15 aprile 1967, la morte di Totò - Rassegna stampa
Indice della rassegna stampa
«Stampa Sera», Sabato 15 e domenica 16 aprile 1967
«La Stampa», domenica 16 aprile 1967
«Stampa Sera», lunedi 17, martedi 18 aprile 1967
«La Stampa», martedi 18 aprile 1967
«Stampa Sera», martedi 18, mercoledi 19 aprile 1967
«Corriere d'Informazione», Sabato 15 e domenica 16 aprile 1967
«Corriere della Sera», domenica 16 aprile 1967
«Il Piccolo di Trieste», domenica 16 e martedi 18 aprile 1967
Varie testate giornalistiche, da Sabato 15 e domenica 16 aprile 1967 in poi
Articoli tratti da riviste e rotocalchi
La scomparsa di Totò, rassegna stampa
Franca Faldini: da James Dean a Totò
La morte di Totò: Eduà, è la fine. Ti raccomando, portami a Napoli
La cappella gentilizia della famiglia de Curtis
Le nozze con Franca Faldini sono il lungo segreto di Totò
Vorrei sposare Franca in chiesa
Tuttototò: in dieci personaggi il meglio di Totò
Renzo Arbore: «È la Napoli che piace a me»
16 aprile 1967, il sipario si chiude. La scomparsa di Totò sui giornali
«Portatemi a Napoli», ha detto prima di morire - Un grande attore, un vero amico
«Eduà, stai ccà!» mi disse 50 anni fa al primo incontro
Addio Totò
La morte di Totò: «stateve bbuone!»
Caro Totò: due giorni prima aveva girato la scena di un funerale
Il principe triste che donava sorrisi
I fiaschi dell'uomo di gomma
Franca Faldini: nessuna rivalità tra me e la prima moglie di Totò
Totò, il comico dalla faccia tragica
La scomparsa di Totò: siamo uomini o caporali?
Daniele D'Anza: Totò sfiorò la morte in palcoscenico
La tardiva RIscoperta di Totò
Franca Faldini, la vedova di Totò
Tuttototò, la sua ultima parte fu quella del capellone
Totò, il principe surrealista di Napoli
Franca Faldini: «Totò è sempre nel mio cuore però da vent'anni ho ritrovato la felicità accanto a un principe»
Tuttototò (ma censurato)
Totò non è mai diventato ricco perché non dava valore al denaro
Franca Faldini: «Totò? Meglio di Gary Cooper»
Totò trenta anni dopo: la rassegna stampa
Franca Faldini: «Totò si diventa, signori si nasce»
Daniele D'Anza: ho diretto Totò fino agli ultimi giorni
Liliana de Curtis: la vita ha dato molte coltellate alla schiena di mio padre
La maschera di Totò
Ricordo di Totò
Un monumento? Ma mi faccia il piacere...
Rievocazioni: il mio Totò
Franca Faldini: è ingiusto chiamarmi «vedova allegra»
Il grande Totò muore ignorato dalla critica - «Il principe straccione»
Franca Faldini: sono io che non ho mai voluto sposarlo!
«Principe, parli come bada». Ricordo di Totò a vent'anni dalla sua scomparsa
Dove sono finiti tutti i soldi di Totò?
E adesso ascoltiamo la Faldini
Franca Faldini: Totò vent'anni dopo
Totò, che piacere rivederti
Il fisco contro Totò: scetticismo per la notizia che sia morto povero
La morte di Franca Faldini, compagna per 15 anni di Totò
Il lungo applauso per l'ultimo "esaurito" della carriera di Totò
Totò: «sarò grande dopo la mia morte»
Articoli & Ritagli di stampa - Rassegna 1967
È morto il principe Totò
Quotidiano «Stampa Sera», Sabato 15 e domenica 16 aprile 1967
Aveva 69 anni - Le sue ultime parole prima di perdere conoscenza sono state: «Muoio, portami a Napoli» - Aveva cominciato a recitare giovanissimo nel «varietà» e negli anni fra le due guerre si era imposto come il più divertente degli attori italiani di avanspettacolo - Il cinema e la rivista gli avevano dato, nell'ultimo ventennio, una immensa popolarità - Da tempo era quasi cieco, i suoi occhi si stavano spegnendo, rovinati dalle luci
«Muoio, portami a Napoli» ha detto Totò al cugino Eduardo questa notte poco dopo l'una. Sono state le sue ultime parole. Alle 3,30, il celebre comico si è spento per infarto cardiaco, senza più aver ripreso conoscenza, nella sua casa di via Monte Parioli 4. Il trapasso è avvenuto serenamente; con il cugino Eduardo, ai lati del grande Ietto c'erano la moglie di Totò (l'ex attrice Franca Faldini), la figlia Liliana, la suocera, il medico personale dottor Cusamano e un celebre cardiologo, il professor Guidotti. In fondo alla stanza in lacrime, alcuni amici, tra i quali Mario Castellani, che era stato la «spalla» di Totò fin dagli inizi della sua carriera, nella prosa e nella rivista.
La porta è chiusa. Sono le 8. In una stanza accanto, Franca Faldini dorme da un'ora, dopo la notte insonne. «Aveva terminato l'altro ieri un lavoro per la televisione e si preparava a interpretare due film», ha detto l'ex attrice poco pri ma di ritirarsi. «Non era affaticato. Stava bene. Mai aveva sofferto di cuore. E' stata una cosa terribile. Ai primi sintomi del male ho chiamato il professor Guidotti. E' giunto in pochi minuti, ma non è stato possibile salvarlo: due ore dopo il nostro Totò era morto». Il cugino Eduardo, Castellani, i pochi intimi, il personale di servizio, tutti con il volto teso e rigato di lacrime, sono in piedi da ieri. Sono loro a ricevere le prime visite, le prime manifestazioni di cordoglio. «So che verranno migliaia di persone — dice Eduardo — e che tutti vorranno vederlo per l'ultima volta. Ma non sarà possibile. Tra le sue volontà, una delle più ferme e precise è stata sempre quella che dopo la sua scomparsa solo la moglie e pochi congiunti avrebbero dovuto vederlo. Non faremo eccezioni per nessuno. So che dovremo dir di no a tanta gente famosa, ma non possiamo tradirlo». Nonostante la cecità quasi totale che lo affliggeva dal 1958 — «da allora ha avuto sempre una visione di ombre: non vedeva immagini, ma solo dei contorni» dice Mario Castellani — Totò ha sempre continuato a lavorare intensamente, concedendosi solo pochi momenti di riposo.
Lunedì avrebbe dovuto iniziare un film che Nanny Loy ha in lavorazione da qualche giorno, «II padre di famiglia». Ieri si è alzato, come solito, abbastanza presto. Consumata la prima colazione nel grande salotto dell'appartamento (moquette gialla, gabbia di uccelli esotici e una foto con dedica di Umberto di Savoia) il celebre attore si è messo al pianoforte ed ha provato alcune note di una, canzone, inedita, che dovrò completare il suo primo «microsolco», in vendita tra qualche giorno. Poi ha voluto ascoltare al registratore alcune strofe di poesie. Non poteva scrivere, a causa della sua quasi cecità; solo incidere. Aveva già pubblicato un libretto di poesie intitolato A 'Livella, e ne stava preparando un altro. Verso mezzogiorno, Totò ha dovuto interrompere il suo lavoro: un improvviso dolore allo stomaco, qualche giramento di testa. Non si è impressionato, ma ha chiamato ugualmente la moglie. «Mi sento poco bene — ha detto — forse è meglio chiamare il medico». Il dott. Cusamano è giunto nell'abitazione di Totò verso l'una. Dopo la visita, ha ordinato delle analisi. La diagnosi: forse un malessere per aver ingerito cibi guasti, ma niente di grave.
In serata il risultato delle analisi allontanava ogni preoccupazione : tutte negative. Il celebre comico si è tranquillizzato, tanto che avrebbe voluto recarsi in via Teulada per completare la registrazione di una trasmissione che andrà in onda prossimamente in otto puntate: Tutto Totò. Ma il suo medico l'ha sconsigliato. A cena, verso le 21, l'imprevisto. Totò si è sentito nuovamente male: due o tre attacchi di nausea, brividi intensi. Il nuovo malessere è durato un'ora. «Sto meglio, state tranquilli», ha detto prima di coricarsi. Di lì a pochi' minuti invece; l'ultima crisi. I funerali dell'attore si ,svolgeranno lunedì a Roma, probabilmente nella chiesa di Sant Eugenio, in Viale Belle Arti. Saranno semplicissimi, secondo il desiderio espresso dallo scomparso. Quindi, la salma sarà portata a Napoli.
Luca Giurato, «Stampa Sera», 15-16 aprile 1967
«Sono soltanto un attore cha fa ridere»
«Totò, la marcia dei bersaglieri!» gridava il pubblico impazzito. Erano gli anni fra le due guerre, il «varietà», come si diceva allora, si era rifugiato nei cinematografi, era diventato «avanspettacolo», ma si era preso la sua rivincita: gli spettatori accorrevano alle recite pomeridiane e serali senza curarsi del film, spesso mediocre, ma per applaudire i suoi comici preferiti, le sue scintillanti «soubrettes»; e Totò era l'artista più popolare di tutti, anche se i critici storcevano la bocca, dicevano che era troppo scurrile, che era soltanto una marionetta. Marionetta? Può darsi. In verità, quando si scatenava sul palcoscenico dirigendo l'orchestrina come se si trattasse di un grande complesso sinfonico, altercando con la grancassa, comandando botti e scoppi come fossero fuochi d'artificio (e sembrava di vederli sprizzare dalle sue mani, da tutto il corpo), si snodava davvero come un burattino. E con movenze rigide, a scatti, e tuttavia fulminee, guidava poi, a passo di corsa e con un piumetto in capo, la compagnia per tutto il palcoscenico, entrando e uscendo dalle quinte, percorrendo la passerella, scendendo, quando poteva, anche in platea mentre l'orchestra suonava furiosamente la fanfara dei bersaglieri. Del resto, quella sua faccia asimmetrica, con la gran bazza di traverso che bucava lo spazio come gli zigomi alti e prominenti, sembrava ritagliata in un ceppo di legno, lo stesso ceppo che era servito a Geppetto per un altro grande burattino, Pinocchio. Ed era la faccia, soltanto un po' più smagrita e più famelica, che Totò aveva cominciato a portare sui palcoscenici di Napoli (dove era nato nel 1898) dopo aver interrotto gli studi: era stato anche in seminario a Lecce, aveva la vocazione (quella del teatro fu più forte, ma Totò rimase sempre un buon cattolico osservante).
E proprio la sua faccia gli aveva procurato le prime amarezze, ma anche il primo trionfo: a Roma, dove si era trasferito per cercare fortuna nel € café-chantant*, fu assunto dalla compagnia di prosa di Eduardo Scarpetta, ma venne licenziato dopo tre sere perché, nella sua brevissima parte di un cameriere che non parlava, suscitava nel pubblico un'irrefrenabile ilarità A Don Vincenzo, la r „a non piacque.- «In questa compagnia — disse — sono io che faccio ridere». E Totò ritornò al «café-chantant». In Questo genere di spettacolo, Totò aveva esordito a Napoli a diciassette anni al teatro Mercadante, dove il varietà si alternava alle marionette, ma se n'era fuggito poi a Roma imponendosi a poco a poco con un repertorio di macchiette e di parodie ispirate ri altri fantasisti, ma ricreata con genialità, quando non addirittura inventate di sana pianta. Già allora aveva adottato la bombetta, i calzoni a righe di un inverosimile «tight» che arrivavano appena sotto il ginocchio e mostravano i calzini colorati, una giacca nera stinta e con le maniche I troppo corte: un abbigliamento che incnsciamente, richiamava quello di un altro grande mimo del varietà prima che dello schermo, Charlot. Nel primo dopoguerra, decaduto il «café-chantant», Totò entra risolutamente nel teatro di rivista. Già nel 1926 è accanto a Isa Bluette, poi ad Angela Ippaviz. Sono gli anni delle compagnie Marasca, Totò ha già trovato il suo tipo, la sua maschera, e anche una «spalla», Mario Castellani, che gli rimarrà fedele per tutta' la vita. Quante sono le riviste che Totò interpreta fra le due guerre? Decine e decine, dapprima con la compagnia Molinari, poi ancora con Moresca, e dal 1933 al 1944 con una propria compagnia. Sono gli anni in cui la popolarità di Totò s'impone in tutta Italia. Le sue filastrocche, i suoi lazzi, le sue battute assurde, quasi metafisiche, e talvolta anche le sue sguaiataggini, conquistano il pubblico; forse nessun attore comico ha saputo fare ridere quanto lui e cosi a lungo. Le sue riviste degli anni quaranta, prima e dopo la guerra, e che portano tutte la firma di Michele Galdieri, sono state probabilmente gli spettacoli più popolari e più divertenti del nostro palcoscenico leggero, prima che la rivista a grande spettacolo e la commedia musicale prendessero il sopravvento. Ma ad entrambi i generi, Totò fece ancora a tempo a contribuire, sebbene si andasse progressivamente allontanando dal teatro. L'ultima sua rivista è del 1936. (Continua)
L'improvvisa scomparsa a Roma del comico napoletano
Totò: dalle riviste degli anni quaranta ai 100 e più film di questo dopoguerra
Sul palcoscenico aveva trovato un'eccellente «spalla» in Mario Castellani e un prezioso collaboratore in Michele Galdieri - Come nacque e si consolidò la sua fortuna cinematografica - L'artista era diverso dal personaggio - Una vita privata tranquilla e una passione segreta per la poesia e la canzone napoletana
Che cosa era accaduto? Il cinema aveva scoperto Totò. E, si badi, il cinema popolare, quello che chiedeva a Totò soltanto di moltiplicare i suoi gesti e le sue battute nelle farse più grossolane. I primi tentativi, verso la fine degli anni trenta, non erano stati molto felici, ma intorno al 1948 la fortuna cinematografica di Totò era già consolidata. Più di coito sono i film da lui interpretati, ma basterà ricontare quei pochi nei quali egli potè mettere in luce le sue straordinarie capacità di attore conquistandosi cosi, oltre il favore del pubblico, anche quello della critica. Guardie e ladri di Monicelli, Dov'è la libertà? di Rossellini, L'oro di Napoli di De Sica, ancora Monicelli con Totò e Carolina, e soprattutto con I soliti ignoti dove Totò fu un indimenticabile maestro di scassinatori. Recentemente, era stato uno spassoso Fra' Timoteo nella Mandragola di Lattuada, e due mesi fa arem ottenuto un «Nastro d'argento» come protagonista di Uccellacci e uccellini di Pasolini. La cerimonia per l'assegnazione del premio fu forse l'ultima occasione in cui Totò comparve in pubblico: era invecchiato, dietro le spesse lenti scure si indovinava che il suo sguardo era quasi spento, ma non aveva perso il suo buonumore. Pareva stupito delle accoglienze affettuosissime del pubblico fiorentino che affollava il € Comunale», e il suo stupore era abbastanza sincero.
Come disse allora, ripetendo una frase che aveva detto altre volte, non gli sembrava di essere un grande attore di cinema, ma soltanto un comico che sapeva far ridere. E' vero, ma vi pare pocot Anche sullo schermo, Totò è stato uno degli attori che ha fatto ridere di più. L'artista era diverso dal personaggio? Abbastanza, o almeno ci teneva ad esserlo. C'è infatti un abisso tra il nome d'arte, Totò, e il nome vero, Antonio De Curtis Gagliardi Ducas Comneno di Bisanzio. Quella sfilza di illustri casati, sanciti addirittura da sentenze dei tribunali della Repubblica, non era soltanto una forma di snobismo, ma una sorta di rivincita del mimo o del «pagliaccio». che rivendicava un passato illustre per strapparsi dal volto una maschera comica che talvolta gli pesava. Principe per diritto di sangue, Totò cercava anche di esserio nella sua vita privata, piuttosto tranquilla, ragionevole e raffinata quanto tumultuosa, assurda e volgare era quella che viveva sulla scena e sullo schermo.
Anche la sua vita sentimentale fu alquanto riservata. Sposatosi nel 193S con Diana Rolliani (2), l'unione non fu felice. Ebbero una figlia, ora sposata col produttore cinematografico Buffardi: ma nel 19J9 il matrimonio era già in pezzi. Più duratura fu l'unione con l'attrice Franca Faldini consolidata nei 1955 da un matrimonio civile (l'attore aveva ottenuto l'annullamento del precedente vincolo). Ne nacque un figlio, Massimiliano, che però morì quasi subito. Viveva a Roma, ma il suo cuore era rimasto a Napoli. Non è retorica dirlo: basta leggere le sue liriche nelle quali, continuando il filone della poesia partenopea dell'Ottocento, espresse il suo amore per la città in versi malinconici, quasi crepuscolari; basta riascoltare le sue canzoni — chi non ricorda «Malafemmina!» — anch'esse sulla scia di una tradizione che dura ancora ai nostri giorni, per capire l'affetto ì immenso che legata Totò a Napoli.
Alberto Blandi, «Stampa Sera», 15-16 aprile 1967
Un telegramma di Saragat
ROMA, sabato sera.
Il Presidente della Repubblica ha inviato alla famiglia di Totò il seguente telegramma: «La scomparsa del grande e popolare attore Antonio De Curtis è un grave lutto per il teatro ed il cinematografo italiani e rattrista gli inminierevoli spettatori che per lunghi anni hanno ammirata ed amato i suoi straordinari mezzi espressivi al servizio di una profonda sensibilità artistica ed umana. Associandomi al lutto del mondo dello spettacolo, invio ai familiari tutti l'espressione del mio vivo cordoglio».
«Stampa Sera», 15-16 aprile 1967
Quotidiano «La Stampa», domenica 16 aprile 1967
Totò è morto a 69 anni stroncato da infarto a Roma Totò è morto a 69 anni stroncato da infarto a Roma. Colpito da malore giovedì - Aveva detto alla moglie: «Vorrei morire a Napoli, mentre scrivo una canzone o in palcoscenico » - Il telegramma dì Saragat
(Nostro servizio particolare) Roma, 15 aprile.
Totò è morto la notte scorsa, alle 3,30, stroncato da un infarto. Il celebre attore aveva avvertito un grave malessere ieri sera, verso le 21. «Adesso basta. Lasciatemi morire», ha detto ai medici che con massaggi al cuore e cardiotonici tentavano di tenerlo in vita. Sei ore dopo, sfinito dalla lunga sofferenza il grande attore si è spento nella sua abitazione ai Parioli. «Vorrei morire a Napoli, lavorando: mentre scrivo una poesia o le parole di una canzone» aveva detto giorni or sono alla moglie, l'ex attrice Franca Faldini «ma, soprattutto, mi piacerebbe morire in palcoscenico».
Tornare a recitare in teatro era il suo desiderio più grande ed era convinto di riuscire, nonostante la cecità quasi totale, come riusciva sul "set" o negli studi televisvi. Per la tv, il grande attore napoletano ha lavorato per l'ultima volta. La trasmissione si chiama «Tutto Totò», una specie di «opera omnia» di personaggi da lui creati, in 10 puntate. E' rimasta non conclusa. Giovedì scorso, l'attore dovette interrompere il suo lavoro. Non si sentiva bene. Sembrava un disturbo di origine gastrica. In serata, qualche difficoltà nel respirare, subito attribuita all'eccessivo consumo di sigarette che faceva abitualmente. Il primo allarme venne dopo cena, quando Totò fu colpito da forti attacchi di vomito, dopo aver consumato, come d'abitudine, un pasto frugale. Fu chiamato il medico di famiglia, dottor Cusamano. che per tranquillizzare il paziente ordinò una serie di esami.
Ieri, dopo una notte agitata, l'attore si è sentito meglio, ma è rimasto in casa per tutta la giornata, in compagnia della moglie. Il comico si è tranquillizzato, tanto che avrebbe voluto tornare in televisione a continuare il suo lavoro. Ma il medico l'ha sconsigliato Verso le 21, parlando al telefono con un nipote, aveva espresso soddisfazione per il suo stato di salute, confermando l'intenzione di cominciare lunedi prossimo la lavorazione di un film di Nanni Loy. Dieci minuti dopo, un violentissimo attacco. Questa volta la natura del male non lasciava adito a dubbi.
Cominciava la lunga agonia, che gli interventi dei medici hanno inutilmente tentato di arrestare. Il trapasso è avvenuto serenamente; con la moglie e la figlia Liliana (nata dal primo matrimonio dell'attore) intorno al letto c'erano il cugino Edoardo e alcuni intimi. I funerali si svolgeranno lunedì a Roma, nella chiesa di S. Eugenio, in viale Belle Arti. Saranno semplicissimi, di «terza classe», secondo il desiderio espresso dall'attore. Quindi, la salma sarà portata a Napoli e dopo una nuova, solenne funzione tumulata nella tomba di famiglia. Appena diffusa la notizia della morte di Totò, l'abitazione dell'attore, in via Monte Parioli 4. è stata subito meta di un incessante, commosso pellegrinaggio di amici, colleghi, ammiratori. A migliaia, giungevano i telegrammi. Tra i primi, ci sono quelli del Capo dello Stato, del Presidente del Consiglio, del ministro dello Spettacolo. Il presidente Saragat ha scritto: «La scomparsa del grande popolare attore Antonio De Curtis è un grave lutto per il teatro e il cinematografo italiano e rattrista gli innumerevoli spettatori che, per lunghi anni hanno ammirato ed amato i suoi straordinari mezzi espressivi al servizio di una profonda sensibilità artistica td umana. Associandomi al lutto del mondo dello spettacolo invio ai familiari tutti l'espressione del mio vivo cordoglio». c Non credevo avesse tanti amici, tanta gente che gli voleva bene — ha detto Franca Faldini —. Quando lo conobbi, famoso com'era, mi aspettavo un tipo estroverso, brillante. Invece mi si presentò un signore riservato, che non amava il mondo d'oggi e detestava la fretta, il frastuono, la volgarità, l'arrivismo. Per questo, viveva come in un mondo suo, da isolato. Passavamo le serate in casa, con pochissimi amici, più spesso soli. "Chiuderò con un fallimento, nessuno mi ricorderà", aveva detto tempo fa. Eppure, continuava a ricevere proposte di lavoro, perché aveva il segreto di nobilitare anche i testi più banali».
l.g., «La Stampa», 16 aprile 1967
La figura e la vita del popolare attore scomparso
Il difficile inizio di Totò nel teatro prima di arrivare al grande successo
Era l'ultimo erede del trono di Bisanzio: ma conobbe la miseria e dovette recitare per anni nelle sale di avanspettacolo - Si sposò due volte, una donna si uccise per lui - Da tempo era quasi cieco, ma continuava a lavorare
(Nostro servizio particolare) Roma, 15 aprile.
Totò era nato a Napoli il 15 febbraio 1898, da Giuseppe De Curtis e Anna Capitani. Il padre apparteneva ad uno dei più illustri casati d'Europa, ma da tanto tempo decaduto. Al giovane De Curtis, dell'antica gloria, non era rimasta neppure la sicurezza del blasone, contestata da altri pretendenti. Tant'è vero che, per farselo riconoscere, qualche decennio più tardi, quando era diventato il grande Totò, dovette condurre una lunga battaglia giudiziaria. Ebbe l'investitura di imperatore di Bisanzio in un'aula di pretura, dove gli fu riconosciuto il titolo di Sua Altezza Reale Antonio Maria Giuseppe De Curtis-Gagliardi Griffo Focas Comneno, ultimo erede dell'impero latino di Oriente.
