Nino Manfredi si meravigliò quando il pubblico rise

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Per molti anni Nino Manfredi ha tentato con scarso successo di essere un attore drammatico. La sua vena comica è stata quindi una improvvisa rivelazione per tutti: per lui e per i registi che lo avevano sempre trascurato ritenendolo un personaggio inespressivo.

Roma, marzo

Nino Manfredi si compiace di parlare non tanto del suo successo quanto della tecnica di esso. Non tanto della popolarità di un attore, quanto della tecnica dell’attore. Si potrebbe continuare. Prendete un oggetto qualsiasi, metteteglielo in mano e prima ancora di chiedere a che cosa serve si proverà a smontarlo. Manfredi di ogni cosa vuol sapere com’è fatto dentro. La prima volta che si affacciò alla ribalta di uno spettacolo di rivista e disse qualcosa per la quale il pubblico si mise a ridere, Manfredi non provò nè compiacimento nè stizza (ed ecco il perchè: fino a quel momento aveva fatto ”Il Piccolo”, come si dice nel gergo degli attori, e che significa provenire dal Piccolo Teatro di Strehler), ma stupore. Non riusciva a capire perchè la gente rideva. A pensarci un momento, ci si può anche arrivare da soli, ma forse è meglio incominciare da principio.

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C’era una volta un padre che aveva due figli. Era un povero uomo, trasferitosi a Roma dalla Ciociaria, dove era nato lui, dove era nata sua moglie e i suoi due figli. Uno di questi si chiamava Dante, l’altro Nino. Uno era ubbidiente e l’altro discolo. Uno era studioso e l’altro marinava la scuola. Dante era buono, Nino invece cattivo. Il cattivo picchiava il buono perchè, diceva, gli amareggiava la vita. Se, per esempio, non ci fosse stato Dante, quando Nino riusciva a scuola a rimediare un voto superiore al sei, in casa sarebbe stato probabilmente giorno di festa. Ma Dante non aveva mai una votazione inferiore all’otto, e Nino veniva redarguito.

Per vendicarsi Nino allungava qualche scapaccione di soppiatto al fratello che, come tutti i primi della classe, era debolino in ginnastica. Col passare degli anni Dante divenne medico, Nino non diventò niente. Col passare degli anni Dante prese con plauso la libera docenza e diventò aiuto del famoso Paolucci. Nino continuò a non diventare niente.

Nato nel 1921, a trentaquattro anni ossia nel 1955, Nino Manfredi era considerato un "promettente attore di teatro”, cioè qualcosa come una persona che è conosciuta da un migliaio di individui, da quanti su per giù sono in Italia gli intenditori di teatro o, se si preferisce, uno dei mille attori di teatro che, a loro volta, sono considerati tali da quel migliaio di intenditori che sono sempre gli stessi.

H bilancio della sua vita, a quell’epoca, non poteva certamente dirsi soddisfacente, non fosse altro perchè questo livello, questa quotazione egli l’aveva raggiunta soltanto dopo sei anni di Accademia d'Arte drammatica, di studio, di applicazione che andava dagli esercizi respiratori fino al monologo di Amleto.

Manfredi aveva le adenoidi. Per questo l’impostazione della voce aveva richiesto ore di studio supplementare. «La voce — mi dice con quella sua aria smarrita — sembrava che mi uscisse a questo punto dalla testa». E cosi dicendo si tocca con gravità questo buco immaginario.

Come si spiega tutto questo impegno, come si concilia la sua diligenza, la sua disciplina di allievo con l’immagine del ragazzo discolo che gli anni della sua adolescenza hanno descritto? Glielo chiedo e lui mi risponde: «Dovevo farmi perdonare da mio padre che, a tutti i costi, voleva che diventassi qualcuno. Per mio padre, brigadiere della Pubblica Sicurezza, diventare qualcuno aveva un senso molto preciso: voleva dire diventare medico come mio fratello, diventare uno stimato professionista. L’attore, grande o piccolo che fosse, noto od oscuro, restava per lui una persona non seria. Anzi, ritengo che secondo il suo concetto rimanesse sempre un saltimbanco. E che quest'ultima fosse, in ogni modo, la sua conclusione ancora non lo sapevo!». Soggiunge con una punta di amarezza.

Insomma, si può concludere che Manfredi per non deludere completamente suo padre aveva cercato di esercitare il più seriamente possibile un mestiere che, per definizione, non lo era e non avrebbe potuto diventarlo. «A quale punto della sua vita ha scoperto che questa era la sua vocazione?».

