Walter Chiari: «lavorando con Rascel ho perduto il sorriso ma ho ritrovato il successo»
A sessant’anni, Walter Chiari affronta sul palcoscenico il primo ruolo drammatico. «Per la prima volta, Renato e io siamo tutt’altro che comici, ma ogni sera gli applausi del pubblico ci dimostrano che la gente ci apprezza anche se non facciamo ridere» - «Per mezzo secolo sono stato un eterno ragazzino: ora mi sento invecchiato, anche se ho ancora tanta voglia di dare» - «Tra tutte le donne che ho amato nella mia vita ne rimpiango una sola: Ava Gardner»
Milano, novembre
Nella prima scena di Finale di partita, un dramma terribile e crudele di Samuel Beckett, Walter Chiari è immobile, seduto su una carrozzella, le ginocchia coperte, le labbra in una curva torva e amara, gli occhi nascosti da lenti piccole e nere, le mani immobili in grembo. E’ sconvolgente. Lo è, soprattutto, perché ricorda, con impressionante somiglianza, Luchino Visconti negli ultimi anni della sua vita: malato, umiliato, distante. E solo.
Fuori di scena, nel salone di un residence lontano dal centro della città, in una tuta blu polverosa, i corti capelli grigi, il passo calmo e quieto, la voce bassa, sembra un tranquillo signore di mezza età ancora piacente ma già distaccato, già molto lontano da tante cose.
Di ritorno da una ripresa televisiva, intervistato da Indro Montanelli, ha l'aria di un professionista che ha passato la vita dietro una scrivania: giacchetta impeccabile e non tanto alla moda, cravatta ben stretta intorno al collo, capelli ravviatissimi, espressione seria, quasi malinconica. L’aria, infatti, è quella di chi ha già passato la mano a qualcuno che, dietro la scrivania, prenderà il suo posto.
Difficile, adesso, ritrovare il Walter Chiari di un tempo. Il "ciuffo intelligente", come lo chiamavano presentandolo un attimo prima di entrare in scena nei cento brillanti ed esaltanti spettacoli che ha interpretato. Lo scanzonato e imprendibile mattatore che non taceva mai, né dentro né fuori di scena. L’indiavolato giovanotto che, mentre passavano, per tutti, gli inevitabili anni, sembrava scansarli per vitalità, inventiva, fantasia, ottimismo, sventatezza. A sessantadue anni, e proprio in un momento per lui importantissimo sul piano professionale, con questo dramma teatrale di enorme impegno, e l'uscita del film Romance col quale ha sfiorato il "Leone d'oro" di Venezia come miglior interprete, Walter Chiari appare, di colpo, un altro.
Definirlo, è difficile. E’ probabile che neppure lui stesso sappia ben dire chi è, o chi sta diventando. Certo, non è più quello di prima. Non è così?
Parla a voce bassa, un po’ roca, quasi affaticata. Il dramma di Beckett lo svuota, lo strema. «Quel vecchio immondo mi sconvolge», dice. «Ogni sera vorrei buttarmi giù dal palcoscenico con la carrozzella, e farlo finalmente morire. Non mi piace il suo vuoto interiore, la sua dipendenza dall'amico, il suo odio per la vita, la sua finta solitudine. Sono finte anche le sue malattie, i suoi malesseri. E’ finto lui. Lo detesto, e lui si vendica. Ancora un poco, e questo vecchio nefando e fìnto, mi annienta».
AMICI SULLA SCENA E NELLA VITA Milano. Walter Chiari, 62 anni, e Renato Rascel, 74, in scena durante il dramma teatrale "Finale di partita” di Samuel Beckett. Amici nella vita e sulla scena, Walter Chiari e Rascel sono tornati a lavorare insieme dopo ventidue anni: nel 1964, infatti, avevano interpretato "La strana coppia”. «In questo dramma», dice Chiari «interpreto la parte di un vecchio cieco e paralizzato che la vita ha reso duro e cinico. E' un personaggio che detesto perché è falso, non mi somiglia, e lui si vendica lasciandomi senza forze per la fatica ogni volta che cala il sipario. Sarà anche perché non ho più vent'anni e mi sento stanco. Il colpo di grazia me l'ha dato la morte di mia madre, pochi mesi fa».