Aveva avuto un'infanzia stentata, i suoi vivevano al rione Carità, tra i più poveri rioni di Napoli. Le strade del quartiere furono il suo primo palcoscenico: era un «ragazzino normale», come egli stesso raccontò una volta. Ma, crescendo, il suo mento prese a deformarsi fino a diventare una scucchia aguzza, la «maschera di Totò». «Come aprivo bocca, qualsiasi cosa dicessi con quella bazza che parlava per conto suo, chiunque mi ascoltasse scoppiava in una gran risata».
Totò soffrì a lungo per la sua «deformità» («.Quante lacrime non abbiamo mischialo insieme io e mia madre»), finche non si convinse che far ridere la gente «era una cosa bella assai». E decise di fare l'attore comico.
I suoi sognavano di farne un ufficiale di marina, ma lui interruppe gli studi mettendosi a recitare nel teatro Orfeo, piccolo e sporco, affollato di un pubblico esigente. Mimava personaggi della vita cittadina, improvvisava canzonette. «l miei cercavano di ostacolarmi in tutti t modi, ma quando cominciarono a entrare i primi soldi in casa, si misero quieti». Dopo alcuni anni nel «Café chantant» Totò decise di dedicarsi al teatro di varietà: e iniziò le lunghe peregrinazioni delle compagnie di avanspettacolo, che portarono la sua macchietta ad imporsi presso il pubblico più popolare di tante città italiane. Attraverso questo duro tirocinio, che gli consentì di affinare tanto meglio i suoi mezzi, e soprattutto di raggiungere uno straordinario grado di comunicativa col pubblico, Totò giunse alla grande compagnia di rivista: nel 1930, con Marisa Maresca.
Tre anni dopo il nome di Totò era già così noto che egli poteva dare vita a una propria compagnia, della quale era insieme primo attore e impresa ria Iniziò così la lunga ininterrotta serie dei successi di Totò nel teatro di rivista: con tanti titoli che ancora oggi gli italiani ricordano con simpatia: «Bada che ti mangio», «Che ti sei messo in testa», «Quando meno te lo aspetti», «Orlando curioso».
Nel 1937 cominciò ad accorgersi di lui anche il cinema italiano. La sua prima esperienza fu «Fermo con le mani», a cui seguirono «Animali pazzi» e, soprattutto «San Giovanni decollato» di A. Palermi (1941). Fu questa la pellicola che rivelò l'attore al grand pubblico dello schermo, e che lo fece imporre, con una straordinaria fortuna, per quasi trent'anni. Vi fu un periodo, verso il 1950, in cui Totò gì rava fino a sedici pellicole in un anno.
Negli ultimi tempi Totò si era arreso alla televisione: per molti anni si era rifiutato di apparire sul video, convinto che lo spettacolo televisivo «bruciasse» un attore proponendolo a troppi spettatori insieme. Si decise a dire «sì» dopo essere apparso in «Studio Uno», come ospite d'onore. La trasmissione «Tutto Totò», in dieci puntate indipendenti l'una dall'altra, e che andrà in onda prossimamente, comprende alcune fra le più gustose scene create dall'attore per il teatro.
Totò si era sposato due volte Il primo matrimonio fu con Diana Rollani (2), a Roma, nel 1931: i due ebbero quattro anni dopo una figlia, Liliana (che nel 1951 si sarebbe sposata con il produttore Gianni Buffardi) e dopo altri quattro anni si divisero. La loro unione era già fallita da tempo. Ci fu poi la tragica conclusione di un antico idillio con Liliana Castagnola, una bellissima cantante, che per amore dell'attore si uccise; e che ora riposa nella tomba di famiglia del principe De Curtis.
L'ultimo, definitivo legame, fu quello con l'attrice Franca Faldini, che Totò sposò in Svizzera nel 1954, dopo che era riuscito ad ottenere l'annullamento civile e religioso delle precedenti nozze (1). Per lei decorò lo splendido appartamento di via Monti Parioli, nel cuore dell'aristocratico quartiere romano, dove finalmente l'attore Totò poteva sentirsi il principe De Curtis, fra i quadri degli antenati e i bei mobili di antiquariato sotto lo stemma che risale al 362 dopo Cristo. La felicità del nuovo matrimonio fu turbata soltanto dalla morte del figlio Massimiliano, avvenuta subito dopo la nascita, nel 1960.
Da dieci anni Totò era quasi cieco, per una malattia della ista che gli permetteva di distinguere soltanto i contorni. Ma il grande attore non si era mai voluto arrendere; ed aveva continuato a lavorare con coraggio sotto le luci abbaglianti, e per lui dolorose, degli studi.
Igor Man, «La Stampa», 16 aprile 1967
Il ricordo sul video
Commemorato Totò con brani di film e testimonianze di attori e di registi
Ieri sera la tv ha ricordato Totò con un servizio speciale di «Prima pagina». Era d'altronde logico e doveroso. Il servizio aveva soprattutto il pregio dell'immediatezza e dell'attualità e alternava ad interviste e testimonianze (Tognazzi, Castellani, la «spalla» di Totò, Nino Taranto, il regista Blasetti, la Magnani ecc. ecc.) brani di film, da «Guardie e ladri» — una sequenza vista più di una volta in tv — a «Uccellacci e uccellini», una scena bellissima, ed esempi di quella ohe era la comicità propriamente teatrale del grande mimo. Si sarebbe voluto che i frammenti fossero più estesi (anche perché dichiarazioni, memorie personali, elogi e .via dicendo hanno sempre, loro malgrado, fatalmente, una sfumata di retorica funebre, un sospetto di commemorazione ufficiale). Ma il punto non è questo. Ci pare che la televisione abbia sbagliato nel trasmettere l'omaggio a Totò in seconda posizione dopo la rivista e quindi ad ora tarda. L'importanza dell'avvenimento — la scomparsa di un attore celebre e caro alla gente, cui, come ha osservato Blasetti, egli aveva alleviato per qualche ora, con il suo irresistibile umorismo, la pena di vivere — era fuori dubbio: importanza che la tv ha sentito in quanto ha collocato l'omaggio al posto di un'inchiesta sulla situazione ospedaliera che è, si può dire, l'argomento del giorno. E allora perché non aprire con il servizio di «Prima pa gina» il canale nazionale?
Totò, appunto per le risate che ci ha fatto fare, non meritava bene questo piccolo tributo di rispetto e di affetto? «Sabato sera» poteva attendere: era poi un varietà, non la ripresa diretta di una partita di calcio o della partenza di un missile. Diremmo che tra l'altro su i Sabato sera» ha pesato l'avvertimento dato dall'annunciatrice che, dopo, ci sarebbe stata la rievocazione di Totò. Si desiderava in fondo che finisse alla svelta. La puntata è parsa di normale amministrazione, abbastanza gradevole, con Rascel alla ribalta quasi costantemente, aiutato da Walter Chiari; Mina cantava, la Falana ballava, la Valeri faceva le sue telefonate; ma di 11. a tre minuti si era dimenticato tutto. Dell'intera serata è rimasta una sola immagine, quella con cui si concludeva il reportage di «Prima pagina»: l'immagine, tratta da un film, di Totò che s'allontanava tra la folla napoletana con le mani in tasca, la camminata ora lenta e un po' incerta e ora veloce, il cappelluccio storto e s'inoltrava nei vicoli sino a dileguarsi nell'ombra della sera.
«La Stampa», 16 aprile 1967
Nelle sue cento farse seppe mantenere la dignitosa umanità di un vero attore
E' stato il cinema, nell'immediato dopoguerra, a fare di Totò, un mimo, un «attore» dall'immensa popolarità nazionale (e all'ultimo internazionale, chi ricordi la grande ovazione con cui Cannes lo salutò interprete di Uccellacci e uccellini,).
In quegli anni di ripresa — anche quanto alla voglia di ridere — sbocciò un intero filone intitolato da lui: erano per lo più pellicole raffazzonate in poche settimane, povere di mezzi e di idee, totalmente trasportate, come in una banca sicura, sulla sua infallibile comunicativa col pubblico. Gli esercenti le compravano a scatola chiusa, la gente ci correva, i suoi lazzi e motti di napoletano autentico «a prescindere» e tanti altri) rifiorivano nei discorsi comuni. La critica le giudicava birbonate e tali erano, ma essa poi doveva salvare, caso per caso, lui, Totò, che sempre usciva trionfatore da tutti quei disastri.
Nacque così, in una con la sua fortuna cinematografica, una sorta di «compianto», tramandatosi come un luogo comune, circa l'attore che il nostro cinema non sapeva usare degnamente e che anzi dilapidava in basse occasioni commerciali. «Dare un regista a Totò» divenite il voto estetico del cinema comica italiano; tardi e insufficientemente riempito. In quei lamenti c'era molto di vero, ma anche costituivano la più eloquente testimonianza dello straordinario temperamento dell'attore e, prima ancora, della sua straordinaria natura, che di per se stessa richiamava a grandi testi e a grandi realizzazioni. Paragonata infatti a quelle dei più celebrati attori comici (spesso fatte di nulla, come quella del sommo Charlot), la maschera di Totò, che pareva uscita da uno scavo ed evocava i mimi degli antichi popoli italici, quel suo volto rettangolare e sbilenco, quegli occhi bisbetici, quel collo mobile, quel corpo snodato di Pulcinella magro, erano e restano un unicum nel campo dei doni fotogenici.
Fu un po' la sua disgrazia: essere già Totò, prima ancora di articolarsi in personaggi compiuti. E questo spiega perché in quella sua prima famiglia. il mimo stentasse a entrare in un cliché che non fosse già il suo, di acclamato artista di varietà, e che in troppe occasioni non facesse che trasportare pari pari il proprio repertorio (si pensi all'irresistibile sketch del vagone letto). Ma chi seppe allora guardare quelle farse come andavano guardate, antologicamente e dall'angolo suo; chi li riveda oggi con lo stesso spirito, ebbe e ha pur l'impressione di un grande e irripetibile personaggio cinematografico. E ciò non solo per l'eredità petroliniana da lui proficuamente estesa allo schermo e per le sue individuali doti di buffo, capace, con un guizzo, di estrarre vis comica dalle rape, ma anche per il calore umano con cui da buon napoletano sapeva intenerire al momento giusto quel diluvio di caricature e parodie.
Certe sue figurazioni di avaro, di lunatico, di mariuolo; o di vecchietta che prega o di hostess che bamboleggia, erano, in mezzo alla sciatteria del resto, d'una folgorante precisione; e per i suoi tanti spunti «carogneschi», serviti nelle più disparate maniere, può considerarsi il maestro di Sordi (e dei tanti «minori» che vivono dei mininoli della sua miniera). Ma alla fine, come voleva la moraletta di quei canovacci, spuntava un uomo generoso, un marito arrendevole, un padre vinto o anche soltanto un filosofo della strada; talora s'istaurava sullo schermo la simpatia umana di Totò, aiutata da quella sua voce profonda ai saporoso dicitore. Tante volte mattatore, altrettante volte questo impareggiabile improvvisatore parve chiedere un personaggio precostituito; e nella lunga e gloriosa carriera qualcuno ne trovò. Si pensi alle felici caratterizzazioni in Napoli milionaria di E. De Filippo e in Guardie e ladri di Steno e Monicelli; al pastoso ritratto pirandelliano nella Patente di Zampa; alla sua comicità quasi crepuscolare in Una di quelle di A. Fabrizi, e soprattutto alla sua poetica attuazione del «pazzariello» nell'Oro di Napoli di De Sica e a quella trovata vivente che fu lo «specialista di forzatura di casseforti» nei Soliti ignoti di Monicelli. Per tacere delle sue riuscite con Rossellini (Dov'è la libertà?), con Lattuada (La mandragola) e con altri.
Di film in film (non più tanto frequenti), la quotazione dell'interprete saliva senza che per converso il proverbiale «Totò» dalla risata assoluta perdesse un'oncia del favore popolare: e fioccarono riconoscimenti (Nastri e Grolle) su colui che già si disponeva in prospettiva, come un capitolo della storia del nostro cinema. Il vecchio lamento sopra ricordato, quasi rientrò, e il Nostro giunse al suo centesimo film Il comandante di P. Heusch, perfettamente in sella. L'opposto pericolo di un Totò, che, troppo disciplinato da un «soggetto», finisse col non essere più lui, non fu neppure sfiorato; anche i più ambiziosi registi lo trattavano come parzialmente «insolubile». Totò fu sempre, di per se stesso, un'ispirazione filmica; e ciò risultò con speciale evidenza in quella che resta, al fine della sua vita, la sua prova più alta: il personaggio conduttore di Uccellacci e uccellini, che è pur sempre il vecchio Totò (anche nel nome), ma soprelevato dall'intonazione poetica di Pasolini. Qui l'intelligenza del regista si innestò in quella del vecchio attore, conscio dei propri limiti («sono soltanto un attore che fa ridere») e capace di dosare la propria duttilità così da concedersi agli altri senza rinnegare se stesso.
Da un episodio delle Streghe (un detrito pasoliniano) ci vengono le ultime immagini di lui: fortunellesche, pervase di lirica letizia. E' bene che sia finito così, in leggerezza, dopo tante fatiche; fatiche ch'egli aveva saputo dissimulare anche nel punto più dolente d'una quasi cecità, che però non gli impediva, sullo schermo, di portarsi con la solita sicurezza sull'effetto più centrato, sulla trovata più esilarante. Poteva, anche cosi, continuare a dominare il pubblico come aveva fatto dal lontano 1917 a oggi.
E' bene che quella portentosa «struttura» comica non sia stata dispregata, giorno per giorno, da una morte lenta: che il più veramente popolare dei nostri attori sia scomparso come una bolla, lasciandoci intatto il ricordo di tante ore gaudiose.
Leo Pestelli, «La Stampa», 16 aprile 1967
La notizia della morte tra gli amici di Napoli
(Nostro servizio particolare) Napoli, 15 aprile. (t.)
La notizia della morte di Totò è stata appresa dai napoletani dalle edizioni del mattino del giornale radio. Mai nessun attore comico si era identificato più di Totò con la sua città natale, e Napoli ne ha pianto sinceramente la scomparsa. La notizia ha portato costernazione soprattutto negli ambienti artistici. Il più colpito è apparso Nino Taranto, che è scoppiato in lacrime: «Napoli — ha detto — ha perso uno dei suoi figli migliori, che l'ha sempre sostenuta e si batteva per essa». Il regista Daniele D'Anza, che si trova a Napoli per ragioni di lavoro, e che soltanto 15 giorni fa aveva preparato con lo scomparso l'inserto di un brano televisivo dedicato a «Totò e Napoli», ha commentato: «E' veramente triste che l'antologia televisiva che gli abbiamo dedicato e che doveva essere un atto di riconoscimento, si debba trasformare ora in un omaggio per l'attore scomparso». Le spoglie di Totò giungeranno a Napoli lunedì per essere inumate nella tomba di famiglia al cimitero del Pianto.
«La Stampa», 16 aprile 1967
Quotidiano «Stampa Sera», lunedi 17, martedi 18 aprile 1967
I funerali nel pomeriggio di oggi a spese del Comune La cerimonia nella trecentesca chiesa del Carmine
Dal nostro corrispondente Napoli, lunedì mattina.
Napoli si prepara a rendere l'estremo saluto a Totò ed i cuori di migliaia di vecchi amici ed anonimi ammiratori lo seguiranno nell'ultimo mesto viaggio. Le onoranze saranno semplicissime, com'era nei desideri del grande attore scomparso, che voleva ritornare per sempre nella sua città natale senza alcuna pompa. I familiari avevano disposto che la tumulazione della salma avvenisse nella cappella gentilizia di famiglia, al Cimitero del Pianto, in intimo e religioso raccoglimento, ma il dolore profondo e sincero della cittadinanza li ha fatti desistere da un così comprensibile e giustificato proposito.
Nino Taranto ha compreso i sentimenti del popolo napoletano e ai parenti dell'amico scomparso ha consigliato un funerale semplice, ma con almeno la partecipazione della Napoli che sempre con amore aveva seguito Totò. Così oggi alle 17, nella trecentesca chiesa di Santa Maria del Carmine, le umili genti dei rioni più popolari potranno piangere mestamente la perdita incolmabile nei loro cuori di un vero amico. E gli amici più intimi, rappresentanti del mondo dello spettacolo e della canzone, lo attenderanno invece all'uscita del casello dell'autostrada del Sole, quando giungerà da Roma per scortarlo attraverso le strade della vecchia Napoli fino all'antico tempio, legato alla drammatica storia di Corradino di Svevia ed alla rivolta di Masaniello.
La scelta della monumentale chiesa è stata suggerita per contenere l'imponente afflusso di popolo che accorrerà da tutti i rioni cittadini anche se ha destato un certo malcontento da parte degli abitanti della Sanità, dove Totò visse gli anni della sua giovinezza. Le manifestazioni di cordoglio nell'ambiente popolare dove nacque il grande attore sono state più sentite ed accorate: in via Vergini, i portoni degli edifici hanno i battenti chiusi a metà in segno di lutto, mentre corone di fiori l'una accanto all'altra, sono state deposte per tutta la lunghezza della strada. Manifesti sono affissi ai muri dei vecchi e cadenti caseggiati, e segni dì lutto sono visibili dovunque, anche nelle umili abitazioni terranee, dove Totò con la sua schietta comicità portò un sorriso di gioia e di speranza. Non sono mancate commemorazioni ufficiali da parte di enti e associazioni: più significative quelle che hanno avuto luogo durante gli spettacoli serali al teatro S. Ferdinando, al Politeama e al Bracco, ove il pubblico è stato invitato ad osservare un minuto di raccoglimento per la dolorosa scomparsa.
Le onoranze funebri avranno luogo a spese del Comune ed un telegramma di cordoglio è stato inviato alla famiglia da parte del sindaco di Napoli, prof. Giovanni Principe.
a. l., «Stampa Sera», 17-18 aprile 1967
Tremila persone rendono omaggio alla salma
Roma, lunedì mattina.
Mischiata tra migliaia dì romani, tutta la gente del Cinema, della cultura e del teatro sarà presente stamane ai funerali di Totò, che si svolgono alle 12 nella chiesa di Sant'Eugenio in via di Valle Giulia. La chiesa sorge a poche centinaia di metri dall'abitazione dove l'attore si è spento sabato scorso. Secondo le volontà dello scomparso, il rito funebre sarà semplicissimo. Esequie solenni attendono invece Totò a Napoli. Circa tremila persone, di ogni categoria sociale, hanno reso omaggio ieri alla salma.
l. g., «Stampa Sera», 17-18 aprile 1967
Dopo un semplice funerale a Roma la salma di Totò a Napoli
Nostro servizio particolare Roma, lunedi sera.
I funerali di Totò si sono svolti stamane a Roma. Il corteo funebre si è mosso poco prima di mezzogiorno dall'abitazione dell'attore, in via Monte Parioli 4. Davanti al feretro, una interminabile fila di corone; dietro, la moglie dello scomparso (l'ex attrice Franca Faldini) la figlia Liliana e alcuni intimi. Seguiva una folla di un migliaio di persone, che si è andata via via ingrossando mentre il corteo si avviava alla chiesa di Sant'Eugenio in Viale Belle Arti. Con numerosi politici e parlamentari, quasi tutta la Roma artistica era presente; per consentire a registi, attori, tecnici e maestranze di assistere ai funerali. I film in lavorazione a Cinecittà e negli altri stabilimenti di posa sono stati sospesi. In Sant'Eugenio il rito funebre è stato semplice e assai breve; dopo la benedizione la salma, portata a spalla da amici dello scomparso, è stata deposta su furgone funebre che, lasciato il quartiere Parioli, si è subito diretto verso l'imbocco dell'«Autostrada del Sole».
Il feretro di Totò giunge a Napoli nel primo pomeriggio, per essere tumulato, dopo solenni esequie, nella tomba di famiglia a Poggioreale. A Roma le esequie sono state molto semplici perchè Totò, secondo quanto hanno lasciato capire i familiari, intuiva che le autorità eccleslastiche sarebbero state piuttosto imbarazzate data la sua posizione matrimoniale non riconosciuta dalla Chiesa. L'attore era infatti diviso dalla prima moglie e con Franca Faldini si era sposato solo in Svizzera, e civilmente. La famiglia dello scomparso, sempre secondo le indiscrezioni, si sarebbe trovata a dover superare alcune difficoltà procedurali. Il parroco di Sant'Eugenio avrebbe addirittura chiesto che i funerali si svolgessero nel tardo pomeriggio. Fin da sabato il religioso avrebbe fatto presente alla famiglia che la Chiesa non poteva autorizzare la celebrazione della Messa funebre e del rito completo. All'ultimo momento si sarebbe deciso di tenere i funerali al mattino, ma con rito semplice.
l. g., «Stampa Sera», 17-18 aprile 1967
Quotidiano «La Stampa», martedi 18 aprile 1967
L'eccezionale folla ha costretto a modificare il programma della cerimonia: la salma, dopo la funzione nella chiesa del Carmine, è stata fatta uscire frettolosamente da una porta secondaria - Quattro feriti, fra cui due agenti, ricoverati negli ospedali - Nino Taranto, in lacrime, commemora la figura dell'attore
(Dal nostro corrispondente) Napoli, 17 aprile.
Con un'impressionante partecipazione di popolo, Napoli ha. dato il suo addio a Totò ed una folla traboccante e commossa ha sconvolto il programma delle onoranze, costringendo le autorità a ricorrere a misure di emergenza. Dopo l'ufficio funebre al Carmine, la salma del grande comico è stata fatta uscire dal tempio attraverso una porta secondaria e scortata da motociclisti della polizia a sirene spiegate ha raggiunto il Cimitero del Pianto per essere inumata nella cappella gentilizia dì famiglia.
Ai funerali solenni ed imponenti hanno preso parte non meno di duecentocinquantamila persone, accorse da tutti i quartieri cittadini e dalla provincia. La città ha sospeso dalle 16 alle 18,30 ogni attività: tappezzati di toccanti manifesti di cordoglio i muri delle strade, abbassate le serrande dei negozi lungo il percorso del corteo, socchiusi i portoni degli edifici in segno di lutto, interrotto il traffico, tutti i napoletani si sono ritrovati oggi per rendere l'estremo omaggio all'attore scomparso.
La salma di Totò, proveniente da Roma ed accompagnata da una trentina di vetture, è giunta al casello dell'Autostrada del Sole alle 15,30. Un gruppo di artisti del San Carlo e gii amici più intimi tra cui Nino e Carlo Taranto, Gloria Christian, Dolores Palumbo, Maria Paris, Luisa Conte, Ugo D'Alessio ed altri erano ad attendere il feretro per scortarlo lungo le strade della vecchia Napoli, fino alla trecentesca basilica del Carmine. Qui si è svolto il rito funebre, officiato da Padre Francesco Cervellera. Un percorso di Cinque chilometri da Capodichino a piazza Mercato, lungo il quale fin dalle prime ore del pomeriggio una fitta schiera di popolo era in attesa.
Il furgone che trasportava la salma del principe De Curtis ha impiegato circa due ore per raggiungere la chiesa. Manifestazioni di dolore da parte della popolazione, che voleva rendere omaggio a Totò con le espressioni tipiche dei napoletani, hanno ritardato il percorso. In piazza Ferrovia, il carro è rimasto bloccato a lungo. Quando alle 17 il corteo ha raggiunto il Mercato, la piazza nereggiava di folla. Erano amici, conoscenti, anonimi ammiratori, ex compagni di lavoro di Totò. Bandiere e stendardi abbrunati ed un gran numero di corone — tra cui quelle inviate dal ministro dello Spettacolo e da Sophia Loren — spiccavano all'esterno del tempio, addobbato a lutto.
