May Britt: «La "civetta" mi ha portato fortuna»

May Britt

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L'attrice svedese May Britt confessa, in questo articolo autobiografico, di essersi stupita per prima dello strano caso che l'ha portata al cinema

Roma, marzo

Come carattere sono il contrario di mio padre che lavora alla posta di Stoccolma. L’idea che papà per tanti anni sia riuscito a rimanersene tranquillo dietro il suo banco, consultando carte e guardando lettere e cartoline e non abbia mai pensato di farla finita con quel monotono impiego, mi dà la convinzione di essere la mosca bianca della mia famiglia. Se devo essere sincera bisogna che dica subito che dal giorno in cui andai a scuola per la prima volta a quello in cui mi impiegai presso uno studio fotografico, tentai molte cose che lasciai a metà proprio perchè a mezza strada mi prendeva una terribile noia di tutto.

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Mi chiamo May Britt: è il mio nome a metà. May significa Maggio, Britt non vuol dire nulla e il mio cognome è Wilkens. Sono nata in una piccola città su un’isola, Lidingò, collegata a Stoccolma da un grande ponte. Lidingò è bellissima, raccolta e silenziosa; è una cittadina cosi perfetta e lucente che assomiglia a un dipinto. La mia famiglia è ridotta al minimo indispensabile per chiamarsi famiglia: mio padre, impiegato alle poste, come ho già detto, mia madre donna di casa, io che sono la figlia maggiore, mia sorella, che ha quindici anni e va ancora a scuola.

Come tutte le ragazze svedesi, per otto lunghissimi anni ho frequentato la Folkskola, cioè la scuola pubblica, dove si impara a leggere e scrivere e a fare monellerie. Io non ho imparato a fare monellerie perchè ero taciturna e di carattere chiuso. Alla fine della Folkskola ho cominciato a lavorare, Ho avuto il primo posto come commessa nel grande magazzino Meeths, al centro di Stoccolma, e non so per quale ragione il direttore mi abbia assegnato al reparto bambini. Dalle nove del mattino alle sei del pomeriggio vendevo vestiti, assistevo alle prove e dovevo far forza su me stessa per rendermi graziosa con i miei piccoli clienti e con le loro madri. Ho cominciato a recitare da allora ma senza l’attrattiva del cinema e del teatro perchè recitavo fuori del palcoscenico, dietro il mio banco di lavoro dove non mi vedevano nè registi nè produttori.

Facevo la parte della commessa sempre sorridente e docile, entusiasta dei bambini, mentre in realtà i bambini con la loro mania di toccare tutto e con i loro strilli mi facevano letteralmente impazzire. Il lavoro ai magazzini Meeths mi lasciava poco tempo libero. Avevo quindici anni e l’unica mia distrazione era il cinema di cui, la domenica, facevo vere scorpacciate. Premetto che questa passione non ha avuto alcuna parte nella mia carriera di attrice poiché sono diventata attrice per caso e sul principio non volevo addirittura diventarla. Di domenica, dunque, prendevo il treno e da Lidingó andavo a Stoccolma. Dalle tredici alle quindici mi infilavo in un cinema e assistevo allo spettacolo dei bambini; alle quindici andavo allo spettacolo dei grandi e concludevo la mia giornata festiva alle diciannove dopo aver visto una terza proiezione. Di rado andavo a ballare sebbene ballare mi piacesse molto.

Per un anno e mezzo rimasi all’emporio a vendere vestiti, poi, sopraffatta dalla solita noia, decisi di riprendere le scuole che avevo lasciato, per trovarmi un lavoro. Mi iscrissi a dei corsi biennali, che naturalmente non portai a termine, e mentre studiavo maturai il proposito di diventare fotografa. Non avevo ambizioni giornalistiche; non sognavo réportages fotografici, ma soltanto piccoli lavori di gabinetto. In parole povere volevo fare ritratti e niente più. Un giorno, su un giornale di Stoccolma, lessi che in un negozio fotografico cercavano una ragazza. Mi dissi «May, questo è il tuo momento. Tenta la sorte». Mi presentai, ma data l’assenza del padrone fui invitata a tornare nel pomeriggio. Appena fuori del negozio, guardando la vetrina che era alquanto modesta e malandata, il mio entusiasmo si afflosciò e fu sopraffatto dal proposito di non tornare e di provare altrove.

