Luttazzi esplode: «se Walter Chiari mi avesse chiesto almeno scusa»

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Pieno di amarezza, l’ex compagno d’arte di Walter Chiari per la prima volta accusa, in questa intervista, il vecchio amico: "Mi ha rovinato con la sua leggerezza - dice - e adesso neppure si ricorda di me"

Roma, settembre

«Mi osservi: sono un uomo distrutto economicamente, moralmente e civilmente. Ho 14 milioni di debiti, sono senza lavoro e ho paura di guardare in faccia gli altri perchè ogni occhiata della gente mi fa comprendere come faccia piacere esercitare sull'altro un giudizio critico e trame un piacevole senso di superiorità». Parole amare, tanto più sconvolgenti in quanto mormorate senza enfasi, con la sordina del pudore, un sentimento nel quale Lelio Luttazzi — forse proprio perchè uomo di spettacolo — cerca disperatamente di rifugiarsi quando parla di sè. Il timore che l’esame del suo stato possa essere inteso come un commercio dell’infelicità lo induce a svilire il valore della sua vicenda; lo fa per un senso di rispetto verso se stesso, l’unico valore nel quale creda. «La mia è una storia meschina e ridicola i cui ingredienti sono la leggerezza di un amico. La spavalda noncuranza di un uomo grossolano, la puntuale e zelante indifferenza di una domestica e la determinazione di un giudice, onestamente convinto dello splendore della sua buona coscienza.

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Non è mostruoso — dice Luttazzi — che dalla aggregazione di questi semplici elementi nasca la tragedia di un cittadino?». Rinchiuso, quasi segregato in un cascinale di campagna, a pochi chilometri da Roma, per Lelio Luttazzi i giorni scorrono lenti e avvelenati. Il nostro non è tempo di meditazioni ma di azioni e Walter Chiari lo ha compreso benissimo: è in libertà provvisoria ma rilascia pubbliche commoventi dichiarazioni sulla sorte dei figli dei carcerati. Sorride con lo stesso ingenuo candore di prima, quando il sospetto non lo aveva ancora sfiorato, mobilita intorno al suo "martirio” un’agguerrita catena di pubblicazioni spremilacrime. Risale con disinvoltura sul palcoscenico, a Napoli, perchè confida nel sentimento o meglio sentimentalismo di quella città. Ma se Walter Chiari conosce l’arte dei pronti e facili recuperi, al punto che ha già trasformato la sua "disgrazia” in applauso, la sua disavventura in pubblicità, di tutt’altra pasta è fatto Lelio Luttazzi.

Atto d’accusa

Ma il silenzio e la discrezione, quanto possono giovare a un uomo come lui che dal contatto col pubblico traeva i mezzi della propria sopravvivenza e, insieme, la possibilità di espressione? Il pubblico è volubile, passa dall'entusiasmo al compianto e dalla pietà all’indifferenza con lo stesso disinteresse. Oggi sei applaudito, domani dimenticato e, se per colpa o per disgrazia, sei caduto negli ingranaggi di quella spaventosa macchina che si chiama la giustizia italiana, allora, guai a te. Non c’è proscioglimento che possa dissipare il sospetto di un castigo in qualche modo meritato. Forse Luttazzi lo intuisce quando dice: «Adesso, qualcuno ha persino scritto che sarei stato io, con la mia telefonata, a mettere nei guai Walter. Siamo arrivati a questo». L’affermazione gli serve da preambolo a un discorso più ampio che, fra mille indugi, finalmente si è deciso a fare. Sarà un atto di accusa verso una persona cui ancora vuol bene, un uomo che fino a qualche mese fa chiamava «mio fratello»: Walter Chiari.

«Nel carcere e nelle malattie, dice un antico proverbio, si conosce il cuore degli amici. Be', io sono stato in carcere e ora sono malandato e avvilito. Non mi vergogno a dirlo. Eppure — afferma Luttazzi — non ho ricevuto una sola attestazione di conforto, nessuna parola di comprensione, anzi di scusa da chi mi ha cacciato in un mare di guai, da chi mi ha spinto, non per malafede ma certo per superficiale leggerezza, in questo oscuro tunnel senza vie d’uscita». Il maestro Luttazzi si agita sulla sedia, protende le mani davanti al volto come se volesse allontanare un pensiero molesto.

