Un melone per la Bella Otero
I re le donarono collane e diamanti: ora accetta con dignità l’omaggio del fruttivendolo
NIZZA, luglio
«Un melone, presto, un melone per madame!». Sulla cesta delle cucurbitacee s’è alzato un imperioso bastoncino, la punta diritta e forma sopra il frutto desiderato: sembra lo scettro d'una sovrana antica puntato sulla testa d’un ministro infedele. Il melone spicca il volo, dalla cesta alla bilancia; di qui, rapido, passa tra le mani del venditore e poi in quelle di madame. Madame scruta il melone, lo gira e rigira tra le palme, affonda il naso tra gli effluvi maturi della scorza grassa e gialla. Appare soddisfatta, ed ora s’è ingobbita a frugare nella borsetta per gli spiccioli. «Non importa», esclama il fruttivendolo con un mezz’inchino, «c’est mon cadeau pour la Belle Otéro!».
Ogni mattina alle undici in punto da un portoncino di rue d’Angleterre esce e s’incammina verso le bancarelle del mercato rionale Carolina Otéro, la maliarda che sfolgorò nella Belle Epoque. Sulla destra un bastone di malacca, nella sinistra la sporta; ad ogni vetrina, una sosta. Non c’è nulla di nuovo nelle vetrine di rue d’Angleterre. ma la Belle ha ottant’anni (c’è chi dice addirittura novanta) e bisogna pur che in qualche modo cerchi di nascondere la fatica di portarseli tutti sulle spalle. Abita al numero 26, nella stanza «la plus charmante» della pensione «Novelty», una modestissima camera mobiliata dove ninnoli, mobili, tappeti, pensionanti appaiono lisi e dimessi, fuori del tempo. La Belle vive in assoluta solitudine; il mattino, i piccioni le vengono a dare la sveglia. Picchiano con il becco sulle di qualche erbivendolo, ritorna a casa impettita, la sporta verdeggiante d’insalata, due pomidori, un ciuffo di sedano ed un melone. Si prepara da sola il pranzo, al fornello elettrico. Non ha cameriera, fa tutto da sola. La sua padrona di casa se ne lamenta: «Sono sei anni che non riesco a mettere piede nella sua stanza». E sì che ne avrebbe voglia: sono sei anni che le vorrebbe chiedere l’adeguamento dell’affitto, e da altrettanto tempo l’inquilina riesce ad eludere il discorso e a tenerla sul pianerottolo. Muratori, imbianchini, decoratori incaricati di pulizie generali e di riparazioni in grande stile, hanno dovuto ripiegare sconfitti con scale, secchi, pennelli.
La pensione «Novelty» s’è rinnovata in ogni sua parte: solo una stanza è rimasta intatta, ed è quella sulla cui porta è inchiodato un piccolo biglietto da visita: «madame Otéro». «Non è simpatico, vous savez, trattare con una donna che ha tanto vivo l’orgoglio della sua antica bellezza», si brontola in portineria.
I difficili umori della vecchia inquilina del secondo piano si ammorbidivano fino a qualche tempo fa con la cerimonia della distribuzione della zuppa ai vecchi dell’ospizio. Piaceva alla Belle recarsi una volta alla settimana al ricovero di Nizza, affollato di baroni e granduchi ridotti in povertà, antichi scialacquatori dimenticati da tutti, dame decadute e maggiordomi senza più livrea. La Belle si sentiva a suo agio: per un’ora, ritornava ad essere la regina della festa, una regina in pelliccia di coniglio, con il mestolo della minestra tra le mani. Scodellava lunghissimi brodini di verdura, e tra i vapori della pentola e delle zuppiere i vecchi dell’ospizio rivedevano il volto della giovinezza lontana. Terminato il rito, un antico rubacuori usciva dai ranghi e con un faticoso inchino offriva il braccio all’Otéro, per accompagnarla a casa. Quella galanteria strappava lacrime ed applausi alla comunità valetudinaria di Nizza: la coppia si avviava passo passo lungo il marciapiede, e gli astanti la seguivano inteneriti fino alla svolta della strada.