IMMENSA FORTUNA
Non è possibile che sia così cambiato, così improvvisamente immalinconito, così prosciugato, per un'interpretazione, per un vecchio lurido e invelenito contro La vita che porta in scena ogni sera. «No, certo», ammette. «Io non sono come lui, non diventerò mai come lui. Lui, però, è un fantasma che mi perseguita anche di giorno. Io sono cambiato per un altro motivo: perché non ho più vent'anni. Ho avuto vent’anni fino a poco tempo fa. A cinquanta, per esempio, stavo per entrare nei miei vent’anni per la seconda volta. Ho avuto questa immensa fortuna: non sono invecchiato per più di mezzo secolo. Sono stato un interminabile ragazzo. Un ragazzo pieno di fantasia, dì vitalità, di generosità, e dì tutte quelle cose che hanno fatto di me uno che ha dato, e dato. e dato, senza mai aspettarsi in cambio neanche un semplicissimo grazie.
«Io sono di quella razza che lascia tutto sè stesso, non per essere ricordato, ma perché ha il piacere di dare: ed è felice se vede gli altri felici grazie a ciò che lui è. Ho fatto felci milioni di persone: con una barzelletta, una risata, una battuta. Milioni? Forse, anche un miliardo. Tutti hanno preso linfa dalla mia vitalità, energia, buonumore, ottimismo. Ho strafatto, mi dicono. Mi sono disperso, mi rimproverano. Ma non è vero. Semplicemente, ho dato. E io sono di quella razza che, tra il dare e l'avere, preferisce dare. Così non devi niente a nessuno».
IL CAPOBRANCO
E adesso? S'è stancato? Le batoste della vita gli hanno insegnato che il troppo, anche netta generosità, alla fine si ritorce contro? «Ma chi l'ha detto? lo non sono cambiato perché ho dato tutto di me. Non sono ancora esaurito. Solo, purtroppo, non ho più vent'anni. Il colpo definitivo me l'ha dato mia madre morendo, pochi mesi fa. Io sono uno che vive in branco. Come i babbuini o, se vuoi, come gli anatroccoli. Ho bisogno del branco per star bene. Il capobranco, e questo l'ho saputo soltanto dopo, era mia madre. Morta lei, mi sono reso conto che i miei fratelli hanno la loro famiglia, i loro interessi, i loro affetti: è non c'è più quella coesione di prima. Muore il capobranco, e si scioglie il branco.
«Adesso, sono rimasto solo. Ho tre, quattro amici sui quali posso contare. Non appoggiarmi, sia chiaro. Contro chi mi appoggio? Se ti appoggi a qualcuno, casca anche lu. Ho tre o quattro amici coi quali posso parlare, ed è già tanto. Sono sparpagliati per il mondo, non facili da raggiungere. Però, ci sono. Uno sta a Cervia, l'altro in un castello della Lombardia, un altro in Val d'Aosta. Molto diversi fra loro. Assolutamente, non starebbero bene insieme. Io, invece, con ciascuno di loro, sto benissimo. E, per loro, faccio quello che facevo a vent'nni nei miei lunghi vent'anni, per una donna, una cena, un amico,: ore e ore di macchina per raggiungerli. Notti sveglio per stare insieme. Magari un'ora soltanto».
Nel branco fino a sessant'anni. Ora a sessant'anni passati, muore il capobranco e lui si accorge, improvvisamente, di avere intorno pressochè il vuoto. C'è qualcuno che ha degli appunti da fare. Dopotutto, è comodo vivere nel branco, ben protetti, in pratica anche guidati, fino a sessant anni. A quest'età, di sdito, sei tu, invece, il capobranco. Sei tu che tieni insieme persone, affetti, una parte di vita. Sei tu il collante, l'adesivo al quale fanno capo gli altri.
«Per me, non era cori. Ciascuno si sceglie il ruolo che gli piace. Io non potevo fare il capobranco perché senio, fondamentalmente un uomo Ubero. Lo sono sempre stato e lo sarò sempre. Non soltanto nel lavino, ma anche nei confronti degli essai umani Uno molto indipendente, inafferrabile, incapace di piegarsi a convenzioni, di infilarsi dentro gli schemi Con questo, non un irresponsabile. Però solitario, orgoglioso. Se vuoi, anche superbo o presuntuoso. Non sto da nessuna parte. Sto solo con me stesso e coi miei amici A Roma, non ho mai avuto un clan, e per questo mi considerano troppo poco romano. Perché non do feste, non ricevo nella mia casa, non apro la terrazza ai cinematografari o gli impresari di teatro.
«A Milano mi considerano troppo poco milanese, perché non frequento la gente giusta, i salotti dove si incontra chi conta, i ristoranti dove vai per farti vedere. Io sono uno che vive la sua vita. A me basta un piatto di minestra mangiato qui nel residence, con un pezzo di pane e un frutto. Non sono un mondano, un intrallazzatore, un furbetto che ammicca. Divido questo piatto di minestra con te in questo posto distante dalla gente che conta, perché mi piace questa minestra e sto bene in questo ambiente. Ho sempre fatto così: ho badato più a quello che poteva piacere a me e alle persone che mi interessano, piuttosto che al mio interesse.