«No, no, per carità, così non va bene: è troppo miserabile questo discorso... accidenti, ma quant'è difficile farsi capire. Ora la gente dirà forse giustamente: ma che vuole questo piccoletto, 'sto fallito piagnone e petulante? Che il suo amico Walter gli facesse la carità? Che Chiari non si difendesse come meglio poteva da un’accusa ingiusta e infamante? Bene, io non pretendo nulla di tutto questo, dico anzi che Walter fa benissimo se riprende il ruolo del protagonista perchè lui è nato protagonista e tutti gli altri, quelli che ora lo accusano di doppiezza, come i guittacci che hanno gioito della sua disgrazia e temono il suo ritorno, atterriti dalla simpatia, direi anzi dall'affetto che il pubblico gli ha manifestato».

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Lelio Luttazzi (a sinistra) assieme alla sua compagna Anna Saia. Si sono rifugiati in un cascinale nei pressi di Roma dove vivono appartati, lontani dai clamori di una pubblicità spesso crudele. A destra: Walter Chiari torna ad affrontare il pubblico a Napoli, nel corso di uno spettacolo di beneficenza. E' stato accolto con un applauso durato cinque minuti.

Trabocchetto

Luttazzi sembra più calmo, il discorso va prendendo una sua logica consistenza. «Fino a questo punto, io sono con Walter senza riserve. Ma sia anche chiaro che i trafficantini, la gentuccia, il sottomondo dei Lelio Bettarelli appartiene a lui e non a me. Oddio, non gliene faccio una colpa, ciascuno regola la sua vita come meglio crede, ma perchè — esplode Luttazzi — che bisogno c’era di incaricare me, proprio me, che dai tipi come Bettarelli non compro niente, neppure i quadri, di fare quella maledetta, stramaledetta telefonata?».

Per quanto sia stato già narrato, l’episodio della telefonata contiene ancora molti particolari inediti. E’ un pomeriggio di maggio, il musicista sta riposando con la suoneria del telefono regolata sul minimo. Sono circa le cinque quando egli si alza. «Ha telefonato per lei il signor Chiari — gli dice la domestica. — Il signor Chiari la saluta e desidera che lei gli faccia un favore: si tratta di chiamare una persona a Bologna e avvertirla di mettersi immediatamente in contatto col signor Chiari all'albergo Baglioni di Bologna». Luttazzi pensa fra sè e sè: ma guarda che pasticcio. Si avvia verso l’apparecchio e prima di formare il numero ha un momento di esitazione.

«Basta. Pesco il Bettarelli gli comunico il desiderio di Walter e l’uomo gli chiede: ha bisogno di qualcosa? E io: ma di che cosa? e quello ostinato ripete la domanda. Allora, spazientito, ripeto con voce rabbiosa: ma di che cosa? E butto giù il ricevitore. Come potevo immaginare che il telefono di Bettarelli fosse controllato dalla guardia di Finanza e come potevo supporre che di lì a qualche giorno otto militi della guardia di Finanza, frugassero in casa mia, a Fontana di Trevi, per scoprire dove tenessi nascosta la cocaina?».

Il sortilegio durò 27 giorni. Una cella di tre metri, una finestrella a bocca di lupo, la luce che piove dall’alto e il caldo, la sporcizia, le membra che si intorpidiscono, il cervello che si ribella davanti all'assurdo. «Fu allora — ricorda Luttazzi — che chiesi una biro e un quaderno e cominciai a scrivere: 350 pagine fitte in trenta giorni complessivi di carcere. E’ il libro della mia vita. L’ho intitolato "La casa del toro” perchè come tutti gli uomini nati sotto quel segno, ho bisogno di un rifugio, del calore di un ambiente familiare, di una sedia, un letto e una scodella: insomma di un punto di riferimento per sentirmi sicuro, per vivere. E sono quattro mesi che non vivo più. Non è colpa mia se sono fatto così: un emotivo che riflette, ingigantite, nel proprio animo, le avversità e le gioie della vita. E Walter Chiari che mi conosce, che sa come sono fatto, conosce le mie ombrosità e i miei slanci, proprio Walter mi ha abbandonato. Che gli costava scrivermi un biglietto di conforto in carcere?».