Ma ora quel galante rubacuori dell’ospizio è morto. Inoltre la Belle Otéro ha dovuto ridurre la sua lista civile, causa il rincaro della vita, e rinunciare all’ultimo lusso, la beneficenza. Anche il postino, assiduo alla sua porta fino a pochi anni or sono, non bussa più: hanno finito d’arrivare certe buste oblunghe, verdognole, che le recavano chissà che notizie, chissà da che mondi. «Che fa, allora, madame durante il giorno?». «Non lo, sapete? Scrive le sue memorie, deve smentire tutto ciò che fu pubblicato sotto il suo nome vent’anni fa». Vent’anni fa erano ancora vivi i protagonisti delle avventure descritte da madame. La Belle Otéro addomesticò parecchio le sue rimembranze, prima di darle all’editore; forse contava in qualche ritorno di fiamma da parte di amici dei tempi migliori. Ma nessuno si fece vivo. Il libro, insincero e insipido, si vendette pochissimo; l’editore fallì.
Cinque anni fa ritornò alla carica un avvocato parigino, che riuscì a farsi dare un manoscritto in cambio d’un piccolo vitalizio per madame. La cosa finì male. Madame s’aspettava d’essere pagata, l’avvocato invece presentò la parcella. «È vero che avete detto al vostro legale: "Desidero spremervi tome un limone?"», domandò il giudice alla Belle Otéro quando comparve in tribunale. «Non ricordo esattamente la frase, ma può ben darsi ch’io l’abbia pronunciata». «Riconoscete che l’avvocato vi ha ottenuto la pensione cui aspiravate?». «Lo riconosco», ribattè la Belle, «ma ho sempre ritenuto che il suo interessamento fosse dettato dalla sua gentilezza d’animo e dalla sua ammirazione per me». Il tribunale condannò l’avvocato alle spese di giudizio.
Ora madame Otéro sta riscrivendo il vero, autentico memoriale della Belle Epoque. «È un libro incendiario, che darà fuoco ad un mito e ad un secolo», annuncia. Indiscrezioni? «Le ho rifiutate persino a Sommerset Maugham che era venuto apposta a trovarmi. Niente indiscrezioni, niente interviste, niente fotografie». La Belle è apparsa nello spiraglio dell’uscio, gli occhi fiammeggianti, la pappagorgia elettrizzata dai tic. Alle sue spalle, l’incredibile confusione dei ricordi appesi alle pareti, rovesciati sul tavolo, infilati nel riquadro delle cornici; biglietti da visita, ritratti, ventagli, diplomi, soprammobili, specchi, boccette, spazzole, cuffie, pizzi, campane di vetro ed un odore di vecchio e di chiuso, l’odore del «liberty» e dei rimpianti.
C’erano voluti i pugni sulla porta, perché si decidesse ad aprire. «Non è ch’io sia sorda, ma il fatto è che da qualche tempo non bussano più che degli scocciatori», ci spiegò con l’aria di chi aspetta conferma. Le mani serrate al petto per fermarvi il risvolto della vestaglia, l’occhio nero e vivo, la bocca piccola, a mezzaluna, una testa impertinente e folla di capelli appena sbiaditi dall’età, madame fa scudo al segreto della propria stanza.
È questa la donna che lo zar implorava: «Rovinatemi, ma non lasciatemi», e che il Kaiser descriveva al fedele Bulow come «l’ottava meraviglia del mondo». Non ha più attorno al collo nessuna delle sue famose collane (si diceva che lo zar in persona le recasse, ad ogni sua visita, una pietra preziosa in dono, tolta dalla corona della Santa Russia; ed anche Rasputin aveva arricchito la sua collezione di diamanti con un «presente» costosissimo); un paziente lavoro di maquillage è visibile in ogni centimetro quadrato della sua carnagione. La Belle Otéro non si è ancora arresa all’età. Dodici volte i giornali di tutto il mondo l’hanno data per morta. Due anni or sono, in un tram di Nizza volarono due poderosi schiaffi: una vecchia signora insegnò a quel modo l’educazione ad un giovanotto che non aveva voluto cedere il posto ad una sposa incinta. «Bellissimi schiaffi», esultò il controllore; si volse a guardare da che parte venivano e come riconobbe la Belle si fece il segno della croce. «Gran Dio, ma non dicevano che era morta?» mormorò. È invece ancora tanto in gamba che proprio in questi giorni la stampa parigina ha dato l’annuncio del suo prossimo ritorno sul palcoscenico del Casinò de Paris per un quadro di rievocazione della Belle Epoque. «Una bugia monumentale», ride l’ultra ottantenne madame; e aggiunge con sussiego: «Io credo che un’artista debba saper finire!».