UNA COPPIA FAMOSA MiIano Walter chiari e Renato Rascel posano per il nostro fotografo nel camerino del teatro. «Lavorando in questo dramma», dicono «ci siamo accorti che è più facile far commuovere che far ridere». Facendo un bilancio della sua vita, Walter Chiari dice: «Oggi l’unica persona che conta veramente per me è mio figlio Simone, che ha ormai sedici anni. Il nostro non è un rapporto facile, ma spero che migliori con il passare del tempo». Walter Chiari, che sta avendo successo anche con il film "Romance”, è da anni legato all’attrice Patrizia Caselli. (Foto Italpix).
«AVA ERA UNICA»
«Che cosa credi succeda, dopo questo grande successo del film Romance dove, cori hanno detto, senio bravissimo? Niente. Assolutamente niente. Registi e produttori italiani, all'occorrenza, non chiameranno Walter Chiari per un prossimo film, ma uno straniero. Oppure un mio collega italiano già collaudatissimo. Non me, sta sicura. Perché io sono ingombrante. Sono scomodo. Sai perché? Perché ho osato, per tutta la mia vita, uscir fuori dalla mediocrità. Ho osato pensare, usare la mia testa. Io non ho mai detto signorsì a nessuno. E questo, sconvolge, disorienta. Preferiscono un mediocre che dice signorsì. Dappertutto, lo sai anche tu, in qualsiasi professione. Oggi chi pensa con la sua testa è penalizzato. Osi essere qualcuno diverso dalla massa. Ma, ascolta bene. In questi dieci centimetri di cranio, c'è una cosa meravigliosa. Cè un cervello. E tu, per dire signorsì per avere buone parti, buone sistemazioni, molto denaro, molto successo, rinunci a questi dieci centimetri di te, che sono la cosa più importante? Che lo facciano gli altri. Io non ho né voglia né bisogno di essere ricordato per essere stato un grande attore. A me basta sapere che c'è tantissima gente che ha riso, che si è divertita, che ri è sentita meno sola soltanto vedendo la mia faccia in un reperto televisivo, o in uno di quei cento-diciannove vecchissimi film che ritrasmettono in TV».
Com'è amaro. «Dico soltanto la verità, e l'ho sempre saputa. Io ho scelto di regalare la mia vita perché sapevo che era meglio cori. Cosa la risparmi a fare? Per avere più denaro? A me non interessa. Male che vada, un piatto di minestra lo trovo sempre. Vendo quello che ho, e il piatto di minestra ce l'ho per il resto della vita! Un piatto di minestra è veramente tutto ciò di cui ho bisogno. Se ho dato tutto di me nel lavoro, anche anche nei miei affetti ho dato molto, moltissimo».
Davvero? Ci sono donne che rabbrividiscono ancora al pensiero dell'inafferrabile Walter. Del compagno che non era mai soltanto suo. Sempre gli amici intorno. Intimità, niente. Donne che dicono che Walter è generoso, affettuoso, tenerissimo: ma che non lo si può mai fermare, mai avere.
«Piano. C'è una donna che non può dire questo perché ha avuto, da me, la massima dedizione. Ed è una donna unica, inconfondibile e irripetibile. Una che, per prima, senza che io glielo chiedessi per un anno mi ha seguito in tutte le piazze d'Italia senza lamentarsi, senza chiedere niente. Una sera a Voghera, una ad Alessandria, una a Sanremo, dieci a Milano. Ore ed ore di viaggio, lunghe attese in camerino, una pazienza infinita. Una donna che era al culmine del suo lavoro, della sua bellezza, della sua celebrità e, per un anno, ha rinunciato a film, ha distrutto contratti, ha dimenticato che esisteva il resto del mondo. Una donna cori non ha avuto, in quell’anno, che gli scampoli di me. Ma, l'anno seguente, ho dimostrato a lei che anch’io sapevo dare. E, per due anni, a mia volta ho rinunciato al lavoro, ho attraversato l'oceano per vederla solo due giorni, ho dimenticato tutto per starle vicino. Ma queste sono donne che trovi una sola volta nella vita. Ava Gard-ner, infatti, era unica».
Non per fare l'avvocato degli alti! Ma c'è anche un figlio, nel mondo. C'è Simone Annichiarico, anni sedici, nato dal breve e non felice matrimonio con Alida Rustichelli, in arte Chelli.
