Sylva Koscina vuota il sacco al magnetofono
In questo articolo esclusivo l’attrice dice di aver cancellato il passato
Roma, settembre
Sylva Koscina è morta. Io sono rinata. In un anno sono avvenuti dentro di me mutamenti totali. Ora, finalmente, riesco a volermi bene. Non mi è successo niente di particolare. Cioè niente catastrofi obiettive, questioni concrete in questi ultimi mesi. Il resto è tutta roba di tanto tempo fa: aver lasciato l’tiomo che amavo da quindici anni e aver avuto un omicidio assurdo in casa mia, quando un guardiano ha massacrato amici e familiari a fucilate. E’ cominciato tutto per caso e all’improvviso. E certo è stato proprio questo ad aiutarmi. Mi sono guardata e ho capito il modo assurdo in cui da anni vivevo. Alzarsi ogni mattina e spiare le rughe, angosciarsi per i brufoli, pianificare i massaggi, perdere ore al maquillage. Avere — sola preoccupazione — sempre un aspetto da bell’oggetto di porcellana. All’alba via di corsa agli studi, per girare magari una scena in abito da sera. E poi appuntamenti. Parties. Parlare con i giornalisti. Obbedire senza pensare alle regole della star, comprese le atroci serate mondane che tutti odiano, ma ci vanno lo stesso.
Sylva Koscina. Una che a vent’anni già interpreta la parte di una madre con una figlia di quindici (in "Guendalina” di Lattuada, con Jacqueline Sassard), una che sa fare la zingara, la partigiana, la ninfomane, la signora dell’alta società e quella di mezz’età. Sempre la valigia in mano. Oggi in Messico, domani a Nuova York, agli studi di Billancourt o a quelli di Cinecittà, indifferentemente, senza dare nemmeno uno sguardo a Parigi o a Roma. E per compagno, il beauty-case: questo maledetto cofanetto sacro della donna obbligatoriamente bella, sempre aggiornato, sempre perfettamente attrezzato di mostruosi aggeggi capaci di trasformare chiunque in una farfalla da afferrare al volo. Tornare a casa e non ricordare più qual è la porta del bagno, e dove sono gli interruttori. Un’attrice pagata bene: una che anche adesso, che ha voglia di dir tutto fino a farsi male, deve nascondere la sua vera età, perchè una volta superata una certa cifra si deve tacerla per non avere sorprese col pubblico e con i produttori.
Finché non mi sono chiesta: perchè? Che cosa ci guadagno? Forse dei soldi? Sì, ma in cambio di quanto? Dov’è il mio passato? Ho un presente? Un futuro?
E’ stata dura. Mai mi ero sentita così vicina al suicidio. Non ho provato perchè non sono il tipo che fa le cose a metà: però è vero, volevo finirla. La molla che ha fatto scattare la crisi — non lo nego — è stata la delusione per il mio uomo, Raimondo Castelli, produttore. Tre anni per liberarmene dopo quindici di grande amore. Per lui avevo affrontato le più nauseanti vicende legali, processi per adulterio, matrimonio in Messico, accusa di bigamia quando qui il divorzio non c’era. E intanto mi tradiva, mi toglieva tutto. Adesso lo so: Raimondo mi ha tradito come donna, come attrice, come socia in affari. Già, perchè io non ho mai pensato ad amministrare o ad avanzare pretese sui miei guadagni finché eravamo insieme. Si faceva cassa comune. Così — forse era inevitabile — i suoi fallimenti sono stati i miei. Ma non è tanto questo che mi interessa: quello che non gli perdono è di avermi tolto anche la fiducia, la voglia di vivere.
Ero al culmine delle mie grane sentimentali quando è successo l’altro fatto, nella mia villa, a Marino. Una strage disumana fatta da un uomo che avevo assunto perchè era disoccupato e mi faceva pena: pazzo, geloso, lo ero in Sud Africa per lavoro e tornando di corsa mi sono trovata davanti il pubblico che ci guazzava beato, in questa storia orribile.
Il pubblico: eterno terzo incomodo della mia vita, quella volta si è comportato come nelle corride. «Ma che bel toro!», dicevano prima, quando gli facevo vedere il seno come in "Nini Tirabusciò”. «Che si ammazzi il toro!», hanno gridato dopo, quando annaspavo e affogavo nella cronaca nera. Volevano che piegasse le ginocchia, questa Sylva superba, inaccessibile, che si buttasse a terra e chiedesse pietà. Io non ho chiesto pietà, ma caduta sì, sono caduta, e sul duro.
Allora ho capito che mi ero sbagliata. Tutto ridicolo, inutile. Una caccia insensata a una gloria che non vale un decimo di quello che costa. Soddisfazioni immaginarie. Anche in amore, avevo preso l'uomo sbagliato. Mi sono sentita persa. Ho avuto paura. Mi sono nascosta. Quando sto male mi nascondo, e faccio da sola. Per mesi non sono uscita dalla mia fattoria di Marino. Giocavo con la mia capra e cercavo di sentirmi anch’io capra. Seminavo, curavo le piante, facevo marmellate e melanzane sott’olio. Di salsa di pomodoro ne ho preparate cinquecento bottiglie: cinquecento di numero, e tutte con le mie mani. Quanto al cervello, ho fatto come si legge nei manuali di psicoanalisi per tutti: ho trasformato la mia ansia di morte in bisogno di vita. La morte non è una sconosciuta per me. Mi ha sempre seguita da vicino. Fin da quando ero piccola, a Zagabria, e poi all’università, quando l’ho piantata per fare un dispetto ai miei genitori. E ancora dopo, all’inizio e all’apice della carriera.
Non so se uno psicologo lo troverebbe plausibile, eppure è così che io sono riuscita a recuperarmi. Sono tornata dal parrucchiere, ho ripreso a depilarmi, a contare le mie rughe, a cercare di eliminarle. Ho ripreso la vita del set. Ma adesso è con distacco. I film li faccio come prima, ma dentro è diverso. So che ruoli veri, problemi normali di una donna, oggi nel cinema non ce ne sono. Allora tanto vale prendere quello che capita, da "Beati i ricchi” di Salvatore Samperi ai thrilling di medio livello come "Sette scialli di seta gialla”.
Per il resto, aspetto. Fumo quaranta sigarette al giorno e il mio bisogno d’amore lo sfogo occupandomi della fattoria, l’orto, le faccende di casa. Figli non ne ho. Non mi sono mai sentita disposta ad aspettarli per nove mesi. Se si potessero fare in quattro, come le capre, ne avrei una cucciolata. Però non è detto che non mi fermi di nuovo — stavolta con allegria — e non mi trasformi in mamma, quando meno se lo aspettano. Perchè io sono dura a morire. Io sono imprevedibile.
Sylva Koscina, «Tempo», anno XXXIV, n.38, 24 settembre 1972 (testo raccolto da Francesco Perego - Fotografie di Angelo Frontoni)
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Sylva Koscina, «Tempo», anno XXXIV, n.38, 24 settembre 1972 (testo raccolto da Francesco Perego - Fotografie di Angelo Frontoni) |