Da quali lontananze arriva questa irriducibile vecchietta? Il secolo moriva con una sfida alle tenebre: l’elettricità Conquistava le campagne, il french cancan imperversava sui palcoscenici di Parigi. Una sera, ad un festino tra banchieri riuniti «Chez Maxim», fu portato in tavola, al dessert, un vastissimo piatto d’argento: ne emerse una fanciulla dai capelli neri, avvolta in leggerissimi veli; balzò a piedi nudi sui tavoli ed improvvisò un’intrepida danza andalusa. Era Carolina Otéro, arrivava calda dalla Spagna dove «aveva seminato il terrore tra la gioventù». Era nata sotto una tenda gitana, non si sa esattamente in quale località, né esattamente in che anno. Un giorno sua madre, Carmencita, sorprese la piccina intenta a preparare un manicaretto con funghi velenosi: era la pietanza che Carolina si proponeva di offrire al patrigno. L’allarmante piccina fu consegnata alle monache; ma una notte queste furono risvegliate dai loro pii letti da uno strepito di nacchere che saliva dal cortile. Nuda, illuminata dalla luna, Carolina ballava il «flamenco».
Sotto una pioggia di petali e di confetti (quarantamila sacchi di dolciumi rovesciati sulla folla) la Belle Otéro trionfò a Nizza nel corso dei carri mascherati del 1895: la sua carrozza era tempestata di brillanti. Vinse un premio di circa quindici milioni di franchi (al valore attuale), che si affrettò a gettare la sera stessa sul tappeto verde di Montecarlo. Una notte perdette al trente et quarante il panfilo del barone Rotschild. Ma un mattino le toccò un’amara sorpresa: nella sua stanza da letto ricevette la visita d’uno sconosciuto che le portava un biglietto del marito: «Mia carissima, debbo privarmi di te, ultimo bene rimastomi. Sono stato sfortunato al baccarat e ti ho dolorosamente perduta. Confido che vorrai tenerti a disposizione del latore fino ad estinzione del mio debito d’onore». «Quella volta, proprio, mi vergognai», narra la Belle. Un impercettibile sorriso le ha sfiorato le labbra: madame considera con molta indulgenza le proprie e le altrui pazzie. «Erano tempi fatti così».
Erano i tempi in cui le dee pareva avessero preso casa tra i mortali: Cléo de Mérode dormiva in un letto di vermeil, grandissimo, in forma di conchiglia, sostenuto da quattro tritoni d’argento massiccio. A Lina Cavalieri, D’Annunzio dedicava un romanzo: «Alla massima testimonianza di Venere sulla terra», ed all’Otéro una fotografia: «A la Beauté vivante». Il fulgore di queste stelle trapassava persino l’opaca atmosfera della provincia: la fotografia della Belle Otéro s’infilava nella specchiera della signora Felicita, nel buon salotto canavesano. Alcuni mesi fa soltanto la vecchia signora di Nizza seppe dei versi che Guido Gozzano le dedicò nella famosa poesia; li ha mandati a memoria, ed ha spedito ad Aglié, alla casa di Guido, la propria fotografia da collocare tra i cimeli.
In questi anni di batoste, la Belle Epoque appare agli occhi dei francesi come un favoloso castello in cui verità e leggenda si confondono. C’è un fatto che nessuno riesce a spiegarsi: la castellana di quel tempo felice, che vide la storia d’Europa da dietro il tulle dell’alcova, come mai non riuscì a cogliere in tempo nemmeno il più remoto scricchiolio di quel crollo che stava maturando? La Belle Otéro che fu colmata di regali non ebbe il dono che le sarebbe stato più prezioso, il dono d’un suggerimento per impiegare bene il proprio danaro. Possedeva sei ville, governava diciotto domestici, ascoltava i sospiri dei grandi della finanza e della politica. Ai suoi capricci tremavano i consigli della corona, i consigli dei ministri, i consigli d’amministrazione. Ma investì tutte le sue ricchezze in buoni del prestito russo: un tesoro che s’è volatilizzato ai primi spari della rivoluzione d’ottobre. «I miei risparmi non sono che dei souvenirs, che non valgono più un franco». Ora la Belle Otéro vive con un modesto vitalizio che, si dice, i Casinò della Costa Azzurra le passano in memoria degli antichi nababbi che si rimorchiava al tavolo verde negli anni dello splendore. «Non c’è nulla di cui io mi penta, nemmeno della mia passione per il gioco», conclude madame. E con un triplice giro di chiave torna a chiudersi nel suo piccolo pantheon.
Gigi Ghirotti, «L'Europeo», anno XIV, n.29, 20 luglio 1958
Gigi Ghirotti, «L'Europeo», anno XIV, n.29, 20 luglio 1958 |