Se la domanda che gli rivolgo non è peregrina, lo è viceversa la sua risposta. Lascia cadere su di me quello sguardo miope che fa parte non della sua fisionomia ma soltanto della sua maschera e si mette a spiegarmi: «Mah, forse mai. Forse non avevo vocazione per nulla; nemmeno adesso sono ben sicuro di avere scelto la mia vera strada. Quand'ero ragazzo sapevo solamente quello che non volevo fare e non viceversa. Non il notaio, non l’avvocato, non il farmacista, non il medico perchè non sopporto la vista del sangue. Se avevo una passione, questa era la musica, ma non l’ho mai imparata perchè quando mi sono accorto che mi piaceva ero sui vent’anni ed era già troppo tardi per mettermi a studiarla. Ho sempre suonato ”a orecchio” e di nascosto. Avevo comperato un mandolino che tenevo in casa di un mio compagno. Se mio padre lo avesse scoperto, credo che me lo avrebbe rotto sulla testa».

L’ombra del padre è sempre stata presente nella vita di Manfredi; probabilmente lo è ancora adesso. Anzi, di recente, quando credendo di fargli piacere suo figlio gli annunciò di essere stato invitato a cena da un "pezzo grosso” della politica il vecchio, senza scomporsi, osservò. «Perchè? Per farli fare il buffone».

In ogni caso queste riflessioni sarebbero superflue qualora si volessero intendere, da parte -di Manfredi, nel senso di paura o, come oggi si usa dire, di complesso. Niente di più falso: l’ombra del padre, se vogliamo continuare a chiamarla cosi, fa parte integrante della sua coscienza, potremmo dire perfino dei suoi rimorsi. In altre parole non solo suo padre, ma anche lui considera o per lo meno teme che il mestiere dell'attore non sia un vero mestiere.

C’è della gente che, come si suol dire, sembra fatta apposta per il teatro (come Gassman), altra che si illude di esserlo (come quasi tutti coloro che fanno del teatro), altra infine che, prima ancora di essere divenuta qualcuno nel mondo del palcoscenico, possedeva già la faccia dell’attore.

Il caso di Manfredi mi interessa proprio per questo motivo: perchè Manfredi ha raggiunto un successo senza avere la naturale disposizione di un Gassman nè la faccia di un Sordi.

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Dopo il mandolino era venuta la volta del banjo: egli ne aveva visto uno che costava cinquemila lire, cifra proibitiva per un ragazzo nelle sue condizioni. Per averlo, commise un furto, il primo e naturalmente anche l'ultimo della sua vita. Non sottrasse il banjo, ma i disegni di esso sfilandoli dalla cartella in cui li teneva custoditi il suo legittimo proprietario come se si trattasse dei piani segreti di una corazzata. Costruì lo strumento servendosi del fondello di una sedia del salotto di casa sua. «Lei non può nemmeno immaginare — mi dice l'attore a questo punto — l’emozione che provai allorché mi resi conto che suonava per davvero».

In realtà questa non fu la sola grande emozione di Manfredi. L'altra egli l’aveva provata quando, per la prima volta, come ho già detto, si era accorto che ad una sua battuta estemporanea il pubblico rideva.

Qui va sottolineata la strettissima analogia fra le due emozioni: sia in un caso, come nell'altro questi sentimenti provenivano da un’unica fonte, e questa fonte era lo stupore. Come nel costruirsi il suo rozzo istrumento Manfredi non credeva che avrebbe potuto trovare l’accordo giusto, così non credeva che dalla sua voce avrebbe potuto uscire un accordo altrettanto giusto, dalla sua mimica una smorfia capace di destare un riso contagioso. Qui infatti sta il nodo di tutta la questione.

Terminati i sei anni di Accademia che gliene erano costati contemporaneamente altri quattro di studi presso la facoltà di legge (questa era infetti la condizione alla quale lo aveva costretto suo padre), Nino Manfredi aveva incominciato il suo tirocinio come attore drammatico, Aveva ottenuto un certo successo per la sua buona recitazione, talvolta addirittura impeccabile e in ogni caso superiore ai consensi che riscuoteva. Angosciato, aveva continuato a domandarsi in che cosa poteva mai consistere la sua manchevolezza, senza peraltro trovare una risposta al suo interrogativo.

«Ebbi la spiegazione — ripete — soltanto quella sera in cui suscitai la mia prima risata. Dopo il primo momento di stupore mi accorsi, e me ne accorsi solo allora, che quella battuta non c’era nel copione e l’avevo inventata io. Di fronte a questa constatazione, le lacrime, le risate, e gli scarsi applausi che in cinque anni ero riuscito a meritarmi, persero istantaneamente d’importanza come un mazzetto di fiori secchi. Avevo capito finalmente questa verità elementare: tutte le reazioni che fino a quel momento avevo provocato nel pubblico non erano dirette a me ma, secondo i casi, agli autori: a Pirandello, a Bernard Shaw, a Shakespeare. Quindi...».