La moglie Franca Faldini, la figlia Liliana col marito Gianni Buffardi, il cugino Eduardo e il fedele amico Mario Castellani, «spalla» dell'attore in tanti anni di lavoro, non hanno avuto l'animo di affrontare questa straripante marea. Troppo affranti dal dolore i congiunti del grande comico non hanno assistito alla funzione religiosa ed hanno raggiunto direttamente in auto il cimitero.
Nel tempio i servizi d'ordine non riuscivano a contenere le migliaia di persone che facevano ressa per entrare. La basilica è stata presa letteralmente d'assalto. Si sono susseguiti scene di panico e sveni menti. L'organo, l'altare maggiore, le cappelle laterali brulicavano di gente che si accalcava ovunque, aggrappata per sino sulle statue di santi e uomini Illustri. Il raccoglimento del rito è stato travolto dal brusìo della folla, dai flashes dei fotografi, dalie luci degli operatori cinematografici.
Alcune donne del rione Sanità si sono accasciate in un abbraccio sulla bara di Totò, che per la sua origine nobiliare non era sul catafalco ma deposta su un rosso tappeto, disteso al centro della navata centrale della Basilica. Numerose lo autorità presenti, tra cui il prefetto, dott. Bilancia ed il sindaco prof. Giovanni Principe.
Dopo la funzione religiosa, Nino Taranto in lacrime, con brevi e toccanti parole, ha commemorato lo scomparso: «Non è morto il principe Antonio De Curtis, ma Totò — egli ha detto tra l'altro —, un nostro grande amico. Ai concittadini, di Qualunque ceto e condizione sociale, egli si sentiva unito da vincoli di profondo e sincero affetto ed è per questo che il vero cuore di Napoli è qui riunito per piangere la sua incolmabile perdita».
Secondo il programma, la bara portata a spalle dagli amici di teatro più intimi avrebbe dovuto attraversare piazza Mercato ma si temeva che l'eccezionale folla potesse provocare degli incidenti. Le autorità hanno quindi disposto che la salma fosse fatta uscire frettolosamente dalla porta della sacrestia ed attraverso il chiostro del convento è partita alla volta del cimitero. Negli ospedali cittadini, due donne, Italia Stefanelli, di 25 anni, Maddalena De Vita, di 33, e gli agenti di P.S. Pietro Molterno, di 37, e Gregorio Staltari, di 40 anni hanno dovuto ricorrere alle cure dei sanitari per farsi medicare contusioni riportate per l'eccezionale ressa. Altre persone — il cui numero è diffìcile stabilire — hanno preferito rivolgersi a medici di fiducia.
A. Luise, «La Stampa», 18 aprile 1967
La bombetta di Totò sul feretro dell'attore
(Nostro servizio particolare) Roma, 17 aprile.
I romani hanno dato il loro ultimo affettuoso saluto a Totò oggi, poco dopo mezzogiorno. Oltre duemila persone hanno accompagnato la salma dall'abitazione dell'attore in cima a' Monti Parioli fino alla Basilica di Sant'Eugenio sul Tevere, dove si è svolta la cerimonia funebre. Altre centinaia di uomini e donne di ogni età, popolani soprattutto, hanno reso omaggio al corteo lungo l'intero percorso. Do vunque si potevano coglierei parole di commosso rimpianto per la scomparsa di un attore che aveva saputo stabilire un profondo rapporto umano con il suo pubblico. La spontanea partecipazione dell'intera città al lutto che ha colpito il mondo dello spettacolo ne è la più evidente testimonianza.
Innumerevoli corone di fiori seguivano il feretro portato a spalla da sette compagni di lavoro del comico scomparso; sette nomi pressoché ignoti al pubblico del teatro e del cinema, ma che l'attore napole tano aveva particolarmente cari perché lo avevano affiancato all'inizio della carriera. La prima, di garofani e rose, era stata inviata dai portabagagli della stazione Termini.
In chiesa, un poco appartate, c'erano le personalità dello spettacolo: Alberto Sordi, Elsa Martinelli, Olga Villi, Luigi Zampa, Luciano Salce, il ministro Corona che ha voluto portare di persona le sue condoglianze alla figlia e alla moglie dell'attore, Franca Faldini. Altri attori e attrici hanno atteso fuori del tempio la conclusione del servizio funebre. Era presente anche la prima moglie di Totò, la signora Diana Rolliani (1), che è però rimasta appartata dagli altri.
La salma dell'attore, con la caratteristica bombetta dei suoi primi personaggi sul feretro, è stata posta su un'apposita automobile che l'ha trasportata a Napoli per essere tumulata nella tomba di famiglia.
l. z., «La Stampa», 18 aprile 1967
Quotidiano «Stampa Sera», martedi 18, mercoledi 19 aprile 1967
E' probabile che la voce verrà sentita quando saranno rese note le volontà dell'attore - La gente dei vicoli continua a giocare i «numeri» della sua cabala.
(Nostro servizio particolare) Napoli, martedi sera.
A rendere forse più imponente la partecipazione del popolo napoletano più umile alle onoranze funebri di Totò è stata la notizia, diffusa non si sa con quale fondamento, che l'attore avrebbe lasciato ai poveri della sua città una favolosa somma in denaro; ed accorrendo in massa a dare l'estremo saluto all'attore ha voluto ringraziarlo per l'ultimo generoso gesto.
E' probabile che quando saranno rese note le volontà testamentarie di Totò risulti che egli non possedeva il mezzo miliardo di lire che, secondo la voce corsa ieri durante i funerali, avrebbe donato ai poveri, ma i napoletani con fantasiosa ingenuità amano sognare atti quasi leggendari compiuti dai loro beniamini.
Intanto la gente dei vicoli continua a giocare al lotto i numeri suggeriti dalla luttuosa circostanza: il 13 che significa Antonio (il nome dell'attore), 67 morte improvvisa, 69 gli anni.
«Stampa Sera», 18-19 aprile 1967
Quotidiano «Corriere d'Informazione», Sabato 15 e domenica 16 aprile 1967
I primi sintomi del male si erano manifestati una settimana fa - Aveva dato al fedele segretario centoventimila lire per i funerali raccomandando che tutto fosse fatto con molta semplicità - La crisi fatale l'ha colto in casa; è accorso immediatamente il medico curante, ma la situazione è precipitata in poche ore - Le ultime parole: «Portatemi subito a Napoli...»
Roma, 15 aprile.
Un infarto cardiaco ha stroncato stamane all'alba il grande Totò: l'attore colto dai primi sintomi una settimana fa, era a letto, ma sembrava che si fosse ristabilito. Proprio ieri aveva ricevuto l’esito delle analisi cliniche ordinate dal suo medico: tutte positive, salvo sull'elettrocardiogramma un particolare premonitore che lui stesso ignorava. Anni fa, a Lugano, ebbe un altro infarto, leggero, tanto che non se ne accorse neppure: ma la cicatrice era visibile e il medico aveva ordinato riposo e distensione.
Totò giace ora in una camera ardente allestita nella sua stanza da letto. Indossa una giacca blu di taglio marinaro, con bottoni d’argento, cravatta nera, pantaloni grigi, calze rosse. Ha disteso, sereno, serio il volto che ha fatto divertire le platee di tutto il mondo. Serio, quasi severo, com'era nella vita, quando si spogliava della casacca del comico e tornava ad essere il principe Angelo Flavio Comneno Grippa Focas Lascaris di Bisanzio, un gentiluomo cortese e affascinante, che chi ha conosciuto non dimentica.
Totò ieri, come si è detto, era a letto, ma sembrava in buone condizioni di salute. Nel pomeriggio si era alzato ed aveva voluto ascoltare il suo primo disco, uscito proprio in questi giorni: su una facciata è inciso lo sketch forse più popolare di quanti ne ha recitati: quello in cui c'è la battuta «E' morto Diocleziano? Ragazzi, come passa il tempo!». Sull’altra faccia la sua voce, la voce del principe De Curtis, poeta dialettale e autore di canzoni di successo, recita una delle sue liriche più note, «A livella»,
Ieri sera, verso le ventuno e trenta. Totò era seduto in poltrona, a vedere la televisione. Lo ha colto un dolore improvviso in mezzo al petto, come una trafittura. Ha voluto tornare a letto, appoggiato alla spalla della moglie. Hanno chiamato il medico curante, il dottor Cusimano, e tutto ciò che è possibile fare in questi casi è stato fatto : iniezioni cardiotoniche, immobilità assoluta. Controllo costante del malato. Ma i dolori non passavano. Si facevano anzi sempre più lancinanti. Totò aveva capito. Aveva capito e s'aspettava il peggio già da molti giorni.
Una mattina, saranno due settimane, chiamò il cugino Eduardo Clemente, il suo segretario, l'uomo di fiducia, il factotum. «Prendi qua, — gli disse, — in questa busta ci sono centoventimila lire. Se mi dovesse capitare una disgrazia... no, Eduà... bisogna stare preparati: non si sa mai. In quel momento può darsi che non ti trovi soldi liquidi in casa. Con questi vai subito a ordinare i funerali. Ti dovrebbero bastare per tutto, anche per il trasporto a Napoli, perchè a Napoli mi ci dovete portare subito. Non ti do di più perché voglio funerali semplici, senza sfarzo. Don Eduardo fece gli scongiuri, anzi li fecero tutti e due, ma la busta volle dargliela lo stesso.
I dolori non passavano. Si è fatta mezzanotte, l'una, le due. Alle tre e un quarto Totò ha voluto dire due parole a Eduardo Clemente, a bassa voce. C'erano accanto a lui la moglie Franca Faldini, la figlia Adriana, la signora Margherita Tedaldi, la suocera, l'avvocato Eugenio De Simone, legale di fiducia e amico trentennale, Mimmina Quirico. amica di famiglia. «Portami subito a Napoli, Eduà, mi raccomando, subito». Non ha detto più nulla; è passato un altro quarto d’ora. E' morto alle tre e trenta.
Franca Faldini è seduta accanto al letto, distrutta dal dolore. Non ha neanche più lacrime. Entra continuamente gente nella camera e si ferma, a un passo dai quattro ceri, e si vede in tutti la faccia della gente che quasi non ci crede, cosi all'improvviso, io l’ho visto pochi giorni fa, io ci ho parlato l’altro ieri. Fra le dita gli hanno messo il medaglione di Sant’Antonio, il suo santo protettore, che non lasciava mai. Lo teneva sul comodino da notte.
Anche De Simone piange. «Nessuno sa che cuore d’oro che era. Non voleva che si sapesse. Faceva del bene a tutti. Leggeva i giornali si può dire solo per questo. Ho in piedi almeno una decina di cause di persone che non ha mai visto in faccia. Leggeva dei loro guai poi mi telefonava, «Pensaci tu, mettiti in contatto, hanno bisogno di un buon avvocato. Non dirgli che pago io». Le bestie, come i cristiani, erano la sua vita. Ha speso milioni per salvare cani, gatti, randagi, li ospitava nel suo rifugio costruito anni fa, ma ormai troppo piccolo per tutti gli animali che c’erano, e quelli arrivavano continuamente. Quando non poteva tenerli cercava di sistemarli presso amici. Ricordo che una volta voleva dare a me un pastore inglese «tanto bello, un amore di bestia che gli manca la parola ».
I funerali ci saranno lunedi. Si sta pensando di celebrarli nella chiesa di piazza Euclide, prevedendo la gran folla che ci sarà a dare l’ultimo saluto al grande Totò, all’amico che mille volte ci ha fatto dimenticare i nostri guai con lo suo frasi che almeno una volta abbiamo cercato tutti di ridire con la sua voce: «A prescindere», «Siamo uomini o caporali», «Birra e salsicce», «Io sono un uomo di mondo perchè ho fatto il militare a Cuneo»...
A Napoli Totò sarà sepolto nella tomba di famiglia dove giacciono le salme dei genitori, degli zìi e di un'attrice degli anni venti, Liliana Castagnola, chanteuse-eccentrica. S’era innamorata di lui, di Totò, e per lui si uccise. Volle che la seppellissero accanto ai suoi.
Mario Bernardini, «Corriere d'Informazione», 15 aprile 1967
Mezzo secolo di simpatia
Cinecittà, attorno al 1954. Totò girava un film qualsiasi, uno dei tanti che lo facevano vivere bene e lui non ci metteva niente oltre alla sua straordinaria maschera. Tutto lo chiamavano principe, soltanto Mattoli, il regista, gli dava del tu.
Lui era in un angolo, il suo volto era serio. « Si diverte, principe?». «lo non mi diverto, io lavoro», diceva. Antonio De Curtis, forse, non amava Totò. L'attore era lo «schiavo» dell'uomo, o viceversa. Certo, facevano vita separata. Totò era Totò sul palcoscenico, sulle schermo e basta, poi scompariva; e il principe De Curtis rientrava nella sua casa dei Parioli, tornava a essere un signore distinto, riservato, schivo dei clamori della mondanità.
Lui stesso diceva: «Sono un tipo solitario». Al lavoro mostrava la seconda faccia: «Devo portare l’allegria» diceva. E non insisterà, non cercava di impegnarsi, doveva far ridere e ci riusciva: nessuno come lui, in cinquant'anni, lui fatto ridere tanto le platee. Totò era in pace con tutti, e con la sua coscienza. Non aveva rimpianti, non rinnegava nulla, neppure i suoi film più andanti, perchè la sua vita era stata dedicata, per intero, allo spettacolo.
Aveva cominciato nel ’17, che aveva appena diciannove anni, in un teatro glorioso nella storia del varietà, lo Jovinelli. E, subito, era nata una maschera, di prepotente comicità: la bombetta, il tight che gli navigata addosso, i pantaloni corti sulle calze coloratissime, le braccia che penzolavano con perfetta geometria, il mento aguzzo che andava avanti e indietro, a stantuffo. Era il 1922, e accanto a lui c'era già Mario Castellani, sua «spalla» fedelissima per tutti questi anni.
Che dire della sua arte comica? Era inimitabile. Totò si smontata come un meccano, gambe, braccia, testa e poi «i ricomponeva in una maschera fissa.
Chi potrà mai dimenticare quei suoi finali di rivista, «fuochi d'artificio», la marcetta dei bersaglieri? Conosco gente che è andata tre, quattro volte a teatro per quell'irresistibile sketch sul vagone-letto che, in principio, durava sì e no un quarto d'ora e, di rappresentazione \n rappresentazione, si era dilatato aumentando così il diletto degli spettatori. «Quando meno te l'aspetti», «Volumineide», «Orlando curioso», «Che ti sei messo in testa», «Con un palmo di naso», «C'era una volta il mondo», « Bada che ti mangio», ecco quanto di meglio ha saputo esprimere il teatro leggero in Italia; e in mezzo. il centro, il motore, il cervello, c'era lui, Totò. Il cinema non poteva trascurare questo straordinario comico che aveva tutto per piacere anche sui teloni e aveva cercato di annetterselo ancora prima della guerra. Totò aveva fatto «Fermo con le mani» e, verso il '40, «San Giovanni decollato». Da quell'epoca ormai lontana ho visto centinaia di film, cui ne ricordo pochissimi come quel meraviglioso «San Giovanni decollato ». Forse la memoria m'inganna, forse il film non era così bello come io vorrei che fosse; però, mi rivengono in mente certe battute di Totò e rido ancora.
Dopo la guerra, il cinema si affiancò al teatro, poi lo vinse del tutto. Totò divenne infaticabile, un film dopo l'altro, era pagato bene e lui non rifiutava niente. Perchè avrebbe dovuto, d'altronde! Faceva come meglio non si poteva il suo mestiere e non era colpa sua se i soggetti non gli stavano alla pari.
Ma accanto alla valanga di film (più di cento), è giusto collocare opere degne della bravura di Totò: «Guardie e ladri » di Monicelli, « Dov'è la libertà» di Rossellini, «L'oro di Napoli» di De Sica, «Racconti romani» di Franciolini, «I soliti ignoti» di Monicelli, «Uccellacci e uccellini» di Pasolini, «La mandragola» di Lattuada. E si ha il rimpianto di quel grandissimo attore che avrebbe potuto essere soltanto se questo comico nato lo avesse voluto.
Un anno fa, dopo un lungo assedio, Totò ai era arreso alla televisione. Ma, a quel che si dice, è stato un incontro sfortunato. I prudentissimi funzionari televisivi avrebbero tagliato alcune scene, annacquato la pungente comicità di Totò. Il programma, in dieci puntate, è inedito. Quando sarà trasmesso, milioni di italiani non vedranno il vero Totò ma ritroveranno almeno un amico. Il comico più caro che ci ha allietato in questi anni grigi.
Angelo Falvo, «Corriere d'Informazione», 15 aprile 1967
ROMA, 15 aprile.
L'improvvisa scomparsa di Totò ha destato, tra gli attori del cinema e del teatro elle gli erano stati compagni di lavoro, profondissimo cordoglio e sgomento. MARIO CASTELLANI, che per 40 anni era stato legato da grande amicizia all'attore, sconvolto dal dolore lui detto: «Ho conosciuto Totò nel 1927; lui veniva dal varietà ed io dall'operetta. Totò era il cosiddetto comico grottesco ed io, come si diceva allora, un comico 'stilè'. Gli aneddoti che potrei raccontare di lui sono tanti, ma ora proprio non posso», E Castellani è scoppialo in singhiozzi. Poi si è ripreso e ha proseguito: «Si vantava di avere un cuore di atleta. Più di una volta mi ha detto: 'Lo sai che ho le stesse pulsazioni di Barlali e di Coppi?». Da qualche tempo il fumo gli dava dei disturbi e una volta si sentì mancare. Negli ultimi anni, i nostri rapporti si erano fatti ancora più stretti. A causa della sua vista debole, egli non leggeva più ed imparava tutte le parti ascoltando me che gli leggevo i copioni». A questo punto Castellani si è allontanato incapace di proseguire.
ALBERTO SORDI: «Ero legato a Tolò da una sincera amicizia. Non vi sono aggettivi per definire Totò. Totò era il massimo che un attore comico potesse rappresentare in tutta la storia del teatro e del cinema italiani. Adesso ci ha lasciali. Totò non c'è più e non ci sarà mai più. Di Totò non ce ne saranno altri».
UGO TOGNAZZI: «La notizia mi sorprende e addolora e penso che queste reazioni e sentimenti siano comuni a tutti; egli aveva suscitato profonda simpatia umana, sia come uomo sia come ultima grande maschera. Il cinema gli aveva offerto meno di quel che poteva dare, ciononostante alcune sue interpretazioni rimarranno nella storia del cinema. In fondo, è giusto che Totò sia morto così, d’improvviso, di notte. In modo che nessuno abbia potuto vedere sul suo volto una maschera tragica».
ROSSANO BRAZZI: «Mi hanno detto che Totò è morto: ma com'è possibile? E’ una notizia che ti prende dentro e ti toglie ogni parola».
Le condoglianze di Saragat
Roma, 15 aprile.
Il presidente della Repubblica ha fatto pervenire alla signora Franca Faldini De Curtis il seguente telegramma: ,«La scomparsa del grande c popolare attore Antonio De Curtis è un grave lutto per il teatro ed il cinematografo italiano e rattrista gli innumerevoli spettatori che per lunghi anni hanno ammirato ed amato i suoi straordinari mezzi espressivi al servizio di una profonda sensibilità artistica ed umana. Associandomi al lutto del mondo dello spettacolo, invio a lei e ai familiari tutti l’espressione del mio vivo cordoglio».
«Corriere dell'Informazione», sabato 15 e domenica 16 aprile 1967
Quotidiano «Corriere della Sera», domenica 16 aprile 1967
L’attore è stato stroncato da un infarto nella sua casa di Roma - Aveva sessantanove anni - Dopo i funerali, che si svolgeranno domani, la salma proseguirà per Napoli - Un telegramma di cordoglio del presidente della Repubblica
Roma 15 aprile, notte.
Totò è morto. Sta nella camera ardente allestita nella stanza da letto della sua casa di via Monti Parioli, vestito di una giacca blu coi bottoni di metallo e i pantaloni grigi: sul petto, sotto le mani poggiate su un mazzo di rose, un grande medaglione con l'immagine di Sant'Antonio di Padova. Era il suo santo protettore, e il medaglione stava sempre su un tavolo accanto al letto.
«'A livella» ha unificato per sempre le due personalità di Totò e del principe Antonio de Curtls Comneno Focas Lascaris di Bisanzio. Proprio «'A livella» (lo strumento dei muratori) è l'ultima sua composizione che ha riascoltato. Quella poesia, che dava il titolo a un suo libro di liriche e ch’egli recitò anche durante la serata in cui gli venne consegnato il «nastro d’argento», Totò aveva recentemente inciso sulla faccia di un disco che reca sull’altra faccia una delle scenette più popolari da lui recitate in passato. Nel pomeriggio di ieri gli vennero portate due copie del disco, e Totò volle riascoltare la sua voce recitare quella poesia, in cui si parla dell’altezzosa impennata di un nobile defunto per avere accanto alla sua tomba quella di uno spazzino. E' appunto lo spazzino che. alla fine, con profonda umana saggezza, invita il barone a piantarla con le sue recriminazioni: queste pagliacciate le fanno soltanto i vivi — dice — noi siamo seri, apparteniamo ai morti.
Carlo Cafiero. il fedele autista che stava con lui da quindici anni, scrutò sul viso di Totò l'effetto dell’ascolto, ma il grande attore, corrugando la fronte, gli disse: «Carlo, questo disco della livella non mi piace proprio». «Ma perchè? — insistè Carlo. — Eppure è una delle vostre poesie preferite». «Che t’aggia dicere, non mi piace cchiù». Quasi un presentimento in queste parole. Eppure, al momento, sembrava che ogni pericolo fosse scongiurato. Infatti il primo sintomo del male era stato avvertito dall'attore mercoledì sera, tornando dal teatro delle Vittorie, dove egli stava ultimando alcuni rifacimenti di quei filmati che dovevano portare sul video, in dieci puntate, gli sketches più famosi e più applauditi delle oltre settantacinque riviste che Totò aveva interpretato, dalla prima. Messalina all’ultima A prescindere. Poiché Totò avvertiva un forte dolore allo stomaco. la moglie Franca Faldlni si affrettò a chiamare il medico curante dottor Cusumano, il quale prescrisse all'attore un calmante e dispose che giovedì mattina venissero compiuti degli esami clinici. «Forse è il fumo — disse l’autista, — oggi ha fumato una sigaretta dopo l’altra». Ma Totò scuoteva il capo, sentiva che il dolore era diverso.
Ieri mattina il professor Alessandrini fece i prelevamenti per gli esami clinici e il professor Faccenda esegui l’elettrocardiogramma, sulla base del quale potè essere accertato che anni addietro Totò doveva avere avuto un infarto, ma tanto lieve ch’egli non se ne era neppure accorto. Ieri sera fra le 17 e le 18,30 giunse il responso tranquillante degli esami. Franca, il cugino Eduardo Clemente e quanti gli erano vicini raccomandarono a Totò di starsene tranquillo, in riposo, giacché si trattava soltanto di una gastrite. Quasi convinto, nonostante che avvertisse ancora un lieve dolore, Totò volle farsi la barba col rasoio elettrico, e poi disse all’autista: «Carlo vattene in famiglia».