«Eh si, che c'è Simone. Col quale sono stato pochissimo, purtroppo. E Simone è l'unica persona che conta veramente molto per me. Un ragazzo al quale vorrei dare tantissimo e col quale, per ora, ho un rapporto non semplice. Non dimenticare che, sedici anni fa, lui nasceva e io andavo in galera per quella maledetta faccenda di droga. Non dimenticare che quella maledetta faccenda di droga mi ha perseguitato fino a pochissimo tempo fa. Allora: come ti metti, in una situazione cori dolorosa, cori imbarazzante, di fronte a tuo figlio? Che cosa gli dici? Io non ho neppure il coraggio di dargli suggerimenti, consigli. Mi limito ad avere una grande pazienza.
«CON PATRIZIA MI SENTO UN VENTENNE» Milano. Walter Chiari brinda con l’attrice Patrizia Caselli, 26 anni, sua compagna dal 1979. «La nostra unione ha superato momenti così difficili», dice Chiari «che è destinata a durare ancora anni. Lo spero, perché con Patrizia mi sento un ventenne».
SOCIETÀ SPIETATA
«Sta crescendo, finalmente. Perché è soltanto quando il figlio cresce, quando ha le sue esperienze adulte, i suoi dolori adulti, le sue adulte gioie e le sue adulte delusioni, che può veramente avere un rapporto giusto col padre. Ogni volta che ci incontriamo, qualcosa cambia in meglio, fra noi. Sarà, però, una storia molto lunga. Ho molti pudori nei suoi confronti Non posso dargli, come esempio, la mia vita. Spero che anche lui cresca libero. Ma non posso prendermi la responsabilità di dirgli: vivi come ho vissuto io, sperperando tutto di te, dall'energia all’intelligenza, al tempo. Spendi tutto per dare, senza avere. Per molti aspetti, Simone mi assomiglia molto. Disegna benissimo, è sportivo, socievole, non capisce niente di matematica. E ha certi vuoti, certi buchi dove deve stare da solo a fantasticare su un libro o un disegno, che sono gli identici vuoti che ho io. Sono quegli spazi dove la fantasia va, e va cori felicemente lontano che nessuno, neppure io stesso, so dove va. Simone ha tutte queste cose, che senio anche le mie, e ne sono felice.
«Ma non so, più avanti, che cosa gli resterà. Lui vive in una società spietata e durissima, e può anche darsi che sia costretto a cambiare per sopravvivere. Io non posso dirgli fregatene: della società, del lavoro inquadrato, dei signorsì. Come puoi, in un momento così, pieno di managerini che accumulano, che ti misurano per quel che guadagni, per quel che produci».
Un attimo, un sospiro profondo: «Io ho prodotto soltanto del vento. Un vento fatto di tante piccole o grandi ventate di gioia, risate e spensieratezza, buonumore e ottimismo. Ho regalato queste ventate, queste arie lievi ed effìmere, a tutti Effimere, certo. Perché niente è più effìmero di una risata, di un momento di smemoratezza o di gioia. Però, quel momento c'è stato. E forse era proprio arrivato nell'attimo giusto. Forse un segno è rimasto, nella gente. E io sono felice se la gente, sulla faccia, ha una ruga in più per le risate che si è fatta con me. Tanto, la vita, di rughe dure, te ne dà abbastanza.»
L’OMBRA E LA LUCE
Sono le rughe che adesso lui ha. Tutte, spietatamente, profondamente incise sulla lunga faccia improvvisamente immalinconita, prosciugata, stranita. Infatti, è la faccia di un uomo sorpreso. Di uno che si sorprende diverso, e ancora non sa bene rendersi conto di che cosa è successo. Ma, grazie a Dio, né sorprese, né rughe, né malinconia, hanno indurito questa faccia un po' stanca, e sola.
«Ho ancora molto da vivere», dice con la voce bassa: ed è come cercasse di convincere se stesso. «Ho molto da vivere, da fare, da dare».
E il ragazzo? Quel ragazzo che è stato fino a cinquanta, fino a sessant'anni se n’è andato del tutto? Gli occhi verdi, vivi e buonissimi, guizzano per un momento dolcissimo: «Non andrà mai via del tutto. Avrò sempre la capacità di guardare un raggio di sole che scivola sopra una foglia. Saprò sempre fermarmi su quella linea fra l’ombra e la luce, e sapere che anche la parte nell'ombra è una parte di foglia. Saprò ancora amare la parte in luce della foglia, perché è più bella, se illuminata dal sole. Ma non dirò mai che quella nell’ombra è brutta, o che non è foglia. Questa capacità di vedere e amare la gente, in tutte le sue parti, quella in luce e quella in ombra. Questa generosità, questo amore civile e cristiano non lo perderò mai».
Edgarda Ferri, «Oggi», anno XXX, n.48, 28 novembre 1986
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Edgarda Ferri, «Oggi», anno XXX, n.48, 28 novembre 1986 |