Forse era fatale che due uomini così diversi, accomunati per un attimo della loro vita dalla tirannia dell’assurdo, finissero per riconoscersi estranei e, quasi. l’uno all’altro ostili al termine di un’esperienza sconvolgente per entrambi. Walter è tornato sul palcoscenico, ha ripreso a recitare la sua parte di scapigliato cinquantenne. L’altro, in maniera un po’ velleitaria, come del resto ha sempre fatto, ha preferito ripiegare sull'autoanalisi e la letteratura. In fondo ha imboccato la strada che gli era sempre piaciuta di percorrere. Gli riuscirà di dire qualcosa d’interessante? Giuseppe Berto, l’autore del "Male oscuro”, ne è certo: ha letto il manoscritto e gli ha scritto una lettera piena di sincera commozione.


ADDIO VECCHIO WALTER!

«Non sono più un attore comico: dopo l'allucinante esperienza di cui sono stato vittima non me la sento più di far ridere la gente. Quando è iniziata la mia crisi? Apparentemente pochi minuti fa soltanto, mentre mi preparavo al primo spettacolo di questo mio rientro professionale. Davanti allo specchio mi sono visto improvvisamente un altro, una maschera che non aveva più nulla a che fare con quella del vecchio Walter Chiari. Naturalmente con l'aiuto del cerone avrei potuto cancellare i segni del dolore e dell'amarezza. Ma perchè? Anche il pubblico deve vedermi cosi».

E' appena terminato il suo piccolo show a "Ondina Sport-Sud", lo spettacolo al quale Walter Chiari ha partecipato assieme a Little Tony, a Domenico Modugno, a Renato Rascel e a vari altri attori, cantanti, presentatori. La sua comparsa in pubblico ha suscitato un putiferio di applausi, anche se lui si è limitato a farfugliare poche frasi di circostanza. Un successo abbastanza scontato: Walter Chiari sapeva troppo bene quale scia di curiosità, di pettegolezzi, di facile commozione si porta dietro la sua persona per dubitare dell’esito di questa prova. Cosi tutto è andato liscio come l’olio, anche se i cinque minuti di applausi quasi ininterrotti sono un test sul quale non si può fare eccessivo affidamento per il futuro professionale dell'attore. Il momento della verità — lo dice lo stesso Chiari — verrà quando la prova sarà effettuata al di fuori delle esplosioni emotive».

Attore, sì, ma come? Per Walter Chiari non ci sono dubbi: storielle e barzellette non sono più la giusta moneta di scambio del suo successo. L'incertezza della situazione lo porta addirittura ad affermazioni inquietanti, di una solennità vagamente paradossale. Dice:

La mia carriera è diventata adesso una missione: additare al pubblico le piaghe della società, le ingiustizie, lo sconforto di migliaia di persone che stanno annegando nella solitudine e nessuno si accorge della loro esistenza, condannati prima ancora che sia pronunciata una sentenza. No, non posso più essere il Walter Chiari di un tempo al quale bastava qualche lazzo per divertire il pubblico».

Malgrado il tono febbrile delle dìchiarazioni, è calmo. Ha rinunciato a truccarsi, per non mimetizzare (come dice) i segni del carcere. L’attore è sicuro di sè. Sostiene che lo spaventa solo l'accresciuta popolarità.

Non voglio approfittare della situazione — aggiunge — nè che il pubblico accorra a vedere il prigioniero scarcerato. Debbo tenere duro e difendermi soprattutto dalle pressioni di impresari e produttori che vorrebbero speculare sul mio personaggio. Farò del teatro, con mia moglie; magari anche con Lelio Luttazzi, ma vorrei evitare una coppia di troppo facile successo. Tuttavia con Lelio ho un debito da pagare: è stato un mese in prigione per avermi fatto il favore di una telefonata. Stavamo per firmare il contratto per la prossima edizione di "Canzonissima" quando, invece, siamo stati arrestati. Povero Lelio, mi telefona diverse volte al giorno. Vedersi è quasi impossibile, assediati come siamo dai fotografi».

Gianni Di Giovanni, «Tempo», 19 settembre 1970


Tempo
Gianni Di Giovanni, «Tempo», 19 settembre 1970