Il dottor Cusumano e il professor Guidoni, che avevano insieme esaminato le analisi, lasciarono la casa di via Monti Parioli, ma più tardi, ver-so le 21.30, vennero richiamati d’urgenza. Totò avvertiva un dolore acutissimo al petto, il tipico dolore dell’infarto. Ossigeno, risorse mediche di ogni genere furono vani, anche se riuscirono a far assopire l'ammalato. Alle due egli si riscosse e fu colto da un’estrema agitazione. Alla moglie Franca, che cercava di farlo stare tranquillo, rispose: «Ma che m'aggia calmà». Alle 3.30 del mattino sì spegneva stroncato dalla lesione al cuore. Aveva sessantanove anni.
I funerali avranno luogo lunedì nella chiesa di Sant’Eugenio e subito dopo la spoglia verrà trasportata a Napoli per essere tumulata nella cappella di famiglia, dove riposano i genitori dell'attore e anche il figlio, non nato vivo dalla sua unione con la Faldlni. Si può ricordare che il desiderio dì riposare per sempre nella «sua» Napoli lo aveva Indotto a consegnare già da qualche tempo al cugino Clemente una busta con 120 mila lire per i suoi funerali e per l’Immediato trasporto a Napoli, nel caso di una sua morte improvvisa. E ancora circa due settimane fa aveva ripetuto a Eduardo: «Eduà, ricordati: portami a Napoli, subito, in caso di una disgrazia».
Accanto alla salma veglia, distrutta dal dolore, la signora Franca. Nella casa di via Monti Parioli si sono recati fra i primi la figlia nata dal primo matrimonio di Totò. Liliana, e poi l’avvocato Monaco presidente dell’Anica, registi, attori, attrici, personalità dell’ambiente artistico e culturale. Unanime il profondo rimpianto, unanime la constatazione del grande vuoto ch’egli lascia. Per tutti lo ha espresso con nobili parole il presidente della Repubblica Saragat nel seguente telegramma:
«La scomparsa del grande e popolare attore Antonio de Curtis è un grave lutto per il teatro e per il cinematografo italiano e rattrista gli innumerevoli spettatori che per lunghi anni hanno ammirato ed amato i suoi straordinari mezzi espressivi al servizio di una profonda sensibilità artistica cd umana. Associandomi al lutto del mondo dello spettacolo, invio ai familiari tutti l’espressione del mio vivo cordoglio». In serata anche il ministro dello spettacolo Corona ha reso omaggio alla salma.
II pensiero costante e più alto di Totò era rivolto alla moglie che adorava. «A Franca*, infatti, aveva dedicato questi pochi versi che gli udimmo recitare in una delle indimenticabili serate di pochissimi amici, nel suo salotto: «Ammore, ammore mio / chist'uocchle tuoie songhe ddoje teneste / aperte spalancate ncoppa ’o mare / m’affacce e vaco tutte cose care / ni unno a stu mare, verde / comme a chist’uocchie tuoie / E veco ’o bbene, ’o sentimento, ammore: e po’ cchiù nfunno ancora / chello ca è dato a mme: ’o core».
Al. Cer., «Corriere della Sera», 16 aprile 1967
L'Italia ha perduto il suo più grande attore comico
Totò, l'arte di far ridere
Credo che Totò sia morto un po' anche per l'angoscia di morire. Era ossessionato da questo pensiero, ma aveva il buon senso di accorgersene e il buon gusto di scherzarci sopra. Portava la sua paura come i pavoni portano la coda e i soldati la bandiera. ostentandola, magnificandola, e facendone argomento dei più pittoreschi racconti, come quello della sua fuga in campagna al tempo dei bombardamenti di Roma. Per un mese rimase acquartierato in un cascinale remoto. vicino a quello che a lui sembrava un rudere dell’urbe augustea. Un giorno, andato a esplorarlo, ne fu respinto da due sentinelle: quel rudere era una polveriera. A distanza di venti e più anni, quell'avventura lo riempiva ancora di sgomento e indignazione: «Capite in che paese si vive? Ti piantano una poi venera sotto il letto, e man co te ne avvertono. Tu credi di aver dormito per un mese abbracciato a tua moglie, invece hai dormito abbracciato alia morte. E quando te ne accorgi, non ti rifondono nemmeno i danni». «Che danni?». «Alle coronarie».
Alle coronarie dedicava cure particolari. Anche il lavoro in teatro e in cinematografo lo selezionava in modo che le coronarie non vi restassero coinvolte. «Sono disposto a darvi tutto — diceva ai registi — anche la commozione, anche la concitazione. ma solo da qui in su», e si toccava la gola.
Pretendeva di non essersi mai «immedesimato» in una parte, appunto per lasciare a riposo il cuore. Gli bastava il viso, quel viso — come diceva il povero Marotta — la mascella deragliata, sembrava messo lì apposta, con la sua mestizia, a far da contrappunto alla comicità delle smorfie e delle battute, e a sottolinearla.
Mai uomo è stato più sfigurato dalla sua «maschera». Il pubblico ha sempre visto in Totò un mimo plautino, estroverso, insistito, caricaturale. rumoroso, gesticolante, popolaresco. E invece era una creatura frale, mite, schiva, delicata, di vena elegiaca e di tocco signorile, tutti sanno della sua mania araldica, e molti ne hanno riso. Doveva ricorrere a biglietti da visita maggiorati per contenere tutt’i suoi nomi e titolo Focas Flavio Angelo Ducas Comneno de Curtis di Bisanzio Gagliardi Antonio. Altezza Imperiale, Conte Palatino. Cavaliere del Sacro Romano Impero, e non so cos'altro. Non so nemmeno se tutti questi blasoni gli spettassero effettivamente e come fosse riuscito a farseli riconoscere. Ma so di sicuro che fuor della scena li portava con elegante disinvoltura e assoluta naturalezza.
In privato. Totò conduceva un'esistenza da nobile decaduto. E non credo che ci fosse nulla di recitato. Il suo appartamento ai Parioli era spazioso e moderno, ma trapunto di stemmi, gremito di cimeli storici, e senza pacchiane ostentazioni di lusso.
Lì Totò («Altezza» per il cameriere e l'autista, «Antonio» per la moglie e gli amici) riceveva i visitatori e spesso li tratteneva a colazione e a pranzo, ma pochi alla volta perchè le grandi tavolate e le conversazioni chiassose gli davano fastidio.
Fra questi ospiti non c’era mai o quasi mai gente di cinema o di teatro, con cui trattava a parte, considerando il loro sodalizio una pesante servitù del suo lavoro.
Era sempre vestito in maniera impeccabile ed esigeva che anche noi lo fossimo, sebbene da un pezzo i suoi poveri occhi non vedessero più che le ombre. Sua moglie, la bellissima Franca Faldini, Io secondava da esperta padrona di casa. La tavola era sempre magnificamente imbandita, il servizio inappuntabile, le pietanze eccellenti, i vini scelti, sebbene Totò fosse quasi astemio e mangiasse come un uccellino. Una volta gli portai Augusto Guerriero, ch'egli desiderava conoscere e che a sua volta desiderava conoscerlo. «Molto onorato». disse Totò nello stringergli la mano. «L’onore è mio» rispose Guerriero. «No. E' mio» ribattè Totò. «No. mio» insistè Guerriero. Per una decina di minuti seguitarono a contendersi l’onore. Poi, da buoni napoletani, si accorsero della comicità della scena e risolsero, l’onore, di dividerselo a mezzo.
Quella sera la conversazione fu particolarmente brillante e l'umore di Totò si fece addirittura euforico, quando Guerriero tessè l'elogio della sedentarietà. «Lo vedi? — diceva Totò a Franca — lo senti?». Capimmo subito che c’era sotto una polemica coniugale. Franca ha la passione dei viaggi e sognava di cavarsene la voglia con suo marito che per lei aveva comprato anche un panfilo, ma non c’cra mai salito. Ci lasciava andar lei, con Tordi ne al comandante di cabotare in modo che lui potesse vederlo dalla strada su cui lo seguiva in macchina a venti all’ora. «Era una barca bellissima — sospirò Franca — ci si poteva andare anche in America». «Si, in America — fece Totò — e se incontravamo Ines?». «Che Ines?» «Il tifone. Non avete mai sentito parlare del tifone Ines? Gesù, io me lo sogno anche di notte: una cosa spaventosa. Eppoi, perche dovrei andare in Ameri ca? Prima di Colombo, nessuno ne aveva mai sentito il bisogno, c ora tutti lo considerano quasi un dovere. Ma questo che cose? lo di doveri ne ho uno solo: sopravvivere. che è già cosi difficile da assolvere... Dice: ma l'America e la modernità, il progresso... E con ciò? A me
Il progresso e la modernità non mi piacciono. Se un giorno dovessi risalire sul trono di Bisanzio, farci una legge apposta contro queste diavolerie».
Scherzava, ma non mentiva e anche quella faccenda del trono alluse in tono del tutto naturale, come una cosa possibilissima. Totò era un reazionario autentico, nostalgico di una società ordinata e di uno Stato paterno. Non per nulla la sua ambizione, da ragazzo, era stata quella di diventare funzionario di polizia, tanto che sua madre lo chiamava «’o spione». In realtà il suo sogno non era tanto di spiare, quanto di arrestare. le manette rappresentando ai suoi occhi il supremo simbolo dell'autorità. Ma forse gli sarebbe piaciuto metterle solo per poterle togliere.
Era generosissimo. Ha profuso una buona aliquota del suo patrimonio in elemosine c beneficenza, ma di nascosto e sotto banco, un po’ per eleganza, un po’ per paura del fisco. Nascondeva anche il suo superstizioso terrore dei gatti, temendo d'invogliare la gente a perseguitarli, cosa che da noi accade anche senza bisogno di incentivi. Non gli piaceva lavorare, specie per il cinematografo, e poche volte si è appassionato a una parte». Ma imparava con scrupolo anche se poi, una volta sul «set», si lasciava prendere dall'uzzolo dell‘improvvisazione. quasi sempre felice; e rispettava gli orari con rigoroso zelo.
I suoi compagni d'arte dicono ch’era prepotente, che trovava sempre il modo di occupare la scena da solo, di rubare la battuta a tutti e di metterli in ombra. Può darsi, ma non ho mai conosciuto un attore che non lo facesse, o non tentasse di farlo. A lui riusciva facilmente perchè ne aveva la forza. In compenso, era adorato dai piccoli, dai subalterni, dalle comparse con cui era sollecito e prodigo di mance come un bonario re coi suoi paggi. Però non dava confidenza a nessuno, esigeva il titolo di «altezza» e, una volta ripresi i suoi panni di Focas Flavio Angelo Ducas Comneno de Curtis di Bisanzio, voleva essere trattato non più da Totò, ma da conte palatino e cavaliere del Sacro Romano Impero.
Di se stesso attore parlava con sobrio distacco, senza disprezzarlo, ma neanche esaltarlo e attribuirgli esoterici e metafisici significati. «Avrei preferito lavorare al tempo del cinema muto — confessava — perchè tutto quello che ho da dire mi vien detto meglio con la faccia che con la parola. A questa faccia ne hanno attribuite di tutt i colori. Una volta hanno scritto perfino che c’è dentro il ' tragico quotidiano dell'alienazione '. Guardatemi bene: voi ce lo vedete? lo. no. La mia faccia non ha altra tristezza che quella di un mento allungato, di un naso torto, e della vita, che non è triste, ma nemmeno allegra. E' quello che è: un miscuglio di tristezza e di allegria, cioè un grottesco. Ma io sono contento di starci, nella vita, e me la difendo come posso, cercando di soffrire solo dalla gola in su e mai dalla gola in giù per non affaticare le coronarie. lo le difendo, le mie coronarie. e voglio guadagnarmene la gratitudine. Ogni sera, prima di andare a letto, le interrogo: ’ Siete contente, coronarie. di Totò? Vi tratta o non vi tratta con tutti i riguardi? ’».
«Purtroppo a questi riguardi le sue coronarie dovevano essere insensibili perchè sono state proprio esse a tradirlo. Ma forse, in fondo in fondo, lui stesso se l'aspettava. E' morto di paura di morire, Totò.
Indro Montanelli, «Corriere della Sera», 16 aprile 1967
Nel teatro creò sè stesso
Era apparso per l’ultima volta alla ribalta sul finire del 1956, e il suo ritorno era avvenuto dopo una assenza durata sei anni. Quanti hanno memoria di quella serata ricordano ch’egli era sembrato un poco ingrossato, meno brillante di un tempo, non ostante non avesse ancora raggiunto la sessantina, e con una voce leggermente affievolita. L'attore non deludeva. Ma qualcosa in lui e attorno a lui faceva rimpiangere un passato recentissimo del quale Totò sembrò rinnovare i fasti soltanto sul finire del primo tempo dello spettacolo. Rompendo gli indugi, egli era uscito dall'aria un po' greve nella quale dapprincipio si era mosso per abbandonarsi a uno strepitoso, travolgente. Rock and Roll. Un pezzo conclusivo, un per finire che andava ad aggiungersi ad altri suoi c finali» famosi, ripetuti innumerevoli volte: il coro del «mazzolin di fiori» da lui stesso diretto con gesti inconfondibili (e inimitabili), la processione, la estenuante e folle marcia dei bersaglieri.
Lo spettacolo, con il quale si chiudeva la carriera di Totò attore di rivista, era intitolato A prescindere. E quel titolo. sia pure di riflesso, evocava Ettore Petrollni la cui ombra era già apparsa alle spalle di Totò nei suoi momenti più felici. Petrolini. convinto che «l'uomo è cattivo», per giustificare la propria asserzione aggiungeva: «Ho conosciuto uno che diceva: è subdolo», oppure: «Conosco un altro che dice: a prescindere». Forse non a caso, in quella stessa rivista, dovendo parodiare Otello, Totò. si era munito di scarpe molto simili a quelle portate da Petrolini nel famosissimo Nerone.
Che cosa possono significare questi accostamenti. Totò essendo stato una delle maschere più originali del nostro tempo? Di Totò, come di Petrolini. si è detto e ripetuto che in essi rivivevano quasi per incanto i modi del comici dell’arte. Definizione buona per molti usi. e perciò insoddisfacente, sarebbe più giusto dire che i motivi della comicità sono antichi e che ogni comico vero li riscopre come cosa nuova. E’ comunque certo che un avvicinamento fra Totò e Petrolini sarebbe possibile soltanto sul piano dell’assurdo. I cosi detti «slittamenti» di Petrolini. quelle sue imprevedibili uscite dalla commedia tuttavia esse pure di natura recitativa, trovarono più tardi la loro contropartita nelle imprevedibili uscite di Totò dal proprio corpo: acrobazie vere e proprie, consentite da una singolarissima anatomia.
Per il resto Petrolini creò una galleria di tipi, mentre Totò, dal giorno in cui cominciò a recitare. ha creato e perfezionato un solo tipo: se stesso. Sicuramente aveva cominciato ad abbozzarlo a Napoli, dove ragazzo già appariva nelle così dette «periodiche». Di là era poi passato allo Jovinelli di Roma, traguardo allora ambito degli attori di varietà. E dallo Jovinelli (Totò aveva vent'anni), affermatosi nel repertorio di imitazioni di Gustavo de Marco era poi salito ai teatri di Milano e di Torino: il Tria-non, il San Martino e il Maffei. Luoghi scomparsi nel tracollo dell'arte varia, ma che furono un utile trampolino di lancio verso il grande spettacolo di rivista e d'operetta.
Già nel 1922 la maschera Totò si presenta nell’abbigliamento suo proprio, al quale in seguito non saranno apportate varianti degne di rilievo; bombetta consunta, tight dalle spalle cadenti, calzoni a saltafosso sotto i quali sforano, per un lungo tratto, le calze rosse. Era un abbigliamento che serviva a dar risalto alle disarticolazioni dell'interprete, al cravattino messo in mòto dalle contrazioni vorticose del suo pomo di Adamo, alle portentose cadute che consentivano a Totò di piegarsi indietro e risollevarsi senza aver mai toccato terra, alla mobilità del suo torace e dei suoi occhi che Improvvisamente sembravano schizzare dall’orbita. a quel suo collo di volatile che poteva allungarsi e accorciarsi a piacimento.
Cosi lo vedemmo accanto a Isa Bluette, poi nelle compagnie Maresca e Molinari, e finalmente, dal 1933 al 1940. nelle compagnie di avanspettacolo di cui egli stesso fu capocomico. Ma il suo periodo più fortunato va dal 1941 al 1949. Totò. che aveva trovato in Michele Galdieri lo scrittore di rivisto a lui congeniale, e che In molti spettacoli ebbe al suo fianco Anna Magnani, apparve via via in Quando meno te iaspettl, in Volumineide, in Orlando curioso, in Che ti sei messo in testa?, in Con un palmo di naso, in C'era una volta il mondo, riviste in cui erano inseriti episodi (Capri, la vettura letto) i quali lasciavano di tanto in tanto sperare che una volta o l'altra Totò sarebbe passato alla commedia vera e propria.
Non è mai avvenuto, nè sarebbe potuto avvenire, Totò, lo si è già detto, era il personaggio di se stesso, una maschera antica fornita di un corpo straordinariamente adatto a esprimere una comicità astratta e fine a se stessa, essenzialmente moderna, anzi anticipatrice Nelle disarticolazioni fisiche di Totò non è difficile ravvisare, oggi, una parabola non dissimile a quella di tanta letteratura. di tanta pittura, scultura e musica contemporanee.
Raul Radice, «Corriere della Sera», 16 aprile 1967
Il cinema non gli rese giustizia
Il cinema ha dato a Totò la ricchezza, e in Italia una grande popolarità, ma non gli ha reso giustizia, nè l'ha fatto un uomo felice. E' raro che il cinema renda felici. Attore di razza antica, egli era al servizio del pubblico, e non si ribellava assumendo arie da incompreso.
«L'attore è un cantastorie — diceva: — di noi non rimane niente. Siamo come il padrone di un ristorante, quando entra un cliente... prego, si accomodi comandi». Il pubblico comandava di ridere, e lui. a prescindere. lo faceva sbellicare. Il pubblico ordinava di commuoversi. e lui. a prescindere, gli tirava le lacrime. Aggiungeva sempre, di suo. una smorfia o una piega, dettata dall'istinto, un tocco di fantasia e di colore che pochi sapevano cogliere nel marasma d’ilarità. Perchè Totò era migliore del suo pubblico. Anche il suo personaggio, la critica lo diceva da anni, era superiore ai suoi film.
In un certo senso Totò è sta ta la grande occasione mancata del cinema italiano, e lo scarso successo all'estero lo conferma Lo schermo poteva dargli la statura del comico universale metterlo al fianco di Chaplin e di Buster Keaton: e invece soltanto raramente lo ha aiutato a sciogliersi dal lacci del macchiettismo, a usare quella maschera strepitosa come supporto d'una fantasia surreale, che esprimesse un’idea stralunata del tapino, marionetta di cuor tenero in un mondo di pagliacci.
Totò lo sapeva. Nel suo grande intuito di uomo di teatro, Totò sentiva di essere come arrivato in ritardo, che il cinema con la massiccia forza di convinzione del denaro, aveva bloccato la sua maturazione di artista. costringendolo a trasferire sullo schermo il suo personaggio proprio quando cominciava a fare a meno della parola. già tutto riassunto nell'espressività del volto: occhi, bazza e mani scatenati nell’attacco parossistico e pronti a frenarsi nella legnosità del burattino. Venuto al cinema nell’età del muto. Totò sarebbe stato il campione d'una comicità metafisica, sbrigliata nella contemplazione dell'assurdo. Sfruttato dal sonoro per i quiproquo da avanspettacolo ribattuti da «spalle» mediocri, per le freddure che si accompagnavano ai suoi lazzi, Totò è stato invece per decenni il beniamino d'una platea popolare, rumorosa e grassa, che andava in sollucchero per i suoi sberleffi, ma alla quale sfuggiva la tragica stoffa di quell’aristocratico da vicolo napoletano, meschinello e megalomane, obbligato ad arrangiarsi per salvare la vita e l'onore, affamato di femmina e pizza.
Più di chiunque altro, Totò è stato sottoposto dal cinema a uno sfruttamento intensivo. Noi oggi ne ricordiamo di corsa i film maggiori e le presenze più memorabili — Napoli milionaria, Totò cerca moglie, L'oro di Napoli, I soliti ignoti, Guardie e ladri, Siamo uomini o caporali, La mandragola, Ucceliacci e uccellini, fino al recente episodio delle Streghe — ma è impossibile, è anche in giusto, dimenticare che questa è la parte minima, il dieci per cento, d'una produzione immensa, quasi centodieci film, nella quale Totò ha sperperato il suo genio. C'è tutto il tempo per scremare, riflettere al posto che Totò si è acquistato nel cinema italiano: oggi importa ricordare la sua serietà professionale («un frate in borghese»), il suo impegno di servire. l'estro comico con cui riusciva a raggiungere il pubblico anche attraverso l’occhio freddo de) cinema.
Si compivano ora trent’anni dal primo film di Totò, Fermo con le mani, cui seguì Animali pazzi. E del ’40 e '41 erano San Giovanni decollato e L’allegro fantasma, che gli schiusero una carriera trionfale, sboccata nel dopoguerra, dopo Fifa e arena, in un fiume di celluloide, di volta in volta ispirato a fatti di costume, a titoli di successo da parodiare, a farse da caserma, e, più di rado, a commedie che bisognassero duri controcanto patetico, se non tragico. E' su queste, s'intende, e su quanto seppero cavare dalla sua intelligenza d'attore registi come Eduardo, Bragaglia, De Sica, Monicelli, Lattuada e Pasolini, che si regge il grande prestigio di Totò, e son queste che domani nutriranno il suo mito. Eppure egli non si è spento felice. Capiva, e lo confessava, che poteva fa re molto meno e molto meglio.
C’è una lunga intervista con Giacomo Gambetti, nel volume dedicato a Uccellacci e uccellini, che dice la desolazione di Totò, il suo credersi un fallito, tradito dalla parola: «Io con la faccia posso esprimere tutto, invece ho trascurato questo e mi sono buttato a fare dei filmetti dozzinali che non mi hanno permesso di diventare inter nazionale». «E ho fatto male — proseguiva. — Un po’ per pigrizia, un po’ per i produttori italiani... che con i miei film giocavano sul sicuro». Nè risparmiava gli «sceneggiatori da tre soldi». Quanti ne ha avuti, che gli mettevano in bocca doppisensi e scempiaggini. E individuava benissimo il guaio: la povertà del cinema comico italiano, basato sulle battute, intraducibili all’estero, quando la comicità di Totò tendeva alle figure più che alle parole, per quel suo snodare e ritagliare i contorni fisici in una frenesia di scatti che riempivano lo spazio di forme asimmetriche.
Aveva lasciato il cuore sul palcoscenico. Diceva: «Delle mie riviste — ciò che mi è più caro, una vita — non rimane nulla. Il ricordo, al massimo, in chi ne è stato spettatore, qualche cronaca che col tempo impallidirà sempre più: non ho ragione di dire che la mia vita è un fallimento?». Un eccesso di pessimismo. un soprassalto di malinconia napoletana, perchè il cinema potrà invece custodirci il sorriso d’un mimo impareggiabile. Ma chi ci assicura che il tempo sarà galantuomo, e per salvarci il grande Totò saprà stendere una coltre d’oblio sui suoi film più modesti? «Sono qui pro-tempore», diceva. E ora che Napoli lo riprende, serbiamolo in noi.
