«Napoli notte e giorno» di Raffaele Viviani, diretto da Patroni Griffi
Alla televisione «Napoli notte e giorno», uno spettacolo diretto da Giuseppe Patroni Griffi
Uno spettacolo teatrale in due tempi, ideato e diretto da Giuseppe Patroni Griffi su testi di Raffaele Viviani. Lo spettacolo è composto da due atti unici: "Via Toledo di notte" (Tuledo 'e notte, 1918) e "La musica dei ciechi" (1927).
Raffaele Viviani nacque a Castellammare di Stabia il 9 gennaio 1888 e debuttò a Napoli nel 1892, a quattro anni e mezzo. Del resto, a Napoli i confini fra le età e i tempi anagrafici non sono mai stati oggetto di stretta osservanza, anzi il contrario: nel rovente reame della plebe si è già adulti ancor prima che adolescenti e non tanto per non so quale vocazione al prodigio, quanto per una predisposizione adatto naturale il linguaggio del bambino é già quello dell'adulto, esistendo per l'uno e per l'altro un solo, unico spazio del reale o della realtà, come si voglia E' in questo spazio che Viviani si colloca con la sua prodigiosa potenza drammatica e ne diviene interprete più puntuale, nella misura in cui lo ricrea nei suoi momenti più complessi e contraddittori. C'è dinanzi a lui. intorno a lui, e in lui soprattutto, un popolo che sembra offrire inesauribile materia di motivi folcloristici, congelati in un loro inamovibile tempo, al di fuori della storia come pure di ogni respiro sociale. Tale immagine fu sempre di casa a Napoli come in Italia: quasi un accordo bonario su certezze comuni, confluenti in una sorta di «a scansino» fedele a stereotipi di pulcinellesca maniera. Per entrare in quell'immagine, bastava superare dei «test» dettati dalla potenza dei luoghi comuni, occorreva insomma inconsciamente o coscientemente barare; si volevano non già delle coscienze critiche che penetrassero nel fondo di una delle più complicate realtà sociali del mondo, ma adulatori incapaci di individuare il male. Poiché Viviani individuò anche gli aspetti più negativi del suo popolo, non piacque alla borghesia del suo tempo, assetata come era di una visione idilliaca delle cose e della realtà.
Simboli del male
Mi rifaccio a una mia personale esperienza. Quando noi ragazzi d'allora ci si voleva recare a teatro, i miei compagni rifiutavano di andare a vedere Viviani. Non li divertiva, dicevano che era «volgare». Testuale. Dipendeva forse dal fatto che quei miei amici di ginnasio abitavano nelle zone «pulite» della citta, nelle zone signorili.
Io ero invece della Sanità, un quartiere di vecchie mura e di angiporti spagnoli, di «bassi» che si aprivano sulla strada come un occnio terribilmente leggibile, un quartiere di indistruttibili guappi e di povere femmine segnate da sfregi e da incalcolabili maternità, un quartiere dove il lavoro era fatica, la vita era sopravvivenza, bontà e ferocia. Chi offriva quei simboli del suo male a quel popolo? Parafrasando un nostro saggista c'è da dire che non la coscienza di se stesso gli veniva offerta, ma il bozzetto. non già la condanna ma l'assoluzione fraudolenta, salvo rarissimi esempi. «La bonarietà e il sentimentalismo», cito Zolla, furono «le spugne date al torturato perché vi mordesse coi denti e smettesse di lanciare urla scomode».
Ebbene, Viviani fu proprio quell’«urlo», recepito da lui dalla Sanità e da dovunque vi fossero cento altre Sanità, ossia da ogni angolo di una Napoli dove una plebe furiosa e a suo modo innocente celebrava «giorno e notte» i riti della sua amara conservazione, fossero riti di gioia o di dolore, riti magici e irrazionali, di ferinità o di dolcezza, pur sempre paralleli ai movimenti sociali che ribollivano sotto l'apparente glaciazione storica e sociale della città.
Viviani non era ovviamente un ideologo, né tanto meno possedeva quella che si dice una coscienza ialettica della realtà. Ma in lui tutto arrivava per altre vie, sia quella sua maschera stravolta dal sovrapporsi di generazioni legate dal filo d'acciaio di un antico dolore, sia quel suo linguaggio cosi incomprensibile ai miei amici di allora. Gli veniva, quel linguaggio, dalla mia Sanità, da quelle pietre e da quegli angiporti, ossia da una profonda, remota radice popolare.
Ma lui trasformava poi quell'origine in qualcosa d'altro, sicché quel dialetto, da subalterno che era, diventava in Viviani linguaggio primario, la Sanità frantumava il proprio angusto recinto rionale per assurgere a realtà nazionale, per configurarsi infine come un pezzo d'Italia.
