ideologica si sarebbe ribellato senza temere d’essere ingiusto: l’istinto polemico lo portava a non tollerare « gli altri », caso mai a guardarsene e a difendersi. E nel teatro si sentiva radicato a tal punto di limitarlo alla propria persona. L'eco di una discussione su questo o- quel principio, intorno a un concetto, a una tendenza, a una qualsiasi precisazione estetica, lo infastidiva. « Io il teatro lo faccio, non lo discuto», era solito dire. E con ciò ribadiva da quale sostanza vigorosamente genuina, da quanta energia segreta e da quale somma di percezioni scaturiva il suo Istinto prodigioso.
Nessun altro avrebbe potuto così vittoriosamente contravvenire alle regole, superare il teatro rimanendo in esso, riportarlo a una forza e schiettezza di primo giorno della creazione. Chi potè pensare che la asprezza satirica facesse di Petrolini un distruttore, si ingannò. Essa era una diversione del suo impeto creativo, un suo modo congeniale che in un tempo minimo poteva rinascere e consìstere anche in modi contrari. A talune formidabili risate che Petrolini suscitava nelle platee di tutto il mondo, la memoria di chi lo udì e lo ammirò, contrappone gli improvvisi silenzi ch’egli sapeva imporre con un solo sguardo o soltanto pizzicando una corda di chitarra.
A ripensarli oggi, da quei silenzi arriva l’Immagine di una stagione perduta. La attraversa la faccia grifagna di un attore la cui unicità è affidata al ricordo di quanti gli sopravvivono. Una fisionomia ferma nel tempo e della quale ogni tanto, ancora, ci arriva un brivido, ma della quale nessuno che non la abbia veduta riuscirà mai a farsi una idea esatta. Una fisionomia sottratta alla generazione d’oggi. Soltanto chi lo intese e seguì, può sapere che cosa significhi aver perduti) un uomo di teatro quale fu appunto Petrolini, e ogni tanto desiderare di riudirlo. Inutilmente.
Raul Radice, «L'Europeo» anno XII, n.28, 8 luglio 1956
Raul Radice, «L'Europeo» anno XII, n.28, 8 luglio 1956 |