Giovanni Grazzini, «Corriere della Sera», 16 aprile 1967
Napoli si è commossa
Napoli 15 aprile, notte.
La morte di Totò ha destato commozione vivissima nella sua città e in modo particolare nel vasto rione della Sanità dov'egli era nato nel quartiere «Stella», in via Santa Maria Ante-secula 106. il 7 novembre 1897, da Anna e Giuseppe de Curtis. Un riflesso di questo sentimento lo si è notato nelle giocate al lotto, che hanno visto ripetersi alcuni numeri significativi. Prima di tutto il «13». che nella classica «Smorfia», quella di Tomaso Pironti, significa: «la morte», «Sant'Antonio di Padova» e «il principe». Altri numeri notati nelle varie combinazioni sono il «5». che è «San Vincenzo Ferreri» patrono e simbolo del quartiere che lo vide bambino, e poi il «20».
Il «22», il «26» che significano «gli animali». Era infatti noto l'amore dell'artista per le bestie. Anni or sono la principessa Maria Gaetani Solms gli chiese un aiuto per la locale sezione della «Lega nazionale per la difesa del cane» e Totò scrisse per l'occasione una lunga poesia. «Sarchiapone e Ludovico» (nomi di un cavallo e di un asino) facendola stampare a sue spese a beneficio dei randagi raccolti nel canile «Mariano Rispoli».
Prove della popolarità di Antonio de Curtis si ebbero in numerose occasioni. Una fu nel '57: allora, per una grave infermità agii occhi, Totò dovette sospendere le rappresentazioni al «Nuovo» di Milano. Su consiglio di Remigio Paone egli venne a Napoli per farsi visitare dal direttore della clinica oculistica universitaria, il professor Guido Lo Cascio. Lo accompagnò la moglie Franca Faldini. Alla Riviera di Chiaia, dove il professor Lo Cascio aveva il suo studio, c'era ad attenderlo una grande folla, che lo salutò con applausi ed esclamazioni di augurio.
Un'altra volta (era il 27 giugno del 1955) Totò venne a Napoli per una causa. Un avvocato di Roma lo aveva offeso, esprimendo dubbi sull'autenticità del suo titolo di principe, e Totò lo querelò. Quando, accompagnato dal suo legale, Eugenio De Simone. Totò giunse a Castelcapuano, il palazzo di giustizia, la questura organizzò un massiccio schieramento di polizia per proteggerlo dall'entusiasmo degli ammiratori.
Grande amarezza provocò a Totò un episodio del gennaio 1961. Sempre alla caccia di documenti che meglio potessero provare le attribuzioni araldiche dell'antica famiglia de Curtis. Totò fu felice allorché seppe che nella sala del consiglio comunale di Cava dei Tirreni, in provincia di Salerno, c'era un bel quadro a olio rappresentante un suo avo lontano, Camillo de Curtis. Questo Camillo de Curtis, vissuto al tempo in cui il Mezzogiorno era sotto il dominio spagnolo, consigliere dei «regi collegi collaterali», e presidente della «Somma Rea) Camera». era discendente del de Courtenay, stabilitisi a Cava dove avevano un grande castello. In seguito, il cognome d'origine francese (i de Courtenay erano venuti a Napoli con Carlo d'Angiò) si trasformò in «de Curtis». Una frazione di Cava si chiama tuttora «Curii», e in un'altra borgata, anche di Cava. Sant’Arcangelo, c’è una chiesa dello stesso nome, dove sono tre pregevoli tombe dei de Curtis. Esistevano dunque tutte le ragioni perchè Totò desiderasse divenire proprietario di quel quadro, dove l'Illustre antenato appare in un severo costume con un colletto di trine.
Fu così che ad un amico, Federico Pelliccione, affidò l’incarico di chiedere ufficialmente il quadro al sindaco di Cava, anche pagando una somma molto elevata. Il «primo cittadino» di Cava, professor Eugenio Abbro, ne discusse in consiglio comunale, ma all’unanimità la proposta fu respinta.
Nè questo fu l'unico dolore dato a Totò dai suoi conterranei. Un altro gii venne dalla sua bocciatura come autore di canzoni. Durante uno dei tanti festival, Totò concorse con vari pezzi, dei quali aveva composto musica e parole. Le canzoni non furono mal ammesse, ed egli si consolò organizzando un'audizione privata per «soli amici e intenditori».
Un particolare appreso con interesse dalla cittadinanza è che Totò sarà sepolto a Napoli, nella tomba di famiglia, dove volle venisse interrata la bara col corpo di Liliana Castagnola, la cantante uccisasi per lui. Eugenia Castagnola, il cui nome d'arte fu «Liliana», era ligure, di San Martino in provincia di Genova. Quando, fra il 1929 e il 1930, chiamato dall’impresario Eugenio Aulicino, Totò ebbe uno dei più splendidi periodi della sua vita, recitando al teatro «Nuovo». Liliana Castagnola, giovane di eccezionale bellezza che ispirò a Guido da Verona Mimi Bluette, fiore del mio giardino (per lei si erano già uccisi due industriali), s’innamorò del comico e per qualche mese ne fu riamata. Ma un giorno, saputo di un'infedeltà di Totò, la donna ingoiò trenta pastiglie di sonnifero, nella pensioncina di piazza Giovanni Bovio. Avvertito dagli amici, Totò accorse. Trovò un gruppo di funzionari che compivano la solita triste formalità per l'atto di morte: era il 3 marzo 1930. In ricordo di quell’amore, Totò volle che il corpo di Liliana riposasse a Poggioreale nella tomba dei de Curtis: e, quando poi dal matrimonio celebrato nei 1931 con Diana Roliani (2) (e annullato nel 1939) ebbe una figlia, volle chiamarla col suo nome.
Crescenzo Guarino, «Corriere della Sera», 16 aprile 1967
Quotidiano «Il Piccolo», domenica 16 e martedi 18 aprile 1967
Le sue ultime parole: «Sto per morire, portatemi a Napoli» - Un grande attore e un mimo eccezionale, acclamatissimo interprete di riviste e di oltre cento film
Roma, 15
Antonio De Curtis, in arte Totò è morto per infarto cardiaco alle ore 3.25 nella sua abitazione in via Monti Parioli 4. «Sto per morire, portatemi a Napoli». Queste sono state le sue ultime parole. In quel momento erano intorno al capezzale delittore Franca Faldini, la figlia della prima moglie, Liliana, la suocera, il cugino e il suo amico fraterno Mario Castellani.
I funerali si svolgeranno, probabilmente nella chiesa di piazza Euclide. Saranno «semplicissimi», secondo il desiderio, più volte espresso, di Totò. La salma sarà quindi portata a Napoli e tumulata in una cappella del cimitero dove sono sepolti i genitori e il figlioletto di Antonio de Curtis.
Numerosi giornalisti e fotoreporter, sin dalle prime ore di stamane, si trovano davanti al n. 4 di via Monte Parioli in attesa delle numerose personalità del mondo cinematografico che si recheranno in casa del popolare attore scomparso. Nella casa è stata allestita una camera ardente.
L’attore, una settimana fa, aveva avuto disturbi allo stomaco e per un giorno aveva sospeso la sua attività. Il medico personale aveva ordinato alcuni esami del sangue e ieri si era conosciuto il risultato delle analisi: Totò non aveva alcuna malattia. Ieri pomeriggio non era uscito da casa. Alle 21 aveva mangiato una minestra di semolino. Mezz’ora dopo era stato colto da malessere: la moglie Franca Faldini, aiutata dal cugino e segretario Edoardo Clemente lo avevano fatto mettere a letto e avevano chiamato due medici, i quali, compresa immediatamente la gravità del male, avevano somministrato al malato ossigeno, dopo avergli fatto iniezioni cardiotoniche. L’attore aveva perso conoscenza verso la mezzanotte.
Quando i primi sintomi del male già cominciavano a farsi sentire, Totò consegnò al Clemente una busta con 120 mila lire dicendogli: «Questo deve bastare per il mio funerale». La salma di Totò è stata rivestita con una giacca blu con bottoni d’oro, calzoni grigi e un foulard al collo. Sul petto la Faldini gli ha posto un grosso medaglione con l’immagine di Sant’Antonio al quale Totò era particolarmente devoto e che voleva sempre in capo al letto.
Il Presidente della Repubblica ha fatto pervenire alla signora Franca Faldini de Curtis il seguente telegramma: «La scomparsa del grande e popolare attore Antonio de Curtis è un grave lutto per il teatro ed il cinematografo italiano e rattrista gli innumerevoli spettatori che per lunghi anni hanno ammirato ed amato i suoi straordinari mezzi espressivi al servizio di una profonda sensibilità artistica ed umana. Associandomi al lutto del mondo dello spettacolo, invio a lei e ai familiari tutti l’espressione del mio vivo cordoglio».
Il Ministro del Turismo e spettacolo ha inviato alla famiglia de Curtis il seguente telegramma: «Improvvisa scomparsa di Antonio de Curtis è grande lutto per il teatro e il cinema italiani. Illustre attore ha profuso doti di viva umanità nelle sue interpretazioni donando tanta serena letizia e suscitando sentimenti profondi nel nostro animo. Partecipo vivamente loro grande dolore».
Alberto Sordi, appresa la morte dell’attore, non ha saputo nascondere il suo profondo dolore. Con voce commossa ha detto: «Ero molto legato a Totò. La nostra era un’amicizia cementata dalla sincerità e dalla stima reciproca. Non trovo aggettivi per definire Totò, il massimo che un attore comico potesse rappresentare in tutta la storia sia del cinema che, principalmente, del teatro italiano. Potrà sembrarvi ima banalità ma debbo dirla lo stesso: ora che Totò non c’è più non ci sarà mai più: di Totò non ce ne saranno altri».
Ugo Tognazzi che ha lavorato con Totò in due fìlms ha dichiarato: «La scomparsa di Totò mi addolora e mi sorprende. Credo che queste reazioni e questi sentimenti siano comuni a tutti: Totò suscitava simpatia umana sia come uomo sia come ultima grande maschera del teatro napoletano».
Nino Taranto ha dichiarato: «Quando sfortunatamente ci si trova di fronte a questi gravi, incolmabili perdite, si è istintivamente presi da un grande senso di panico. Panico? Ma vediamo perchè: anzitutto si pensa alla tragedia che ha travolto l’amico, poi si va indietro col tempo nel ricordo delle lotte compiute assieme per l'affermazione del proprio lavoro. Mi ritornano così alla mente i lunghi colloqui avuti con lui, le cose dette e non dette, sempre rivelatrici di intime amarezze sempre associate a questo nostro meraviglioso lavoro; mai, caso strano, si pensa alle soddisfazioni che pure da esso ci derivano. Totò, come me, si rammaricava di vivere lontano dalla città natale ed alla quale ci sentivamo legati da passioni quasi violente. Questa condizione ci faceva credere che essa ci considerasse al pari di quei figli più fortunati che non sono bisognosi delle sue tenerezze. Questo era l'uomo, così come io lo conoscevo. Ora, se penso alla scomparsa dell’attore, mi atterrisce l’idea che esso porta via con sè una gran parte del teatro, una parte certamente insostituibile. Credo di aver detto tutto! L’ho amato e mi ha amato; ci stimavamo reciprocamente e ce lo siamo dimostrato in tante occasioni. Io, come attore, credo di aver perduto un punto di riferimento, un uomo che aiutava tutti ad innalzare il prestigio del nostro teatro».
Quasi contemporaneamente alla sua morte è uscito il primo disco di Totò. Si tratta di un microsolco con una lirica ispirata alla morte, dal titolo «’A livella». Con la bella poesia, egli ha voluto salutare tutti gli amici e gli innumerevoli ammiratori con un’atmosfera di crepuscolare malinconia. «Ormai per me il trapasso è un gioco; è un passaggio dal sonoro al muto. E quando si è spenta la lampada, significa che l’opera è finita e il primo attore se n’è andato a dormire».
«Il Piccolo», 16 aprile 1967
La maschera e il cuore
«Alfredo Bini - presenta - il vecchio Totò - il triste Totò - l’allegro Totò - nella storia - Uccellacci e uccellini - raccontata da Pier Paolo Pasolini...».
Un’epigrafe? Potrebbe esserlo, anche se vagamente divinatoria, poiché fa parte dei titoli di testa del film girato due anni fa. E più completa non potrebbe essere. Il vecchio, il triste, l’allegro Totò. Totò che lascia la rivista, che lascia il cinema, che sta male ed è operato agli occhi (indeboliti dalle luci della ribalta), e che poi ritorna sia pure per una breve parentesi alla rivista, e ancora al cinema, ma non più in farse grossolane ancorché godibili e riscattate talvolta dalla sua prodigiosa invenzione mimica, bensì nel rarefatto e intellettuale clima pasolìniano, difficilissimo al tatto fino al metafisico e al surreale; gli stessi, in definitiva, che Totò amava e sui quali si era cosi espresso già nel lontano 1940 con Zavattìnì: «...vorrei parlare pochissimo, ridere, esclamare». E fu proprio per «Uccellacci e uccellini» che pochi mesi fa ricevette la seconda volta il Nastro d’Argento per il migliore attore protagonista (la prima fu nel ’52 per «Guardie e ladri»),
Totò, settant’anni, di cui quasi una cinquantina in palcoscenico e trenta esatti di cinema. («Fermo con le mani» che segnò l’esordio è del ’37). In principio era il varietà, nei teatrini di Napoli, attorno ai vecchi Pulcinella con i quali sì recitava a soggetto; da una battuta anche assurda doveva seguire il diluvio delle invenzioni. Ma intanto si profila una maschera e un volto, la bazza a strapiombo, gli occhietti lampeggianti, il corpo disarticolato da burattino; ma si, proprio l’immortale humor della Commedia dell’Arte che approda alla palestra di Petrolini. Poi venne la rivista sotto la prestigiosa insegna di Manesca e infine, nel ‘29, una compagnia propria. I titoli delle riviste, scritte tutte per lui da Galdieri, sono «Quando meno te l’aspetti», «Volumineide», «Orlando Curioso», «Che ti sei messo in testa», «Con un palmo di naso», «Bada che ti mangio». Tutti successi strepitosi e non solo di comicità ma anche — e vorremmo dire soprattutto — di simpatia.
Verso il '40. come si è detto, lo cattura il cinema, ma si ferma — per la guerra — a «San Giovanni decollato». Riprende i contatti dopo l'uragano, e i risultati di popolarità sono addirittura sbalorditivi, ma nella serie divagante, da piccola comica allungata («Fifa e arena», «L’imperatore di Capri», «Totò cerca moglie», «Totò sceicco», «Totò, Peppino e...») si inseriscono ogni tanto cose di cui non si guarisce la memoria: «Ynonne La Nuit», «Napoli milionaria», «Dov’è la libertà» (Rossellini), «Guardie e ladri» (Steno e Monicelli), «L'oro di Napoli» (De Sica), «Racconti romani», fino a «La Mandragola» (Lattuada) e a «Uccellacci e uccellini». Cose dove il comico scacciapensieri fa largo all’attore umanissimo e patetico, dove un semplice aggrottare di fronte o un incedere prudente producono — ma al rovescio, cioè nei sentimenti — la stessa carica emotiva dei semplici ma già leggendari «a prescindere», «é ovvio», «Siamo uomini o caporali?». Come del resto aveva acutamente notato Giulio Cesare Castello: «...al di là della maschera Totò esiste un attore, dall’umanità ora beffarda ora patetica, un Totò la cui tendenza alta stìlizza-zio- comica non va a detrimento di una più sottile rivelazione psicologica».
Totò comico, Totò maschera, Totò uomo. La civetteria di lasciare l’età nel guardaroba, come i veri grandi attori; l’ambizione — umana e legittima — di chiarire la nobile discendenza; l’attaccamento orgoglioso a Napoli, nel pittoresco clan spirituale dei Viviani, dei Marotta, dei Taranto, dei De Sica; la vena musicale — patetica anch'essa — che dà «Malafemmena» in mezzo a una quarantina di altre canzoni. L'equilibrio, la misura e la con-savevolezza per cui a chi gli chiede qual è la funzione e il significato dell'attore risponde: «Come mestiere non è nessuno, è un cantastorie... Che cosa rimane di noi? Niente. Chi siamo noi?... Siamo una cosa voluttuaria che proprio per questo non è indispensabile... Non si può fare a meno del pane, ma di andare al cinema e a teatro sì...».
E invece di Totò rimarranno tante buone cose: il ricordo, il cuore, la comprensione, la bontà. Ha fatto sorridere generazioni. Nell’aspro e difficile dopoguerra ha creato con il suo personaggio e i suoi film un’oasi dove si poteva prender flato in attesa di ri-cominciare la salita. Anche se i temi erano ingenui, c’era sempre una nota o un accordo che toccavano. Chi non ricorda la fanfara elettrizzante di «Totò a colori»? E nelle pause — stanchezza, gli anni la certezza che egli puntualmente sarebbe prima o dopo ritornato. Più vecchio, più lento. più immobile, ma sempre magnetico e capace di toccare. E a giorni infatti avrebbe dovuto riprendere a girare con Virna Lisi sotto la direzione di Bolognini. All’incirca una nipote e un figlio. Sembrava — almeno a noi di una certa generazione — immortale. Certo è che sarà insostituibile il vecchio Totò, il triste Totò, l’allegro Totò.
Libero Mazzi, «Il Piccolo», 16 aprile 1967
Dal palcoscenico del vecchio «Fenice»
Conquistò già nel 1926 il pubblico triestino
La morte del popolare attore comico Totò ha suscitato vasta eco di cordoglio anche nella nostra città ed in particolare tra quanti ebbero occasione nel passato di vedere l’attore sui nostri palcoscenici con le sue riviste ed i suoi spettacoli brillanti.
Il debutto innanzi al pubblico triestino porta la data del maggio 1926, quando l’ancor giovane ma già noto Totò si presentò alla ribalta della «Fenice» riscuotendo un successo grandioso. Non era ancora il grande Totò, ma la sua mimica, le sue assurdità umoristiche, comiche e grottesche, con tutta la corte di lazzi e sberleffi, ottennero sin dalla prima sera effetti di particolare umorismo, suscitando una generale ilarità tra il pubblico. Si ebbero dei «tutto esaurito» perchè la voce si sparse e tutti volevano divertirsi andando allo spettacolo del giovane napoletano che si esibiva tra l’altro anche come cantante, presentando «Vicolo», con la parodia di «Ciccio», tutto contorcimenti e strane mosse, o raggiungendo l’apice della comicità anche con il grottesco «Vero biondo corsaro». Totò era ancora l’emulo di De Marco, che lasciava però intravedere la grande genialità di Maldacea.
Quando nel marzo del 1937 Totò fece ritorno a Trieste, ed ancora alla «Fenice», non è più l’emulo o l’imitatore di nessuno; è già il grande artista che si presenta con una propria compagnia, anche se di formato ridotto, in alcune rivistine. Eccone i titoli: «Se quell’evaso fossi io», «50 milioni... c’è da i impazzire», «Chi sarà dei due?» e per finire «I tre moschettieri», una rivista-parodia in due tempi e venti quadri di Mangini e Tramonti, che fece conoscere al pubblico triestino la bellezza e la bravura anche di Clely Fiamma. Totò fu inesauribile e prima di congedarsi da Trieste ebbe la sua serata d’onore, come si usava ancora, che risultò un trionfo ed una gran festa.
Due anni dopo, nel mese di aprile del 1939, il comico si presentò al Politeama Rossetti con due riviste, delle quali era anche l’autore del copione, mentre le musiche erano del maestro Fragna. Debutta con «Fra moglie e marito, la suocera... e il dito» e gli sono al fianco Clely Fiamma, Oliva Fried, Bruno Cantalamessa, Mario e Carmen Molfesi, Eduardo Passarelli ed altri. Si trattava di un «labirinto rivistaiolo nel quale le situazioni comiche sì susseguono senza posa, alternate da balletti, canzoni e suggestivi quadri coreografici». Dopo qualche giorno andava in scena il secondo spettacolo, dal titolo «Ultimo Tarzan». Totò riuscì a divertire tutti nella sua incarnazione dell'uomo-scimmia piombato in mezzo al mondo civile, poiché erano mille le occasioni e le trovate per sbizzarrirsi. Tarzan sfidato a duello, Tarzan tra le belle signore, Tarzan numero da circo equestre, Tarzan sposato a ima delle sorelle siamesi. Tarzan all'inferno sono solo alcuni titoli delle scenette.
Totò tornò al Rossetti nel febbraio del 1943 con «L’Orlando curioso» e fu l’ultima volta che si presentò al pubblico di Trieste. Era quello uno spettacolo «Errepi» con copione di Michele Galdieri, ed assieme al capocomico si presentavano Lucia D'Alberti come soubrette e Clelia Matania, Gianna D’Auro ed Antonella Stoni allora alle prime armi. Una rivista la quale, anche se nata in tempo di guerra, aveva bei costumi e buona messa in scena.
Dopo quel congedo del febbraio 1943, Totò non fece più ritorno a Trieste ed il nostro pubblico non ebbe occasione di conoscere la grande compagnia di rivista che il grande comico allestì nel dopoguerra, con scenari sfarzosi, come la fontana luminosa che si vedeva in «Bada che ti mangio!», e che da sola venne a costare cinque milioni.
R. G., «Il Piccolo», 16 aprile 1967
Enorme folla a Napoli per i funerali di Totò
Napoli, 17
La salma di «Totò» è giunta a Napoli alle 16.30. Il furgone funebre che ha riportato il popolare attore scomparso nella «sua» città è stato accolto al casello terminale dell’Autostrada del Sole da una grande folla, fra cui moltissimi attori e gente di teatro. Insieme con Nino Taranto il quale ha baciato tre volte il fereto e aveva il volto solcato dalle lacrime, erano anche, giovani e vecchi attori delle compagnie del Teatro «Bracco» e del «San Ferdinando», rappresentanti del sindacato dello spettacolo.
Il corteo funebre, composte di oltre 30 macchine, ha impiegato circa, un’ora per raggiungere la basilica dei Carmine. Il feretro è stato fatto entrare in chiesa attraverso la porta carraia. Al suo passaggio alcune persone sono svenute. Nell’interno della basilica hanno trovato posto oltre duemila persone; in piazza Mercato, invece, dinanzi al tempio, ve n’erano circa ventimila. La bara di Totò e stata collocata su un tappeto rosso scuro al centro della navata principale. Dopo la celebrazione della Messa, officiata dal priore della basilica del Carmine, padre Angelo Bertani, è stata impartita la benedizione alla salma.
Al rito funebre hanno assistito diversi parenti dell’attore scomparso. Franca Faldini e la figlia Liliana, invece, non sono, riuscite a entrare nel tempio, gremito di folla, e si sono recate direttamente al cimitero. Nella basilica era presente anche il Sindaco di Napoli, prof. Principe.