Mi rimaneva ancora poco tempo perchè avevo fatto questo tentativo lasciando la scuola durante l’ora di intervallo per la colazione. Mentre rientravo a scuola, passai davanti a una bellissima, bottega con una vetrina enorme, piena di macchine fotografiche e di fotografie. Decisi di entrare. Salii le scale con le gambe molli e, piena di timore, domandai se avessero un lavoro per me. Mi presero, ma senza impegno di stipendio. «Se mai — mi disse il padrone — lo stipendio lo avrà dopo sei mesi...». Per una settimana continuai ad andare a scuola dopo di che diventai impiegata presso lo studio "Uggla", che in svedese significa "civetta”. Uggia era il fotografo delle indossatrici e delle dive, il più alla moda di Stoccolma, ma io partecipavo soltanto indirettamente alla gloria artistica di quel maestro dell’immagine. Da principio ebbi l’incarico di stampigliare il nome della ditta sulle foto, diventai poi ritoccatrice e infine passai in camera oscura. Durante il mese e mezzo che rimasi da Uggia non andai oltre la camera oscura, dalla quale uscii per diventare attrice. Le cose andarono in questo modo.

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Nel 1952, arrivarono a Stoccolma il produttore italiano Ponti e il regista Soldati alla ricerca di un tipo nuovo: così diceva l’avviso sul giornale, per il film ”Jolanda la figlia del corsaro nero”. Ponti e Soldati visitarono i centri sperimentali ma non trovarono la ragazza che faceva al caso loro. Qualcuno li consigliò allora di passare da Uggia a vedere le fotografie delle indossatrici e loro, difatti, vennero. Quando entrarono nello studio, io mi trovavo in camera oscura con un compagno di lavoro. Fu lui che mi disse «May, sono arrivati i due italiani che cercano un’attrice. Vai a farti vedere». Io, naturalmente, risposi di no ma alla fine accettai il suo consiglio. Andai nella stanza dove si trovavano Ponti e Soldati, passai e ripassai, ma loro non mi guardarono neppure; erano intenti a sfogliare foto di indossatrici. Tornai in camera oscura e dissi delusa al mio amico: «Che figura ho fatto. Non mi hanno dato neppure un’ occhiata di traverso».

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«Ripassa un’altra volta — disse lui. — E’ meglio tentare ancora». Ripassai di nuovo ma col medesimo risultato. Solamente quando senti chiudere la porta, Soldati alzò gli occhi e vide un lembo del mio grembiule bianco. Domandò chi fossi e mi fece chiamare; mi chiese anche se volevo fare un provino. Confesso che non li presi sul serio e, convinta che scherzassero, accettai per stare al giuoco.

Allo studio cinematografico dove dovevo fare il provino c’erano altre venticinque ragazze. Io avevo vergogna da morire. Mi truccarono, mi fecero infilare un paio di pantaloni, mi misero due stivali altissimi e mi diedero in mane una spada. «Oggi faremo fotografie da ferma — decise Sol dati — domani in movimen to». Senza dire nè sì nè no, scappai e Ponti che si trovava in cima a una scaletta a chiocciola cercò inutilmente di fermarmi. «Non voglio fare il cinema», gridai e infilai la porta. Presi il tram e tornai da Uggla. Là mi dissero che ero stata una stupida e finii per esserne convinta anch’io. A poetica poco l’idea di venire in Italia si faceva strada nella mia testa e prendeva i contorni di una deliziosa illusione. Ponti e Soldati, nel frattempo avevano telefonato a casa mia, convocandomi per il mattino dopo. A casa, per tutta la notte ci fu consiglio di famiglia. Rimasi a discutere con mio padre e mia madre i quali, decisamente contrari sul principio, finirono per acconsentire.

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L’indomani feci il provino e capii di essere stata scelta perchè mentre le altre se ne andarono per proprio conto, io fui accompagnata in tassì dal produttore e dal regista.

Firmai un contratto per sette anni e anche la durata del contratto mise in allarme i miei. Fu mia madre che persuase mio padre e mi disse che era arrivato il momento in cui dovevo decidere della mia vita.

Sette giorni dopo ero in Italia e cominciavo la mia nuova attività convinta che per me si fosse verificato un miracolo. Ditemi voi se infatti non lo è: nessuno in Svezia diventa attore e finisce davanti alla macchina da presa se prima non ha frequentato la scuola di recitazione. Io, invece, ero diventata attrice senza fare quell’anticamera, anzi Io ero diventata uscendo addirittura dalla camera oscura di un laboratorio fotografico il cui nome, e lo dico per i superstiziosi, significa "civetta"

May Britt, «Tempo», anno XVII, n.12, 24 marzo 1955


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May Britt, «Tempo», anno XVII, n.12, 24 marzo 1955