Cinque o sei anni fa, Vittorini giustamente scriveva di non nutrire nessuna simpatia né pazienza per i dialetti meridionali, «poco raccomandabili ai fini di uno sviluppo moderno della lingua e della letteratura. Ricordiamo che essi sono tutti legali a una civiltà di base contadina, e tutti impregnati di una morale tra contadina e mercantile, tutti portatori di inerzia, di rassegnazione, di scetticismo, di disponibilità agli adattamenti corrotti, e di furberia cinica». Con Viviani, questa verità subisce un rovesciamento totale. Il suo «dialetto», che si fa portatore di tutto un modo d'essere, di vivere, soffrire, sperare delle classi popolari, si pone, anziché ai margini, al centro della vita culturale: è nel vero Pandolfi, quando scrive che ne diviene un esponente d'avanguardia anche formale. Così, ad esempio, a proposito della commedia Gli zingari, Spaini notò che si trattava dell'opera teatrale «senza dubbio più audace c più moderna che sia stata composta in Italia». Correva fanno 1926, e quelle parole avrebbero dovuto essere illuminanti, attirare l'attenzione della critica sul valore del teatro di Viviani. Ma, ovviamente, ebbe scarsissima eco. Il provincialismo dei critici dell'epoca non poteva badare a certe indicazioni. Invece Spaini, per essere uno studioso del teatro espressionista tedesco, possedeva di conseguenza la chiave per capire Viviani.
Mi raccontava il pittore Paolo Ricci, il quale assieme a Pratolini curò anni la per Vallecchi un'antologia delle poesie di Viviani, che a Parigi, alla prima di L'opera da tre soldi, potè pienamente capire il lavoro di Brecht, grazie alla sua precedente «esperienza» del teatro di Viviani, per la carica espressionista che esso conteneva, per quel suo esprimere e rappresentare un punto nevralgico e malato della società: e non già di quella società che respirava entro i poveri confini degli antichi angiporti spagnoli della mia giovinezza, ma della società europea. Non più, quindi, «macchiette» e tipi folclorici, ma personaggi partecipanti di un sistema etico di enorme importanza, e tale da precorrere alcune forme avanguardistiche del teatro contemporaneo. La tematica tradizionale dei poeti napoletani è del tutto abbambinata da Viviani, non più la schermaglia dei sentimenti, non più la vaga malinconia dell'idillio. Uomo del popolo, Viviani ne vive «dal di dentro» i problemi, le passioni, le amarezze, la ferocia, la turpitudine, la bontà, le speranze. Distacco didascalico, fredda documentazione, moralismo, manierismo stilistico, tutto questo non appartiene a Viviani, la sua originalità essendo sostanzialmente un'originalità di contenuto. Già Pratolini e Ricci indicarono come certi suoi personaggi possano essere rintracciabili, pur coi precipui caratteri del loro ambiente storico e sociale, in Gorki, e poi nella letteratura «sobborghista» della Germania di Weimar, nel cinema francese degli anni Trenta, infine nella letteratura americana del «New Deal». E tutto questo, perché c'era un'origine umana, storica, sociale, ben definita, perché Viviani affondava le sue radici, ripeto, nella «mia Sanità» e dovunque Napoli la ripetesse con il suo bene e con il suo male. E con la sua coralità.
Tregua musicale
Nella folta commedia umana di Viviani. la gente del Borgo Sant'Antonio da la mano a quella di Porta Capuana, la gente dello scalo marittimo a quella di piazza Municipio, i pescatori di Santa Lucia si avvinghiano ai «parulani» della campagna napoletana, gli abitanti dei vecchi vicoli della Sezione San Giuseppe sventolano fazzoletti per salutare i signori «scaduti» del corso Vittorio Emanuele. Il coro si arrampica per le scale dei vecchi palazzi malandati, si insinua nei «bassi», lambisce le botteghe dei fruttivendoli, si libera all’aria delle terrazze, si spegne nelle profondità di un vicolo o contro un muro bianco di calce. Ma è soltanto una pausa, una tregua musicale, un indugio delle forze arcane che governano la città, perché tutto riprende da capo, una voce e poi mille voci, e rumori di zoccoli, tintinnii di sonagli, lazzi e lamenti, preghiere e sberleffi, cantilene a dispetto: «Neh, don Giacì, / affacciate a fenesta, / fance avvede' / sta bella faccia ’e pesta...».
Fate caso a certe indicazioni che appaiono sotto i titoli di molte delle sue commedie. Sono tre brevi parole: «versi e musica». Già, perché lui, Viviani, compiva una singolare operazione: la stessa che avveniva nell’antico teatro ebraico e la stessa che, dopo di lui, effettuerà Charlot. L'autore della farsa o del dramma o della tragedia diviene anche autore di versi, e autore della musica che li accompagna, sì da inserire un ennesimo elemento in quella smisurata coralità di voci, rumori e silenzi, che era ed è ancora il pianeta che si chiama Napoli. Questo pianeta cosi tremendo e contraddittorio, egli volle «rivedere» la mattina del 22 marzo 1950: quando, un attimo prima di morire, dette in un urlo improvviso, chiedendo d'essere portato vicino alla finestra, per dare un ultimo sguardo alla città che era stata il suo palcoscenico «di dentro». E fu un urlo, nel quale, ancora una volta, egli racchiuse la voce più umana, più vera di Napoli.
Luigi Compagnone, «Radiocorriere TV», 1969
Luigi Compagnone, «Radiocorriere TV», 1969 |