Durante il rito, la Schola Cantorum del teatro «San Carlo» ha eseguito mottetti in latino. Successivamente, Nino Taranto ha così commemorato Totò: «Amico mio, non è un monologo ma un dialogo, perchè sono certo che tu mi senti e mi rispondi. La tua voce è nel mio cuore, nel cuore di questa Napoli che è venuta a salutarti, a dirti grame perchè l’hai onorata, perchè non l’hai dimenticata mai, perchè sei riuscito dal palcoscenico della tua vita a scrollare di dosso quella cappa di malinconia che l’avvolge. Tu, amico mio, hai fatto sorridere la tua città. Sei stato grande, le hai dato la gioia, la felicità, l’allegria di un’ora, di un giorno, tutte cose delle quali Napoli ha tanto bisogno. I tuoi napoletani, il tuo pubblico sono qui, hanno voluto che il loro Totò facesse a Napoli l’ultimo «esaurito» della sua carriera e tu, maestro del buonumore, questa volta ci stai facendo piangere tutti. Addio, Totò, addio amico mio. Questa Napoli, questa tua Napoli affranta dal dolore vuole farti sapere che sei stato uno dei suoi figli migliori e che non ti scorderà mai. Addio Totò, addio».
Terminato il rito, a causa dell’enorme folla — si calcola che circa centocinquantamila napoletani, dalla Doganella alla Basilica del Carmine, abbiano reso l’estremo saluto alla salma di Totò — il feretro è stato posto subito a bordo del furgone, che, preceduto da camionette della polizia, si è diretto al cimitero del Pianto.
La salma di Totò è stata tumulata nella cappella gentilizia della famiglia de Curtis, alla presenza dei familiari dell’attore e di pochi intimi. Molti napoletani avevano inviato diretta-mente al cimitero corone e cuscini di fiori.
Viva commozione vi era stata per i funerali di Totò anche a Roma: molte donne hanno pianto stamane al passaggio del feretro del famoso attore, sul quale era stata posta la bombetta che faceva parte dell’abbigliamento di scena dello scomparso.
Il feretro è stato portato a spalla da sette compagni di lavoro di Totò: attori poco conosciuti che erano stati colleghi dello scomparso.
Nella basilica di S. Eugenio era stato preparato un catafalco di fronte all’altare centrale, ai lati del quale erano stati sistemati due banchi per i congiunti dello scomparso. Al rito funebre sono intervenuti anche il Ministro del turismo e dello spettacolo on. Corona, accompagnato dal direttore generale dello spettacolo De Biase, e lo on. Giovanni Leone, che era legato all’attore da una lunga amicizia. Queste personalità e numerosi rappresentanti del mondo dello spettacolo hanno assistito alla benedizione del feretro. confusi tra la folla.
«Il Piccolo di Trieste», 18 aprile 1967
Varie testate giornalistiche, da sabato 15 e domenica 16 aprile 1967 in poi
«L'Avanti», 16 aprile 1967
La morte di Totò
Per tutta la giornata di ieri una folla commossa di gente dello spettacolo è sfilata nella casa del principe Antonio de Curtis in via dei Monti Parioli, a Roma, per salutare l'ultima volta Totò nella camera ardente preparata dalla moglie e dal familiari.
Il popolare attore, che aveva quasi settantanni, è spirato ieri mattina poco dopo le tre stroncato da un collasso cardiaco. Egli aveva avvertito uno strano malessere fin dalla mattina precedente, ma solo in serata aveva accettato di farsi visitare da un medico. Ogni cura è stata vana però e le sue condizioni sono andate aggravandosi sempre più.
La improvvisa morte di Totò ha suscitato viva impressione tra il pubblico che da tanti anni seguiva con profonda simpatia la sua attività in teatro e nel cinema. Del cordoglio del paese ha votato rendersi interprete lo stesso Presidente della Repubblica che ha inviato alla vedova un caloroso telegramma.
I funerali avranno luogo domani nella chiesa parrocchiale di Sant'Eugenio a Valle Giulia.
«Il Popolo», 16 aprile 1967
«La Gazzetta di Mantova», 16 aprile 1967
«L'Unità», 16 aprile 1967
«Il Tempo», 16 aprile 1967
«Il Popolo», 17 aprile 1967
«La Gazzetta di Mantova», 17 aprile 1967
«Il Tempo», 17 aprile 1967
«Il Messaggero», 17 aprile 1967
«La Gazzetta di Reggio», 18 aprile 1967
Al film già programmato per la serata di ieri, Prima di sera, è stato prontamente e opportunamente sostituito da Dov è la libertà?, con Totò protagonista: Totò, la cui repentina scomparsa ha colpito con tanta tristezza i nostri cuori. Il film è stato girato da Roberto Rossellini nel 1952 (ma è apparso nel 1964) ed è il quarto di quella diecina di film che Totò ha interpretata negli anni cinquanta. Esso è il frutto di una insolita collaborazione tra il grande regista romano e il grande attore napoletano: da questo binomio era lecito aspettarsi o tutto o nulla, cioè la scintilla della reciproca comprensione tra autore e interprete poteva scoccare istantaneamente determinando la riuscita o meno del film. Invece, cosa strana, il film non è né bello né brutto: la storia si svolge dignitosamente e lentamente, ma purtroppo senza che il suo motivo dominante — la difficoltà, se non l'impossibilità di vivere, per un galantuomo, nella società contemporanea — trovi l'adeguata espressione artistica. E se non fosse per qualche sequenza veramente originale e qualche smorfia di umana ì angoscia, non ci si renderebbe neanche conto di essere innanzi a due artisti di sì alta classe. Senza dubbio molto hanno contribuita a tale risultato la sceneggiatura, che non è delle migliori di Rossellini, e una sorta di mancanza di decisione o d’impegno da parte di tutti.
Eppure il soggetto appare ancor oggi interessantissimo e meritava un approfondimento effettivo: Dov'è la liberta? è la domanda senza risposta che si rivolge un poveruomo il quale, uscito di prigione dopo ventidue anni — egli ha ucciso un uomo che aveva tentato d’insidiargli la moglie — si trova ad affrontare il grave problema di rifarsi una vita. Dopo i tanto tempo, la sua città è irriconoscibile: egli non riesce neanche a ritrovare la sua vecchia Al film già programmato per la serata di ieri, Prima di sera, è stato prontamente e opportunamente sostituito da Dov'è la libertà?, con Totò protagonista: Totò, la cui repentina scomparsa ha colpito con tanta tristezza i nostri cuori. Il film è stato girato da Roberto Rossellini nel 1952 (ma è apparso nel 1964) ed è il quarto di quella diecina di film che Totò ha interpretata negli anni cinquanta. Esso è il frutto di una insolita collaborazione tra il grande regista romano e il grande attore napoletano: da questo binomio era lecito aspettarsi o tutto o nulla, cioè la scintilla della reciproca comprensione tra autore e interprete poteva scoccare istantaneamente determinando la riuscita o meno del film. Invece, cosa strana, il film non è né bello né brutto: la storia si svolge dignitosamente e lentamente, ma purtroppo senza che il suo motivo dominante — la difficoltà, se non l'impossibilità di vivere, per un galantuomo, nella società contemporanea — trovi l'adeguata espressione artistica.
E se non fosse per qualche sequenza veramente originale e qualche smorfia di umana angoscia, non ci si renderebbe neanche conto di essere innanzi a due artisti di sì alta classe. Senza dubbio molto hanno contribuita a tale risultato la sceneggiatura, che non è delle migliori di Rossellini, e una sorta di mancanza di decisione o d’impegno da parte di tutti. Eppure il soggetto appare ancor oggi interessantissimo e meritava un approfondimento effettivo: Dov'è la liberta? è la domanda senza risposta che si rivolge un poveruomo il quale, uscito di prigione dopo ventidue anni — egli ha ucciso un uomo che aveva tentato d’insidiargli la moglie — si trova ad affrontare il grave problema di rifarsi una vita. Dopo i tanto tempo, la sua città è irriconoscibile: egli non riesce neanche a ritrovare la sua vecchia botteguccia da barbiere.
Anche la gente è diversa, egoista, corrotta: la stessa famiglia che, apparentemente, lo accoglie a braccia aperte, in realtà non tarda a rivelarsi per un'accozzaglia di spregiudicati furfanti. Di fronte a questa dura e sconfortante realtà, all'ometto nauseato non resta allora che scegliere il male minore: tornar nella cella dalla quale è appena uscito. Tutto ciò è raccontato in modo piuttosto ineguale: alcuni episodi, veramente ben riusciti, come lo incontro del protagonista con una passeggiatrice e «l'evasione all'incontrario» ch'egli organizza per rientrare clandestinamente in carcere, si impongono per una bellezza di immagini degna della massima considerazione. Ma queste pagine felici sono poi tenute insieme da un. tessuto connettivo alquanto opaco, in mezzo al quale il microscopio della buona volontà non riesce a individuare che cellule dai contorni confusi.
Così la profonda tristezza della vicenda non arriva ad esprimersi in modo compiuto da persuadere e commuovere, malgrado l'evidente volonterosità di Totò che, per presentare una maschera autenticamente tragica, rinuncia quasi completamente al repertorio dei suoi comicissimi lazzi. Vero è che, visto oggi, a pochi giorni dalla morte di chi l'ha vissuto, questo amaro personaggio ci è parso a poco a poco trasfigurarsi in una sorta di fantasma — quella di lui, Totò, e diciamo pure S. A. R. Antonio de Curtis Gagliardi Ducas Comneno di Bisanzio, — che, oltre la finzione e di là d’ogni valore artistico, esemplava l’immensa tristezza dei suoi ultimi giorni, già immersa nel buio della cecità, con un passo sulla tomba e un altro nella commedia umana da lui si potentemente evocata.
«Il Messaggero», 25 aprile 1967
«La Gazzetta di Reggio», 16 aprile 1967
«La Libertà», Piacenza, 16 aprile 1967
«Il Messaggero», 16 aprile 1967
«Il Messaggero», 17 aprile 1967
«Il Tempo», 18 aprile 1967
«Il Messaggero», 18 aprile 1967
«Il Messaggero», 18 aprile 1967
«Il Popolo», 18 aprile 1967
Roma, aprile
Tra la folla che sabato mattina ha reso omaggio alla salma di Totò, a poche ore dalla morte del grande comico, c’era anche una anonima donnetta: magra, sofferente, vestita di nero, è riuscita a raggiungere la camera ardente, dove si è inginocchiata a piangere. Non era un’ammiratrice del comico, né faceva parte del mondo dello spettacolo, né era legata da vincoli di parentela alla famiglia.
Era una donna qualsiasi, beneficata dal principe De Curtis: «Ho dovuto essere ricoverata in ospedale — racconta lei stessa. — Non avevamo un soldo, e mio figlio si è rivolto a Totò, che non conosceva. Il principe non ha chiesto né referenze né garanzie: ha dato a mio figlio 50 mila lire, senza pretendere niente. Stamattina ero ancora in ospedale, quando ho sentito alla radio la notizia della sua morte. Ho chiesto i miei vestiti e sono uscita. Non potevo non venire a ringraziarlo».
«Tribuna Illustrata», 19 aprile 1967
«Ultimora», 20 aprile 1967
Solenni a Roma e a Napoli le estreme onoranze a Totò
Nella città partonepea i funerali sono risultati particolarmente imponenti
ROMA, 17
Migliaia di persone, tra cui anonimi ammiratori e attori grandi e piccoli che hanno lavorato in cinematografo o in teatro con Totò, hanno reso stamane l’estremo saluto all’indimenticabile comico napoletano. Il feretro è stato portato a spalla dagli amici più intimi di Totò. Franca Faldini ha voluto che sulla bara fosse posta la «bombetta» dell’attore. Si è quindi formato un lunghissimo corteo che, attraverso via dei Monti Pario-li e via Bruno Buozzi, ha raggiunto la vicina Basilica di Sant’Eugenio alle Belle Arti. Seguivano il feretro la moglie dell’attore Franca Faldini, la figlia Liliana col marito Gianni Buffardi, Mario Castellani, la sua prima spalla e amico di vecchia data, il cugino Edoardo Clemente, l’impresario Remigio Paone e poi, via via, tutti gli altri tra cui Ubaldo Lay, Tino Scotti, Enrico Viarisio, Ciccio Ingrassia, Franco Franchi, Elsa Martinelli, il figlio di Jovinelli, nel cui teatro, nel 1917, Totò debuttò a Roma, Nuto Navarrini, Luciano Salce, Franco Sportelli, Pupella Maggio, Luisa Rivelli, Lina Wertmuller, l'avv. Eugenio De Simone, ed Elio Gigante.
Poco dopo mezzogiorno il corteo funebre è giunto nella Basilica di Sant’Eugenio. Sul sagrato erano convenuti per rendere l’estremo saluto a Totò il ministro del Turismo e Spettacolo Achille Corona, l’ex Presidente del Consiglio e della Camera dei deputati Giovanni Leone, il direttore del Turismo e dello Spettacolo dott. De Biase, il presidente dell’ANICA Eithel Monaco e numerose altre personalità del mondo dello spettacolo tra cui Anna Magnani, il regista Carmine Gallone, Alberto Sordi, Ugo Tognazzi, Regina Bianchi, Umberto Sacripanti, Luigi Pavese, Enzo Garinei e Sergio Corbucci.
La benedizione alla salma è stata impartita, al termine di un solenne rito liturgico, da mons. Alessandro Persichetti.
Circa tremila persone hanno porto a Totò l'ultimo saluto. Corone, cuscini, fiori hanno mandato, perchè impossibilitati a intervenire alla mesta cerimonia, tra gli altri Sofia Loren e Carlo Ponti, Gino Cervi, il regista televisivo Sandro Bolchi col quale Totò aveva terminato poco tempo fa di girare per la TV « Tutto Totò », Goffredo Lombardo, Franca e Domenico Modugno, Giulietta e Federico Fellini, Miranda Martino, Claudio Villa, la vedova di Mario Riva e altri. Tra le « vecchie, glorie » del cinema e del teatro italiano erano gli attori Eugenio Gaiandini, Pino Valeri, Romano Dori, Roberto Spiombi, Renato Brugnoli, Alberto Venturi, e Minora Tartara.
Dopo il breve rito funebre, al quale, in disparte, ha preso parte anche la prima moglie dell’attore. Diana Rogliani, la salma di Totò, portata a spalla dagli attori e generici che in questi giorni avrebbero dovuto iniziare con lui la lavorazione di « Arabella», è stata posta su un furgone funebre che seguito da numerose macchine a bordo delle quali erano Franca Faldini, la figlia Liliana e altri parenti è partita per Napoli, la città natale dell’attore.
Il furgone funebre che ha riportato Totò nella «sua» città è stato accolto a Capodichino da circa cinquecento persone. Al casello terminale dell’Autostrada del Sole erano ad attendere la salma di Antonio De Curtis Nino e Carlo Taranto, Dolores Palumbo. Saro Urzì, Nunzio Gallo, Gloria Christian, Luciano Rondinella, molti generici e comparse che avevano lavorato con Totò nei vari film da lui interpretati, nonché numerose popolane che stringevano bambini per le mani.
Insieme con Nino Taranto, il quale ha baciato tre volte il feretro ed aveva il volto solcato dalle lacrime, erano anche giovani e vecchi attori delle compagnie del teatro «Bracco» e del «San Ferdinando », rappresentanti del Sindacato dello spettacolo. Il corteo funebre, composto di oltre 30 macchine, ha impiegato circa un’ora per raggiungere la Basilica del Carmine. Il feretro è stato fatto entrare in chiesa attraverso la porta carraia. Al suo passaggio alcune persone sono svenute.
Nell’interno della Basilica hanno trovato posto oltre duemila persone; in piazza Mercato, invece, dinanzi al tempio, erano dieci volte di più. La bara di Totò è stata collocata su un tappeto rosso scirro al centro della navata principale. Dopo la celebrazione della Messa, officiata dal priore della Basilica del Carmine, padre Angelo Bertani è stata impartita la benedizione alla salma.
Durante il rito la Schola Cantorum del Teatro «San Carlo» ha eseguito mottetti in latino. Successivamente Nino Taranto ha cosi commemorato Totò: «Amico mio, non è un monologo ma un dialogo perchè sono certo che tu mi senti e mi rispondi. La tua voce è nel mio cuore, nel cuore di questa Napoli che è venuta a salutarti, a dirti grazio perchè l’hai onorata, perchè non l’ha dimenticata mai, perchè sei riuscito dal palcoscenico della tua vita a scrollarle di dosso quella cappa di malinconia che la avvolge. Tu, amico mio, hai fatto sorridere la tua città. Sei stato grande, le hai dato la gioia, la felicità, l’allegria di un’ora, di un giorno, tutte cose delle quali Napoli ha tanto bisogno. I tuoi napoletani, il tuo pubblico sono qui. Hanno voluto che il loro Totò facesse a Napoli l’ultimo "esaurito” della sua carriera e tu, maestro dei buonumore questa volta stai facendo piangere tutti. Addio, Totò, addio amico mio. Questa Napoli, questa tua Napoli affranta dal dolore vuole farti sapere che sei stato imo dei suoi figli migliori e che non ti scorderà mai. Addio Totò, addio».
Terminato il rito, a causa dell’enorme folla — si calcola che circa centocinquantamila napoletani, dalla Doganella alla Basilica del Carmine, abbiano reso l’estremo omaggio alla salma di Totò — il feretro è stato posto subito a bordo del furgone, che, preceduto da camionette della polizia, si è diretto al cimitero del Pianto.
La salma di Totò è stata tumulata nella cappella gentilizia della famiglia De Curtis alla presenza dei familiari dell’attore e di pochi intimi. Molti napoletani avevano inviato direttamente al cimitero corone e cuscini di fiori. Cinque persone sono rimaste ferite nella calca.
«La Gazzetta di Mantova», 18 aprile 1967
La scomparsa di Totò, occasione mancata per il cinema italiano
Tra le riflessioni espresse nel corso dell’apposita trasmissione televisiva, la sera stessa della scomparsa di Totò, la più pertinente ci è sembrata quella formulata da Anna Magnani. L’attrice ha detto pressapoco così; «Mi piacciono molto le cose che voi state facendo — e che si faranno — per Totò, ora che è morto. Ma sarei assai più soddisfatta se si fosse fatto qualcosa di più per lui, quand’era vivo. Totò era un grande attore, ma il suo ingegno, le sue enormi possibilità non sono state sufficientemente servite ed aiutate. I films che egli ha fatto si impongono solo per la sua presenza, non per altro. Egli aveva progetti ambiziosi, ma i produttori non l'hanno assecondato. Da tempo sognava di interpretare la figura di Don Chisciotte; ne sarebbe venuta una cosa immensa, un capolavoro. Ed invece no. E’ morto senza poter realizzare il suo sogno».
E’ questa, ci sembra, la ragione che accentua il rimpianto e la tristezza per la morte di Totò, l’ultima grande maschera della tradizione ita. liana. Con la sua comicità istintiva e meccanica, tra l’astratto e il burattinesco, ha divertito il vasto pubblico delle nostre platee, anche la gente più semplice, aiutandoci a sopportare meno faticosamente la pena del vivere.
Di questo dobbiamo esser, gliene grati. Ci resta però il rammarico che egli non abbia potuto dare allo spettacolo e al mondo del cinema qualcosa di più valido sul piano artistico e culturale, qualcosa che egli ha lasciato intravvedere sempre, anche nella interpretazione dei personaggi più sciatti e banali, e che ha espresso compiutamente le poche volte che il copione glielo ha consentito.
Ricordiamo di lui solo tre films, che certamente sono tra i suoi più importanti: «Guardie e ladri» (1951) di Steno e Monicelli, che gli procurò il primo Nastro d’argento, «I soliti ignoti» (1957) di Monicelli e «Uccellacci e uccellini» (1966) di Pasolini, che gli meritò significativi riconoscimenti anche all’estero.
Nel primo film menzionato Totò impersona la figura di un povero ladro per necessità e in chiave comico-umoristica sottolinea l’universale dimensione di questo piccolo «umiliato ed offeso». Era questo il suo mondo, l’interiorità del personaggio che egli ha portato sul palcoscenico e nei films: s’intravvedeva in lui una umanità semplice e dimessa, rattenuta da tratti inconfondibili di signorilità e distinzione, costretta per vivere a piegarsi ai piccoli inevitabili compromessi che non cancellavano l’intima dignità dell’uomo.
La perfetta, inimitabile caratterizzazione del «modesto professionista dello scasso in pensione» che egli ci dà ne «I soliti ignoti», forse il capolavoro dell’autentica comicità italiana si colloca su questa linea. Viene spontaneo il richiamo al grande clown della schermo, a Charlot: ma Chaplin ha avuto dalla sua la fortuna necessaria e, diciamo pure, la sufficiente fiducia in se stesso per trarre dal suo personaggio tutte le enormi e latenti possibilità espressive. Totò invece no, i produttori non l’hanno capito — forse neppure il pubblico ha saputo sempre apprezzarlo per quello che valeva — e tutti lo hanno sfruttato. Egli stesso, stando ad alcune sue recenti dichiarazioni, non ha avuto sempre la consapevolezza dei propri mezzi, pensava all’inizio si trattasse di un successo superficiale e passeggero ed ha cercato di utilizzarlo al massimo, mostrando, si arrendevole con gli uomini del cinema e con il pubblico. Ultimamente però ne soffriva, si rendeva conto di aver sbagliato. E’ stato forse l’incontro con Pasolini, un regista molto impegnato e poco corrivo ai gusti della produzione consumistica, a persuaderlo delle sue capacità non valorizzate. Pasolini lo aveva inserito con naturalezza nello svolgimento della sua parabo. la ideologica, senza togliergli nulla di quello che era più autenticamente suo e nello stesso tempo aprendogli nuove prospettive entro le quali il suo personaggio avrebbe a. vuto ancora parecchio da dire. E Totò si riprometteva di seguire la nuova via.
Ma forse era troppo tardi. La morte gli ha tolto quest’ultima illusione, lasciando al cinema italiano la responsabilità di questa ulteriore occasione mancata.
f. b., «Il Popolo», 20 aprile 1967
L’attore comico Totò è morto la sera del 15 c. m. alle ore 3,30 nella sua abitazione di via Monte Parioli 4, fulminato da un infarto. Il principe Antonio De Curtis Gagliardi Ducas Commeno di Bisanzio (questo era il vero nome e il titolo gli era stato riconosciuto dopo una lunga vicenda giudiziaria) aveva avvertito i primi leggeri sintomi del malessere nella giornata precedente. Il medico, prof. Guidotti, che lo aveva visitato, aveva riscontrato i sintomi di una leggera influenza e qualche difficoltà respiratoria, attribuita peraltro all'eccessivo fumo di sigarette che Totò faceva abitualmente. Verso le 22 le condizioni si sono aggravate e alle prime ore del giorno successivo, nonostante l’intervento immediato del medico, Totò ha cessato di vivere. Era nato a Napoli il 15 febbraio del 1897 (4).
«L'Unione Monregalese», 22 aprile 1967
I cani randagi di Totò
L'attore fu un appassionato e generoso cinofilo. Da parecchi anni il principe De Curtis manteneva (si calcola abbia speso almeno cinquanta milioni) centinaia di cani raccolti per la strada - Ora il canile è stato chiuso; i quattordici animali rimasti sono stati affidati, per adesso, ad una signora che ne avrà cura
Roma, 22 aprile.
L'«Ospizio dei trovatelli», dove Totò salvò dalla camera a gas centinaia di cani randagi, spendendo in pochi anni una cinquantina di milioni, è chiuso. Gli ultimi quattordici «orfanelli» sono stati affidati ad una signora che ne avrà cura. D'ora innanzi, passando dinanzi al cancello di via di Forte Boccea, nessuno udrà più abbaiamenti. Tutto è finito l'altro giorno al cimitero di Poggioreale, quando il popolo napoletano ha accompagnato Totò alla sua tomba. Quanti sanno che Antonio Angelo Flavio Comneno Lascaris De Curtis, principe imperiale di Bisanzio, fu uno dei cinofili più appassionati d'Italia? «Debbo sdoppiarmi continuamente — mi disse un giorno — per sostenere due ruoli. Totò, maschera, mimo, comico, lavora come un dannato per mantenere il principe con tutte le sue esigenze. Tra queste una delle più impegnative e quella dei cani, che mi succhia no un mucchio di quattrini. Ma, capirai, "noblesse oblige "».