Il barista di Ceccano

Quindi chi parla così non è un attore: tanto per ritornare su un esempio già citato, Gassman non avrebbe mai pronunciato una frase del genere. Nel momento in cui Gassman pronuncia le parole del copione del Riccardo II, lui è Riccardo II, quindi — per sillogismo — è in quel momento Shakespeare. Sicché la sola conclusione possibile è che Manfredi è un comico, prima di essere un attore. Possiede cioè la vis comica, la possiede internamente e non l’ha, per così dire, stampata sulla faccia come Rascel o Walter Chiari e come lo stesso Sordi che, per questo motivo, hanno raggiunto il successo molto prima e con molta maggiore facilità di lui Per compensare i magri profitti dei teatro, Manfredi si era rifatto al cinema, e la cosa più curiosa è questa: che del suo talento ci si accorgeva, in genere, soltanto dopo che il film era finito. Qualche volta addirittura, dopo che il film era uscito dal circuito, come è avvenuto per "Gli innamorati”, dove Manfredi aveva la parte di antagonista, l’antagonista, per l’occasione, di Interlenghi. Il che, a margine, dimostra l’acutezza dei nostri migliori registi.

Fino a ieri, ossia fino al successo senza precedenti decretatogli dal pubblico della televisione, registi e produttori diffidavano di lui. Inoltre, fino a qualche anno fa solamente, lo trovavano nè brutto nè bello; lo trovavano soprattutto inespressivo. Glielo dicevano in faccia. Manfredi andava a guardarsi allo specchio e finiva col riconoscere che i produttori e i registi avevano ragione. Non si rendeva conto che sotto il peso dell’umiliazione ricevuta mimava l’espressione "inespressiva”. Infatti troppo spesso egli non si rende conto che quella che lui crede il risulta-
to della tecnica è invece il risultato del suo talento. Eccone un esempio: «Prima di presentarmi alla Radio ascoltai per mesi e mesi 'tutti i programmi e finii per scoprire che in un dialogo radiofonico si notano soltanto le dissonanze. Fu così che inventai le ”vocette": fu così che ebbe fortuna in ”Rosso e nero” la vocetta del signor Tacito».

«E il barista di Ceccano, il personaggio che l’ha reso popolare in tutta l’Italia?»

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«In questi giorni ho ricevuto una lettera di un compagno del liceo Virgilio che se ne ricorda ancora: una macchietta che facevo fin da quando ero ragazzo. Oggi i testi, come sempre avviene negli spettacoli di rivista, sono sempre frutto della collaborazione di molti ma la macchietta consente sempre un largo margine alia improvvisazione. C’è inoltre una cosa che pochissimi sanno; il dialetto che taceva tanto ridere i telespettatori non è affatto quello di Ceccano e neppure quello di Castro de' Volsci dove io sono nato. Il ciociaro è quasi incomprensibile, è latino: ”crai” vuol dire domani, dal latino ”cras”. Si trattava di una costruzione arbitraria, di un dialetto composito, e siccome col dialetto la voce si arricchisce di nuove coloriture, io potevo giocare con le parole a mio piacimento, cambiando di continuo l’intonazione. Pur trattandosi di un monologo, credo che nessuno avesse l’impressione che fosse troppo lungo. Insomma, più quella parlata appariva spontanea, più era costruita».

Altra ragione del suo successo: «Con la televisione — dice Manfredi — io riuscivo avvantaggiato dato che qui la regia si basa quasi esclusivamente sui primi piani». La sua fisionomia poco marcata ma mobilissima e ricca di sfumature può essere infatti tanto maggiormente messa in evidenza quanto più essa viene colta da vicino.

Si può dire che Manfredi abbia costruito la pratica sulla teoria e non viceversa. Per questo motivo l’attore, il comico Manfredi, dopo più di dieci anni di carriera, nasce soltanto oggi. Nel frattempo Manfredi si è sposato, ha avuto due bambini, ma la sua vita familiare non interferisce nella sua vita di attore. Sua moglie, quando Manfredi l’ha sposata, faceva la mannequin, ma credo che la cosa che più la irriti i sia appunto di sentirsi dire o di leggere che è una ex-mannequin.

Benché non abbia avuto modo di accertarmene, la signora Erminia Manfredi detta Minia preferirebbe, come il padre dell’attore, che Nino facesse un altro mestiere, più serio. Solo Dante, il professore, il libero docente, il chirurgo destinato ad una grande carriera invidia forse un po’ suo fratello maggiore; spesso infatti le sue pazienti gli attestano la loro fiducia solo dopo aver saputo che è veramente fratello dell’attore, proprio di quello che si vede alla Televisione.

Enrico Roda, «Tempo», anno XXII, n.12, 22 marzo 1960


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Enrico Roda, «Tempo», anno XXII, n.12, 22 marzo 1960