Il 3 giugno I960 la signora Mariolina Mariani, di cinquantadue anni, accese una candela mentre stava preparando la zuppa ai suoi cani, raccolti qua e là, nel villaggio di San Francesco. La candela, cadendo a terra, appiccò il fuoco alle vesti della donna. I cani cercarono di liberarla con i denti dai brandelli di stoffa ardente. Ma Mariolina mori poco dopo all'ospedale. Dei cani si occupò la signora Elide Brigada, che in via di Forte Boccea, verso Ostia, si prendeva cura di un altro gruppo di bestiole abbandonate. La donna consumò in quest'opera tutti i risparmi.
Una mattina comparve Totò, accompagnato da Franca Faldini. Si fece raccontare com'era finita Mariolina e come la signora Brigada era rimasta senza un soldo per amore dei suoi «trovatelli», alla fine disse: «A questi cani penso io». Erano una settantina. Da quel giorno il principe passò molte ore nel canile. Lo fece tinteggiare di celeste; badò che la zuppa fosse sempre buona; assistette alla visita medica fatta dal veterinario Vincenzo Masci ai malati. In breve i «trovatelli» diventarono centosettanta. Ogni tanto qualche cinofilo andava al canile municipale; si faceva consegnare alcuni animali condannati alla vivisezione; li portava all'asilo di Totò; se ne andava fidandosi del «cuore del principe». Totò diceva agli amici: «Aiutate i miei trovatelli, se lo meritano. Sono brave persone e non ci hanno disingannati. Ma nessuno, che io sappia, fece qualche cosa di concreto.
Quando si trovava al canile, Totò parlava spesso di «Dick». Era un lupo che l'attore aveva tenuto con sé per dieci anni. «Dick» morì proprio mentre il principe cominciò ad ammalarsi agli occhi e si temette per la sua vista. La Faldini gli nascose per molti giorni la morte del cane. Quando seppe che «Dick» lo aveva lasciato, l'attore sembrò sopraffatto dalla malinconia. Recitava spesso sommessamente una poesia che aveva composto per il suo lupo. Accadde poi che la Faldini portò in casa «Peppe», un barboncino nero. Quando Totò se lo trovava fra i piedi, mostrava di non vederlo. Era geloso del nuovo cane che aveva preso il posto dì «Dick». Un giorno «Peppe» s'ammalò di cimurro nervoso, fu sul punto di morire. Totò entrò per caso nella stanza dove agonizzava; «Peppe», come tutti i bravi cani, trovò un po' di forza per levarsi in piedi sulle gambe vacillanti; il padrone, che non l'aveva mai accarezzato, gli battè sulla testa dicendogli sottovoce: «Fai il bravo, Peppe, che guarirai» Il barboncino si salvò.
Totò sapeva tutto dei «trovatelli» accolti nel canile, c'era Jack che senza una ragione era stato cacciato di casa dai padroni ; tornò dieci volte; sempre fu rimandato via a bastonate. Stette tre mesi senza abbaiare. Il veterinario Masci pensò che qualche malvagio gli avesse bruciato le corde vocali. Un giorno riabbaiò mentre gli medicavano un orecchio. Leone, un altro cane, sfuggì ripetutamente alla camera a gas, nascondendo il muso fra il pelo dei compagni morenti e cercando di respirare pochissimo. I guardiani del canile lo rimisero in libertà, dopo averlo trovato per la terza volta stordito ma vivo fra un mucchio di morti. La storia di «Arro», pastore tedesco, sembrava a Totò la più patetica di tutte. Il padrone, un medico, lo aveva addestrato a far la guardia all'automobile, quando si allontanava. Il medico morì. Gli eredi regalarono «Arro» ad un amico. Questi mise la bestia nella propria vettura. Giunto dinanzi ad un tabaccaio, scese per comperare le sigarette. Non potette più risalire in macchina. Il cane, che non conosceva il nuovo padrone, si regolava come ai tempi del medico morto. Buscò tante bastonate che rimase cieco. Totò lo volle nel suo «ospizio»; lo fece curare; a poco a poco la bestia cominciò a vedere.
Arnaldo Geraldini, «Corriere della Sera», 23 aprile 1967 «Il principe che amava gli animali»
Gianni Ranieri, «Il Nostro Tempo», 23 aprile 1967
«Il Popolo», 23 aprile 1967
Agli «Incontri del cinema» premio in nome di Totò
Roma, 29 aprile.
Totò sarà ricordato con un premio annuale, da assegnarsi all’attore dell’anno. Lo ha annunciato Gian Luigi Rondi, direttore degli Incontri internazionali del cinema di Sorrento. Il Premio Antonio De Curtis, che consisterà in una statuetta d’oro raffigurante Totò, sarà votato da una giuria composta dagli attori e dai critici membri del consiglio d’onore degli Incontri del cinema.
«Corriere della Sera», 29 aprile 1967
Totò doveva pagare trecento milioni al fisco
Pochi giorni prima della morte, aveva versato la prima rata del suo debito: tre milioni - Adesso il resto della grossa cifra è stato dichiarato inesigibile: nessun bene patrimoniale è intestato al nome del principe De Curtis
«Corriere della Sera», 12 maggio 1967 - «Il fisco contro Totò: scetticismo per la notizia che sia morto povero»
«Napoli notte», 16 giugno 1967
In lui convivevano i personaggi della commedia dell’arte, la vis comica di Petrolini e le esperienze del surrealismo francese
E’ triste, tristissimo. Il 1967 aveva visto coronato il trionfo di Totò attore di cinema e ne ha visto anche la morte. Sono dinanzi ai nostri occhi, mentre scriviamo, le due cerimonie - quella dei Nastri d'Argento di Firenze e quella dei Globi d'Oro a Roma - durante le quali i giornalisti cinematografici italiani e l’Associazione della stampa estera avevano offerto al grande mimo il premio per la «migliore interpretazione dell'anno» in "Uccellacci e uccellini" di P.P. Pasolini. E’ vero che il poeta-regista era riuscito a decantare i lazzi di Totò, a sintetizzarli, e nel film il personaggio da lui interpretato aveva acquistato una dimensione universale, affiancandosi a quelli esaltati dai maggiori comici mondiali. Ma i Nastri d’Argento e i Globi d'Oro giungevano anche ad offrire a Totò, dopo il «Nastro» vinto nel ’51 per "Guardie e ladri" di Monicelli, una memoria delle sue prestazioni trentennali nel dominio del cinema.
Lo ricordiamo affettuosamente spinto sul palcoscenico a Firenze e a Roma — l'incipiente cecità ed un singolare pudore lo vedevano tentennare nelle cerimonie pubbliche — e ritrovare d'incanto, di fronte al microfono e alle domande di Lello Bersani, tutta la sua baldanza. Lo spirito beffardo e la cordialità umana dell’attore riaffioravano dietro la maschera del corretto gentiluomo ed una «battuta» semplice ed aguzza ad un tempo, pronunciata dimessamente, senza slanci mattatoriali cioè, avevano il potere magico di elettrizzare una platea unita in uno scroscio di applausi.
Il debutto nel 1937
Aveva avuto questo potere, che è dei grandi comici, di mostrane i difetti umani, satireggiandoli, muovendo al riso le platee di tutto il mondo, fin dal lontano 1937 quando Gero Zambuto lo aveva convinto ad entrare nel regno della celluloide con "Fermo con le mani". Un ingresso modesto e sbilenco. se si vuole, col quale, tuttavia. Totò poteva dimostrare che anche la settima arte si addiceva alla sua straordinaria mimica espressiva. "Animali pazzi" di C.L. Bragaglia, successivamente, in un contesto surreale, serviva a puntualizzare su quali strade il comico napoletano avrebbe potuto marciare, se ben indirizzato. Perché nel suo volto cavallino e nel suo corpo stentato e burattinesco i personaggi affamati dalla commedia dell'arte italiana si mescolavano con quelli. pungenti, portati sul palcoscenico e sullo schermo da Petrolini ed intorno ad essi una aria vagamente charlottiana circolava insieme agli umori recati dalla letteratura e dalla cinematografia surrealiste francesi.
Si è sempre ripetuto che tutte queste esperienze fossero state inconsapevolmente assorbite dal comico. Che l'istinto nativo, cioè, poppato con il latte della scuola napoletana, fosse la sola radice culturale dalla quale l'attore ricavasse i succhi della sua portentosa mediazione con il pubblico. La verità, forse, sta nel mezzo. E le sue dichiarazioni, riportate lungo gli anni, stanno a dimostrare che l’istinto non era il solo protagonista della sua storia di attore.
Dopo le sue prestazioni in "San Giovanni decollato" di Amleto Palermi e nell'"Allegro fantasma" dello stesso regista solo nel dopoguerra, e precisamente nel 1948, Totò tornò sulla tela con "Fifa e arena" di Mario Mattoli, con "Yvonne la nuit" di Giuseppe Amato, con "L’Imperatore di Capri" di Luigi Comencini. E' da questo momento che per il Totò cinematografico hanno inizio, insieme, le fortunatissime avventure e il cammino malcerto. D pubblico corre più spesso dietro ad un solo lato della sua multiforme personalità : quello pupazzesco e spesso gratuitamente volgare.
Gli anni cinquanta segnano il trionfo di Totò. Immesso in vicende grossolane, di pronta cassetta. Totò infila, come un rosario, una pellicola dietro l’altra. Sono gli anni di "Totò cerca moglie" e di "Totò sceicco", di "47, morto che parla" e di "Totò terzo uomo", di "Totò e i Re di Roma" e di "Totò a colori", di chi più ne ha più ne tenga.
Le variazioni su temi limitati sono solo a sprazzi riscattate dallo straordinario estro mimico dell'attore. Ma sono anche gli anni di "Napoli milionaria", di "Guardie e ladri" (smozzicato dalla censura), di "Dov’è la libertà", di "Tempi nostri", dell'"Oro di Napoli". Ogni tanto, cioè, indirizzato da registi come Eduardo De Filippo e Mario Monicelli, come Roberto Rossellini, Alessandro Blasetti e Vittorio De Sica, l'attore sa «ritrovarsi» nella sua umanità ora beffarda ed ora patetica e sa contribuire con il suo sottile spirito d’osservazione psicologica a rendere indimenticabili i personaggi da lui creati. Ai film che abbiamo nominato vanno uniti, accanto ad una serie di avventure di poco conto, "Siamo uomini o caporali" e "I soliti ignoti" di Mario Monicelli.
Le ragioni del declino
L’avidità dei produttori e il sopraggiungere di Alberto Sordi e di Franchi e Ingrassia segnarono il declino di Totò nei confronti del pubblico. La sua attività cinematografica, considerato anche il suo precario stato di salute, s'era negli ultimi anni diradata. Ma ogni volta che la sua bazza sporgente e la sua andatura dinoccolata, come recentemente nella "Mandragola" di Lattuada e in "Operazione San Gennaro", riapparivano sullo schermo gli spettatori tornavano ad amare e ad ammirare il loro Totò, cosi splendidamente italiano e così splendidamente universale nella sua carica di umiliato e offeso, pronto a trovare tutti i mezzi per difendere la sua giornata, per sottrarsi a tutti i costi alle ingiustizie, conservando un'interiore pulizia ed un dolente bisogno di poesia.
A Cesare Zavattini, in tempi lontani, egli dichiarava: «Adopero spesso le parole "surreale metafisico” e non arrossisco nel dirle. Per me vogliono dire fantastico come lo avrei fatto a dieci anni. Credo che i cartoni animati siano surreali e metafisici nel mio senso un po’ ingenuo ».
Nel recente episodio di P.P. Pasolini nelle "Streghe" su questa strada lo aveva immesso il regista del "Vangelo": una figurina da «Corriere dei piccoli», introdotto in singolari avventure. Pasolini (con il quale ave va di recente «girato» un episodio di "Capriccio italiano", «Che cosa sono le nuvole? ») e Fellini dovevano tornare e iniziare. rispettivamente l’uno e l'altro, una collaborazione con il grande attore che, di sicuro, ci avrebbe procurato nuove sorprese. Perché, tutto somma to, Totò aveva donato tanto ma forse non tutto, come, nonostante gli anni e gli acciacchi, avrebbe voluto dare. Proprio come avviene agli attori di razza.
Aldo Scagnetti, «Paese Sera», 16 aprile 1967
Pasolini: «volevo farne un Re Magio randagio...»
Pier Paolo Pasolini si trova attualmente in Marocco, per girare il film «Edipo re». Siamo stati noi a dargli la notizia della scomparsa di Totò. Erano le 19.30 quando lo abbiamo raggiunto, telefonicamente, a Quar Zazate. Sconvolto. Pasolini ci ha donato queste poche righe:
Spero che il lettore di Paese Sera possa immaginare lo stato d'animo in cui io mi trovo. E' assurdo che lo riesca a dire qualcosa di sensato. In questi ultimi due anni ho lavorato quasi ininterrottamente con lui; l'ultima volta l'ho visto, felice, in una serata in cui lo premiavano.
E' stato sottratto alla nostra vita, come se fosse stato rubato. Alla mia, come una parte di me stesso, quando dovevamo lavorare ancora insieme quattro o cinque episodi che dovevano formare un intero film.
lo ho già immaginato a una a una tutte le facce che egli avrebbe fatto nelle vesti del Re Mago randagio, un Re Mago arrivato in ritardo al presepio per le mille peripezie e le mille buone azioni compiute e, quando arriva davanti al presepio, ormai vuoto, muore di stenti e di stanchezza e un angelo lo prende per mano e lo porta in paradiso ballando al suono di una musica di Mozart.
Pier Paolo Pasolini, «Paese Sera», domenica 16 aprile 1967
Una grinta che sarà impossibile dimenticare e che raccontava tutta la saggezza e l'infausta deformità dei vichi napoletani.
Per i giovani Totò non può significare altro che cinema; cosi come per i meno giovani egli è soprattutto un grande comico di rivista quale seppe dare al genere senso di cattiveria e di sarcasmo negli anni oscuri del fascismo e subito dopo, fra il ‘41 e ii ‘49. quando il pubblico fu trascinato dalla sua maschera famelica e dalle sue assurde, e irriverenti invenzioni mimiche negli spettacoli scritti per lui da Galdieri. Fra l’altro, non bisogna dimenticare che Totò, con l’aria di non aver fatto nulla di serio per il teatro e, con la schiva modestia che fu sempre il suo tratto di distinzione, è invece l'attore al quale dobbiamo uno dei momenti più felici e più «popolari» dello spettacolo di arte varia o, come oggi si dice, della rivista.
Chi ancora ricorda "Quando meno te l’aspetti", o "Volumineide" o "Con un palmo di naso", sa bene che la «rivista italiana», frizzante, gioconda, funambolica e sghignazzante, raggiunse il massimo della rispondenza delle platee solo per merito suo. E per meriti, bisogna aggiungere, non ancora attribuibili a contaminazioni più o meno asettiche d’oltreoceano.
In quegli anni, infatti, il gusto newyorkese dello spettacolo folies era sconosciuto in casa nostra. I mimi, i macchiettisti linguacciuti, i fantasisti e le maschere, gli acrobati, i fini dicitori e le cantanti di petto e di «bella anca» erano l'unico patrimonio della nostra rivista. E ci si lavorava a braccio, tirandosi su le maniche e cercando di spremere il meglio di se stessi, di stabilire insomma col pubblico un contatto diretto, autentico, elementare.
Tutta un’altra faccenda, per farla breve, dal successivo "grand spectacle" a base di gambe-gambe-gambee, che ebbe e ha in Garinei e Giovannini i suoi più scaltriti animatori. Senza voler mettere in discussione la validità di questo nuovo e più vistoso spettacolo alla Broadway e senza nulla togliere alla commedia musicale e coreografica, è certo che il solo a dir cose piacevoli, pungenti e interessanti in termini di rivista popolare all'italiana fu proprio Totò. Quanti furono, per esempio, ad accorgersi di quella specie di colpo basso sferrato da Totò al nazismo, mentre recitava e mimava a Roma, in piena occupazione tedesca, "Che ti sei messo in testa?" Si deve a Totò (e, naturaalmente, anche al povero Galdieri che gli stava alle spalle fornendogli spunti e malizie) se quello spettacolo riuscì a mettere alla berlina gli occupanti, presentandoli per quel che essi erano, senza troppi peli sulla lingua.
La storia di una maschera
Ma Totò, grande e sbilenca maschera dell'antica fame partenopea, ha una a storia che comincia molto prima, in un'epoca di cui non fummo testimoni e che abbiamo ritrovata — come un manoscritto chiuso in bottiglia — proprio l’altra sera, al Valle, in "Napoli notte e giorno" di Raffaele Viviani. Non si può intendere niente dell'attore scomparso, se non lo si restituisce a quelle stesse origini; all’«universo straccione» epicizzato da Viviani e prima da Scarpetta, reso coloritissimo e parodistico dai Maldacea o dai De Marco, con le sue canzoncine, i suoi sberleffi e ghiribizzi, il suo senso esplosivo della pantomima e della caricatura al vetriolo.
Non è certamente un caso che Totò, dopo le prime oscure prove nella città natale, cominciò «la carriera» nel 1917 allo Jovinelli di Roma con un repertorio nel quale si ripetevano, in chiave dì smorfia e di imitazione, certe invenzioni marionettistiche del De Marco. Fin da allora (con Il bel Ciccillo, Il gagà, Biondo corsaro), veniva già definendosi l’immagine del personaggio: una maschera disarticolata, un eroe meschino dell’antico teatro dei pupi, un picaro in perenne e indomita battaglia con l'ordine costituito, con la decenza e la morale e la legge dei «ricchi».
Una faccia sbalorditiva
Nel 1922, alla Sala Umberto, Totò si era già perfettamente identificato allo specchio, facendo della sua faccia sbalorditiva uno strumento feroce di comicità. Era soltanto un «fantasista» ma, come si può leggere anche nei manuali di storia teatrale, si presentava subito in qualità di aggressore, di ridevole e dolente testimonio di accusa: una bombetta bisunta, un tight sgraffignato a qualche straccivendolo, calze scarlatte a righe, brache da bracalone pezzente; e quella faccia di marmo a fette, quei movimenti delle mandibole irresistibili, quella risata più simile a una ferita, quella «grinta» che sarà impossibile dimenticare perché diceva tutta la saggezza e l’ingiusta deformità dei vichi napoletani.
Nasceva allora il Totò che abbiamo amato. Nasceva dai cortili plebei di Toledo e del rione Carità, di Forcella e di Porta Capuana, dalla razza con la pancia vuota e la beffa facile, dal teatro di «sceneggiata» e di circo, dall’antico ceppo volgare che comincia con lo Zanni e con Pulcinella e che dalla commedia dell’arte si perpetua nel «varietà di fuorivia», nello spettacolo di irrisione popolare.
In tal senso, Totò ebbe un suo ruolo, forse minore ma irripetibile; e comunque non va dimenticato che egli fu macchiettista per quasi un trentennio. per quasi una vita. Venne poi il cinema, il successo, la vecchiaia. Oggi la morte. Non potremo più ridere per merito suo e solo oggi ci accorgiamo che gli dobbiamo tutti qualcosa.
Alfredo Orecchio, «Paese Sera», 16 aprile 1967
Napoli piange il suo attore
Totò è nato qui, al rione della Sanità
Tra la gente che lo vide giovane e applaudì al «Partenope» i primi successi artistici • Una voce corre tra i vicoli: «Si informano per l'eredità» • In casa dei cugini del principe Antonio De Curtis
NAPOLI, 16
Via Santa Maria Antesaecula alla Sanità. Una strada popolare, botteghe dall’uno e dall'altro lato, di artigiani e di alimentari, e «bassi», tanti «bassi» con tanta gente. E in alto, da una finestra all'altra, distesi come tanti festoni, i panni allo sciorino; e carrette a carrettini con frutta e verdura e cesti di pesce. La Napoli popolare, insomma. E’ come quando Totò vi nacque, in quel quartierino del primo piano al numero 106, composto di tre stanze disadorne e scarso mobilio.
Via Santa Maria Antesaecula è rimasta la stessa di settanta anni fa, forse la stessa di prima di settanta anni fa, o anche di cento. Non è cambiato nulla, se non forse, qualche tubo di neon al posto della lampadina elettrica.
L’ultimo ricordo di Totò in questa strada risale alla fine del 1965, quando l'indimenticabile attore vi giunse per una ripresa di "Tivusette" a bordo della sua macchina, lamentandosi, tra una folla di popolani festosi, che non riusciva mai a consumare un paio di scarpe, pur avendone tante, giacché era costretto ad andare sempre in macchina. Una battuta di spirito cui, per altro, seguì la tanto desiderata passeggiata, cominciando proprio dall'antico palazzo in cui abitava, vecchio e diruto, che egli, fattosi improvvisamente serio, si era soffermato a guardare a lungo, certamente sopraffatto da tanti pensieri e tanti ricordi.
Vincenza Rippa, coetanea di Totò, proprietaria della panetteria accanto al palazzo, lo ricorda cominciando dall'ultima volta che lo ha visto: «Mi avvicinai a lui e gli dissi: Ti ricordi, Totò, quando eravamo ragazzi? Io sono Vicenza, 'a figlia d' 'o farenaro... ».
«Si che mi ricordo, Vicenzina bella.. E tu si Maria 'a guantaia, tu si Nanninella 'a figlia 'e gentiello. Site belle come 'na vota... ».
Era considerato perfino bello
«Vicenza» è un diluvio: «Io gli portavo, tanti anni fa, i fiori quando recitava al "Partenope" a via Foria, io ero sempre in prima fila al teatro e ricordo la cantava con successo: «"Si bella Fofò... cantava con successo: "Si bella Fofò... grazie, lo so'" ». Perché Totò, pur magrissimo e con quel mento sporgente da un lato che, qualche volta — ci dicono — copriva col fazzoletto, era considerato bello dalle ragazze del quartiere di cui egli era il beniamino.
«Andava in giro in paglietta e bastoncino e recitava — dice donna Vicenza — recitava sempre in casa, per la strada, al caffè. La sua giovinezza è stata tutta una recita».
Si è fatto intanto un capannello attorno a noi e ognuno vuol raccontare qualcosa. Giuseppe Riccioli, panettiere, ha fatto le elementari con Totò. Si ricorda benissimo colui che, tra il 1912 e il 1914, fu il maestro di Totò: il comico Gustavo De Marco. Era questi che usava coprirsi il capo con una paglietta e tenere in mano un bastoncino di bambù. E Totò, tanto fanatico di lui, lo imitava, finché De Marco non lo volle con sé, a fare delle imitazioni al «Trianon» e all'«Orfeo», vecchi teatri di avanspettacolo della Napoli primo-anteguerra, quando ancora il gusto per questo tipo di spettacolo non aveva subito un fiero colpo.
Non ci ha mai dimenticato
Don Peppino Riccioli gli era amico e, come tale, non gli invidiava nulla, se non la fortuna che Totò aveva con le donne. «Piaceva a tutte ed ognuna faceva a gara per conquistarlo. Ma lui scherzava e non saprei dire se si sia veramente innamorato di qualcuna. Forse, dì Menechella, tuttora vivente (una Venere, afferma), forse Vincenza Santoro, ora defunta, di cui amava parlare spesso e con enfasi. Totò — conclude don Peppino — era fin da allora una macchietta ».
Anna Emilio, quasi coetanea di Totò, si fa avanti: è una pizzaiola. «Totò non era ricco, allora, ma era egualmente generoso. A me che gli auguravo sempre tanta fortuna offriva il gelato. Ed anche io andavo con donna Vicenza Rippa e tutte le altre ragazze al "Partenope" a spellarmi le mani per lui. Noi della Sanità gli abbiamo tributato i primi successi, noi gli abbiamo sempre voluto bene, Io abbiamo messo sulla strada della gloria artistica...».
E’ un coro di elogi, di rimpianti, di affetti non tutti esplosi come avrebbero dovuto, giacché quei popolani l’hanno conservato in cuore e quasi vorrebbero farlo esplodere ora che Totò non c’è più. Altre voci si levano: «Non si è dimenticato mai di noi»; «Era un benefattore e lasciava sempre a noi, povera gente, un po’ di denaro»; «Abbiamo tanto bisogno», La folla si ingrossa e oramai non riusciamo più ad ascoltare interamente le espressioni, perché tutti vogliono dire qualcosa di Totò. D’un tratto si crede di capire che è arrivato lì qualcuno (cioè noi) che si sta informando per l'eredità di Totò. E non abbiamo potuto fare a meno di lasciarci accompagnare dai «parenti» del compianto Antonio De Curtis, ci dicono dei cugini, i quali, appunto, si chiamano De Curtis. Lasciamo fare e andiamo.
Vico Tronari, ai Cristallini, qualche centinaio di metri più avanti. Al confronto, la descritta via Santa Maria Antesaecula sembra un boulevard parigino. Al numero 9, un palazzetto che sembra venir fuori dalle macerie contorte di un terremoto. c'è mezzo (sgangheratissimo) portoncino chiuso in segno di lutto e su un pezzetto di carta incollata, con la scritta: «Chiuso per la morte del principe Antonio De Curtis».
E’ rimasto nel cuore di tutti
Ci spingono a salire sopra, tra scale e scalette prive di soglie che si intrecciano, tra improvvisi varchi da cui si ode il pianto di bimbi, ed accediamo per un antro buio che dovrebbe essere una casa. Lì, appunto, abitano Gennaro De Curtis — il quale è assente — con i figli Giovanni, Rosaria, Concetta, Antonio, Ciro. La madre non c’è; è morta sette anni fa. E' assente pure un'altra figlia che è sposata. Parlano i figli di Gennaro De Curtis e ci assicurano che Totò era loro zio. E ci mostrano delle foto di Totò, con affettuose dediche e ci dicono che lui li aveva sempre aiutati, che li voleva bene. Ora sperano.
E sperano anche Mario ed Elmerinda De Curtis, fratelli di Gennaro De Curtis; dicono anche loro di essere cugini dello scomparso, Anch’essi sono povera gente, come del resto quasi tutti quelli del vasto e popoloso quartiere della Sanità. A fatica riusciamo ad andarcene.
Totò, lì, è rimasto nel cuore di tutti, cosi come Totò stesso disse una volta, che il suo cuore era rimasto lì, alla Sanità, in via Santa Maria Antesaecula, dove quando egli usciva, paglietta in testa e bastoncino in mano, magrissimo, raccoglieva i sorrisi delle belle ragazze alle finestre o davanti ai «bassi», rispondendo loro con un inchino e con una levata di paglietta, senza riuscire a non essere buffo, amorevolmente buffo, nonostante i suoi sforzi.
Luigi Ricci, «Paese Sera», 16 aprile 1967
Ritratto di Totò alla TV
Rievocazione col nodo alla gola
A volte la televisione, dopo orge di spettacoli di varietà di dubbio gusto, telefilm insensati, dopo telegiornali che se ne infischiano dei reali interessi e delle curiosità dei telespettatori, a volte, dicevamo, scopre la sua funzione, diventa attualità, penetra con il suo occhio candido, impietoso, ingenuo, con il suo occhio vero, con il suo occhio che è testimone, nella realtà. E coglie le emozioni che trascorrono, senza finzione, ferma momenti, puntualizza, senza forzare la mano, gli avvenimenti. E’ morto Totò. E una edizione speciale di «Prima Pagina» è stata dedicata da Pietro Pintus alla scomparsa di questo grande attore. Attraverso le testimonianze, i brani di film, gli sketches, abbiamo rivisto quel grande viso che è nato per le strade, quel grande comico che aveva l’autenticità del poeta nato, e un amore esclusivo per l’arte, una infinita capacità di umorismo e insieme una regalità naturale.
«Ventotto anni fa iniziai la mia carriera come attore, ed egli era già un maestro» ha detto Tognazzi iniziando. Niente era preparato. Tognazzi ha parlato a ruota libera. Ha detto cosa pensava. Ed ecco l’emozione genuina rampollare dalle sue parole. Ora Tognazzi ha accettato di sostituire Totò in un film. Certo: niente si ferma, il mondo dello spettacolo prosegue, tiene conto del passaggio di Totò, ma prosegue.
Ed è cominciata la collana di rievocazioni di alcune grandi interpretazioni di Totò. E’ cominciata con 'O Pazzariello da «L’oro di Napoli». Si dice che il grado di civiltà di una cultura si misura sulla qualità della sua produzione artistica. Ebbene, la nostra civiltà è una civiltà non in decadenza finché ci sono uomini come Totò a farne da testimoni. Molti, oggi che è morto, oggi che rivedono commossi i brani dei suol film alla TV, o le sue pellicole sparse qua e là nei cinema, nelle sale rionali, ripescate per fare una serata, molti ieri sera e oggi si sono accorti che Totò era qualcosa di più di un comico per spiriti sempliciotti; quasi tutti oggi parlano di lui con il rispetto e la gravità dovuta all’arte.
Ma ieri, chi era Totò? Quali sono i film che in tanti lustri di carriera gli sono stati affidati? Quali speculazioni commerciali sono state organizzate sul suo nome? Ieri sera alla televisione abbiamo visto un grande attore, e che fosse un grande attore lo hanno testimoniato gli intervenuti: un grande attore, pur con tutte le sue scintillanti contraddizioni. Ma allora perché non lo hanno mai elevato all adignità di un grande film? Perché tanti altri sì, e lui no. Certo, per molti in questo momento ci saranno dei rimpianti postumi, ma è quanto è affiorato dalla profondità di molte coscienze vedendo la trasmissione televisiva di ieri sera. E possedeva l’autenticità del poeta nato: ricordate la poesia che ha recitato ieri sera Nino Taranto, una poesia straordinaria, che ti lascia con gli occhi bassi e il nodo in gola.
La trasmissione televisiva, si capiva, era stata costruita in fretta, e forse per questo era più autentica. E non si sono viste lacrime, scene madri. Solo il commosso rimpianto. L’apparizione di Anna Magnani. Se ne stava lì con i suoi grandi occhi di chi sa tante cose, i suoi grandi occhi di chi vorrebbe dire ma non è questo il momento, i suoi grandi occhi di chi sa parlare da anima, ad anima, coi suoi grandi occhi. Si è chiesta: perché lo hanno ignorato per tanti anni? Si è chiesta: perché non gli hanno permesso di fare le cose importanti che egli voleva fare? Si è chiesta: perché non lo hanno aiutato a diventare un dei più grandi e famosi attori di questi anni? Ma ormai Totò è scomparso e le domande di Anna Magnani suonavano solo come rimpianto.
E la trasmissione televisiva è proseguita, inframezzando brani cinematografici ad altre interviste. Non ha creato facile commozione nei telespettatori, certo. Ma è servita a ricordare. E agli uomini di spettacolo, gli stessi che proseguono perché debbono proseguire, perché il cinema non si ferma, a loro ha detto: chinate la testa per un attimo, è morto un maestro.
Dario Argento, «Paese Sera», 16 aprile 1967
Se foste arrivati a Napoli il pomeriggio del 17 aprile 1967, avreste trovato difficoltà a entrare in città: c'erano i funerali di Totò e 100.000 persone radunate davanti alla basilica del Carmine Maggiore. Il grande attore era morto a Roma, dove viveva da molti anni, alle 3.25 del mattino del 15 aprile. Aveva 69 anni: era nato a Napoli il 15 febbraio 1898. Le ultime parole furono per la compagna di vita, Franca Faldini: «t'aggio voluto bbene, proprio assai». Poi il cuore, provatissimo, se lo portò via. Totò era in cattive condizioni di salute da anni: quasi cieco, si era rovinato gli occhi per colpa delle luci necessarie a illuminare i set in technicolor. Quel giorno la sua città lo pianse come era giusto.
Nino Taranto lesse una toccante orazione funebre, in piazza diverse persone svennero credendo di vedere Totò vivo (era la sua abituale controfigura, l’attore Dino Valdi, addolorato quanto gli altri). Il 22 maggio del ‘67 ci fu un secondo funerale, voluto da un capo guappo della Sanità che pretese di rendere omaggio a Totò nel quartiere dove era nato: tutti sapevano che la bara era vuota ma vennero in tanti. Per un grande come Totò, morire due volte era il minimo. In fondo, per chi lo ama come noi, non è mai morto.
Alberto Crespi, «L'Unità», 11 aprile 2007
Si è fermato un grande cuore
L'ultimo grande erede della Commedia dell’Arte è tornato alla sua Napoli chiuso in una bara. Alla città che lo aveva espresso, il grande artista — che Totò non era soltanto un grande attore — aveva rivolto il suo ultimo pensiero prima che la morte ne fermasse per sempre il cuore generoso. Pregando i suoi di portarlo a Napoli egli adempiva ad un voto che non era soltanto di amore verso la famiglia ma di sincero, genuino, commovente attaccamento alla sua città. Napoletano verace, di Napoli egli ha portato fino all'ultimo l'immagine e la poesia nel cuore.
E Napoli è scesa nelle strade con tutta la sua gente, col popolo minuto che forse lo amava di più perché Totò aveva sempre parlato a questo popolo un linguaggio che soltanto i diseredati capiscono. Il linguaggio dell'amore, della solidarietà, della comprensione. Totò ha fatto piangere Napoli assai più di quanto l'aveva fatta ridere, perché l'artista vivo era una parte della città che viveva con essa e in essa ne sentiva il contatto, la vicinanza. l'ansia di aiutare e di sollevare e il dolore del lunghi distacchi e la gioia degli improvvisi ritorni. Totò morto è qualcosa di definitivamente perduto, una bella favola conclusa, una nube nera che offusca il sole.
I napoletani amavano in lui il gran signore e il geniale artista e dell'uno e dell'altro egli è sempre riuscito a fondere in sé stesso gli aspetti più seducenti senza mai contraddirli. Totò è una pagina della nostra vita che si chiude, un vuoto che non si colma.
«Corriere del Mezzogiorno», 19 aprile 1967
Totò è morto mentre stava girando il film «Capriccio all'italiana», nel quale fa diversi travestimenti per adescare i capelloni e raparli a zero. «E' un film come tanti altri che ho interpretato», ci aveva detto Totò quando gli abbiamo parlato l’ultima volta per telefono: «Vale poco. Ma io questi film li ho sempre fatti lo stesso, perché so che piacciono al mio pubblico. La gente, quella che viene a vedere i miei film, ama la risata semplice, la storia banale, senza problemi. E io do al mio pubblico quello che vuole da me: ho fatto così per tutta la mia carriera. I film di valore che ho interpretato si possono contare sulla punta delle dita. Quelli che mi stanno più a cuore sono Arrangiatevi di Bolognini e, naturalmente. Uccellacci e uccellini.
Dico naturalmente, perché è per questo film che ho avuto tanti premi, tantissimi. Sa, finalmente dopo quarant'anni di carriera sono stato riconosciuto il migliore attore dell’anno. Sono proprio soddisfatto. Inoltre tutti i mercoledì, per radio, vengono trasmesse le mie canzoni. Perbacco, è importante: io alle mie canzoni ci ho dedicato buona parte della mia vita, nei loro versi si ritrovano la mia felicità, la mia amarezza, i miei ricordi, E' proprio un anno fortunato questo per me: fra qualche mese andrà in onda per televisione un mio show, il primo show della mia vita. Poi fra qualche settimana Mina mi inviterà a Sabato sera, per fare l’ospite d’onore. Tutti mi vogliono, perbacco. E io vado, perché per me il lavoro è tutto. Mi fa male lavorare, dovrei starmene in casa buono buono, in silenzio e non pensare a niente. Non sto tanto bene, vede: in questi giorni ho un tremendo raffreddore. Ma io lavoro lo stesso, sennò mi sentirei inutile. Perbacco, se mi togliete questa gioia che cosa mi resta più nella vita? lo ho sessantanove anni, perbacco ».
Due giorni dopo Totò moriva. E noi lo ricordiamo così: allegro, felice, tranquillo, soddisfatto di sé e della sua carriera, come il Totò dei suoi film.
S.M. «Novella 2000», anno XLVIII, n.18, 30 aprile 1967
Funerali di popolo, così Napoli salutò il figlio più amato
Il racconto del cronista che 50 anni fa seguì dal campanile del Carmine il rito funebre “Un dolore composto, una folla enorme”
Pensando alla morte - un pensiero fisso, ossessivo, come un'ansia della quale non ci si può liberare - Totò sicuramente aveva sognato per il suo funerale una "festa" come questa. Centomila "spettatori" (ma a occhio ne contammo di più, forse addirittura il doppio), la città paralizzata, una esplosione di affetto incontenibile, travolgente e drammatica al tempo stesso, con il carro funebre bloccato all'ingresso della piazza del Carmine, applausi, pianti, svenimenti e la voce tremante del diacono della basilica che avvertiva i fedeli: «Ricordatevi che stiamo nella casa del Signore»". Era il 18 aprile 1967, giusto cinquantanni fa: cominciava così la cronaca dell'ultimo abbraccio tra Napoli e il "suo" comico, il suo mito. Per descriverla sul Roma il cronista di allora, lo stesso di quello di oggi, si era arrampicato, grazie al complice aiuto del sagrestano, sul campanile della basilica del Carmine dal quale l'immagine della piazza e delle strade laterali era totale.
Uno scenario da brividi, profondamente diverso - più umano e anche più composto - rispetto ai sold out dei nostri giorni: la "qualità" della partecipazione del pubblico era più composta, nonostante la ressa e più attenta a dare il giusto valore ai sentimenti piuttosto che alla "costruzione" della scena. Rimettendo indietro l'orologio della cronaca, quel pomeriggio ci fu data la possibilità di scoprire quanto grande fosse l'amore di Napoli per Totò che più volte, negli ultimi giorni di vita, aveva detto ai parenti: "Vi prego, portatemi a Napoli". E per il funerale si fece promettere che si sarebbe svolto nella basilica del Carmine. Come quelli di Enrico Caruso, Beniamino Gigli e Tito Schipa.
Riuscimmo così a cogliere, tra l'altro, l'attimo drammatico in cui Franca Faldini, la moglie di Totò, non resistette all'emozione e crollò a terra. Era provatissima Franca e, soprattutto, era una donna umiliata: il giorno prima la curia romana non aveva concesso il permesso per la cerimonia funebre, i coniugi non erano sposati in chiesa. Nella chiesa di Sant'Eugenio in via Belle Arti, a poca distanza dalla abitazione romana di Totò, il funerale venne celebrato con una semplice ma fredda benedizione che lasciò tutti delusi. Subito dopo - alle 13,20 per la precisione - il viaggio alla volta di Napoli, la "passeggiata" nel cuore ella Sanità e, infine, il grande funerale. L'unico, anche se ce ne fu un terzo, senza la salma, che, come racconta la figlia Liliana, venne deciso per accontentare la richiesta pressante di Naso 'e cane - Luigi Campo-luongo - un guappo tifosissimo del comico, e degli abitanti del quartiere. La cerimonia ebbe luogo cinque giorni dopo, il 22 aprile, nella chiesa di San Vincenzo e fu seguita da migliaia di persone.
Ma continuiamo a rileggere l'articolo di cinquant'anni fa. Ad attendere l'arrivo della salma c'erano Nino Taranto, Sergio Bruni, Maria Paris, Gloria Cristian, Nunzio Gallo, Franco Sportelli e Carlo Taranto. Tutti piangevano, qualcuno si sentì male. All'ingresso della basilica erano schierati il sindaco Giovanni Principe, il senatore Gaetano Fiorentino, il vicequestore Simone. L'orazione funebre fu tenuta da N ino T aran-to che più volte fu sul puto di essere sopraffatto, anche lui, dalla commozione. "Amico mio, sono sicuro che mi stai ascoltando e mi rispondi. La tua voce è nel cuore di questa Napoli che è venuta a dirti grazie perché tu l'hai onorata... tu, amico mio, hai fatto sorridere la tua città, le hai dato gioia e felicità". Al termine, come in un copione studiato per strappare un fragoroso applauso finale, la battuta ad effetto: "Il tuo pubblico ha voluto che facessi a casa l'ultimo esaurito". Oltre i grandi dello spettacolo, confusi tra la gente ma riconosciuti da tutti, anche molti colleghi meno fortunati. Qualche testimonianza raccolta dal cronista è esemplare.
Michele De Stefano, macchinista del teatro Kursaal di Salerno, raccontò di aver ricevuto una mancia di cinque lire - pari alla paga di una serata -«soltanto per avergli comprato un caffè e un pacchetto di nazionali». Pasquale Pedruccini, un comico che aveva lavorato con Totò al Verde e al cinema Gaitè in piazza Carità nel 1918, si vantò, invece, di aver guadagnato più di lui - 18 lire a sera contro 12 - ma riconobbe che il "principe" era già molto più popolare di lui la macchietta di "Ciccio pasticcio". E chiudiamo con la testimonianza di Vincenzo Fragolino, un altro comico minore, il quale tenne a tessere un grande elogio della bontà del comico: «Mi prestò Core 'ngrato, la parodia con la quale aveva debuttato. E in cambio non volle niente».
Carlo Franco, «Repubblica», 15 aprile 2017
Mentre si stava preparando questo numero della rivista, è giunta improvvisa la notizia della morte di Totò, stroncato da un Infarto la mattina del 15 aprile. Il calendario redazionale, ci consente di dedicare all'attore scomparso, soltanto questo colonnino. Ci riserviamo di dedicare maggiore spazio, nel prossimo numero, alla sua memoria.
Il principe Antonio De Curtis, in arte «Totò», era nato il 7 novembre 1897 (4), a Napoli, una città da lui amata cosi profondamente da esprimere, prima di morire. Il desiderio di esservi sepolto.
E’ una perdita grave, per tutto il mondo artistico, nel quale il grande attore, dal teatro al cinema, profuse il meglio di se stesso, dandoci delle indimenticabili Interpretazioni.
Commosso il cordoglio in tutta Italia, dove la figura di Totò era estremamente popolare, oltre che per la sua irresistibile e straordinaria «vis» comica, che fece di lui l’erede naturale di Petrolini, anche per la sua non indifferente carica di simpatia e di umanità che gli valse la stima, l’ammirazione e l'affetto di tutti i suoi colleghi che ebbero in lui, oltre che il maestro, soprattutto l'amico.
G. C., «Rivista del Cinematografo», aprile-maggio 1967
Riferimenti e bibliografie:
NOTE:
(1) Totò non sposò mai Franca Faldini. Nel 1954 annunciarono pubblicamente il loro matrimonio per limitare le molte illazioni sul loro "fidanzamento" e sulla loro differenza di età.
(2) Diana Bandini Rogliani
(3) Liliana de Curtis
(4) Totò nacque a Napoli il 15 febbraio 1898
Sintesi delle notizie estrapolate dagli archivi storici dei seguenti quotidiani e periodici:
- Luca Giurato, «Stampa Sera», 15-16 aprile 1967
- Alberto Blandi, «Stampa Sera», 15-16 aprile 1967
- «Stampa Sera», 15-16 aprile 1967
- l.g., «La Stampa», 16 aprile 1967
- Igor Man, «La Stampa», 16 aprile 1967
- «La Stampa», 16 aprile 1967
- Leo Pestelli, «La Stampa», 16 aprile 1967
- «La Stampa», 16 aprile 1967
- a. l., «Stampa Sera», 17-18 aprile 1967
- l. g., «Stampa Sera», 17-18 aprile 1967
- A. Luise, «La Stampa», 18 aprile 1967
- l. z., «La Stampa», 18 aprile 1967
- «Stampa Sera», 18-19 aprile 1967
- Mario Bernardini, «Corriere d'Informazione», 15 aprile 1967
- Angelo Falvo, «Corriere d'Informazione», 15 aprile 1967
- «Corriere dell'Informazione», sabato 15 e domenica 16 aprile 1967
- Al. Cer., «Corriere della Sera», 16 aprile 1967
- Indro Montanelli, «Corriere della Sera», 16 aprile 1967
- Raul Radice, «Corriere della Sera», 16 aprile 1967
- Giovanni Grazzini, «Corriere della Sera», 16 aprile 1967
- Crescenzo Guarino, «Corriere della Sera», 16 aprile 1967
- «Il Piccolo», 16 aprile 1967
- Libero Mazzi, «Il Piccolo», 16 aprile 1967
- R. G., «Il Piccolo», 16 aprile 1967
- «Il Piccolo di Trieste», 18 aprile 1967
- «L'Avanti», 16 aprile 1967
- «Il Popolo», 16 aprile 1967
- «La Gazzetta di Mantova», 16 aprile 1967
- «L'Unità», 16 aprile 1967
- «Il Tempo», 16 aprile 1967
- «Il Popolo», 17 aprile 1967
- «La Gazzetta di Mantova», 17 aprile 1967
- «Il Tempo», 17 aprile 1967
- «Il Messaggero», 17 aprile 1967
- «La Gazzetta di Reggio», 18 aprile 1967
- «Il Messaggero», 25 aprile 1967
- «La Gazzetta di Reggio», 16 aprile 1967
- «La Libertà», Piacenza, 16 aprile 1967
- «Il Messaggero», 16 aprile 1967
- «Il Messaggero», 17 aprile 1967
- «Il Tempo», 18 aprile 1967
- «Il Messaggero», 18 aprile 1967
- «Il Popolo», 18 aprile 1967
- «Tribuna Illustrata», 19 aprile 1967
- «Ultimora», 20 aprile 1967
- «La Gazzetta di Mantova», 18 aprile 1967
- f. b., «Il Popolo», 20 aprile 1967
- «L'Unione Monregalese», 22 aprile 1967
- Arnaldo Geraldini, «Corriere della Sera», 23 aprile 1967
- Gianni Ranieri, «Il Nostro Tempo», 23 aprile 1967
- «Il Popolo», 23 aprile 1967
- «Corriere della Sera», 29 aprile 1967
- «Corriere della Sera», 12 maggio 1967
- «Napoli notte», 16 giugno 1967
- Aldo Scagnetti, Pier Paolo Pasolini, Alfredo Orecchio, Luigi Ricci, Dario Argento, «Paese Sera», 16 aprile 1967
- Alberto Crespi, «L'Unità», 11 aprile 2007
- «Corriere del Mezzogiorno», 19 aprile 1967
- S.M. «Novella 2000», anno XLVIII, n.18, 30 aprile 1967
- Carlo Franco, «Repubblica», 15 aprile 2017
- G. C., «Rivista del Cinematografo», aprile-maggio 1967