16 aprile 1967, il sipario si chiude. La scomparsa di Totò sui giornali
I primi sintomi del male si erano manifestati una settimana fa - Aveva dato al fedele segretario centoventimila lire per i funerali raccomandando che tutto fosse fatto con molta semplicità - La crisi fatale l'ha colto in casa; è accorso immediatamente il medico curante, ma la situazione è precipitata in poche ore - Le ultime parole: «Portatemi subito a Napoli...»
Roma, 15 aprile.
Un infarto cardiaco ha stroncato stamane all'alba il grande Totò: l'attore colto dai primi sintomi una settimana fa, era a letto, ma sembrava che si fosse ristabilito. Proprio ieri aveva ricevuto l’esito delle analisi cliniche ordinate dal suo medico: tutte positive, salvo sull'elettrocardiogramma un particolare premonitore che lui stesso ignorava. Anni fa, a Lugano, ebbe un altro infarto, leggero, tanto che non se ne accorse neppure: ma la cicatrice era visibile e il medico aveva ordinato riposo e distensione.
Totò giace ora in una camera ardente allestita nella sua stanza da letto. Indossa una giacca blu di taglio marinaro, con bottoni d’argento, cravatta nera, pantaloni grigi, calze rosse. Ha disteso, sereno, serio il volto che ha fatto divertire le platee di tutto il mondo. Serio, quasi severo, com'era nella vita, quando si spogliava della casacca del comico e tornava ad essere il principe Angelo Flavio Comneno Grippa Focas Lascaris di Bisanzio, un gentiluomo cortese e affascinante, che chi ha conosciuto non dimentica.
Totò ieri, come si è detto, era a letto, ma sembrava in buone condizioni di salute. Nel pomeriggio si era alzato ed aveva voluto ascoltare il suo primo disco, uscito proprio in questi giorni: su una facciata è inciso lo sketch forse più popolare di quanti ne ha recitati: quello in cui c'è la battuta «E' morto Diocleziano? Ragazzi, come passa il tempo!». Sull’altra faccia la sua voce, la voce del principe De Curtis, poeta dialettale e autore di canzoni di successo, recita una delle sue liriche più note, «A livella»,
Ieri sera, verso le ventuno e trenta. Totò era seduto in poltrona, a vedere la televisione. Lo ha colto un dolore improvviso in mezzo al petto, come una trafittura. Ha voluto tornare a letto, appoggiato alla spalla della moglie. Hanno chiamato il medico curante, il dottor Cusimano, e tutto ciò che è possibile fare in questi casi è stato fatto : iniezioni cardiotoniche, immobilità assoluta. Controllo costante del malato. Ma i dolori non passavano. Si facevano anzi sempre più lancinanti. Totò aveva capito. Aveva capito e s'aspettava il peggio già da molti giorni.
Una mattina, saranno due settimane, chiamò il cugino Eduardo Clemente, il suo segretario, l'uomo di fiducia, il factotum. «Prendi qua, — gli disse, — in questa busta ci sono centoventimila lire. Se mi dovesse capitare una disgrazia... no, Eduà... bisogna stare preparati: non si sa mai. In quel momento può darsi che non ti trovi soldi liquidi in casa. Con questi vai subito a ordinare i funerali. Ti dovrebbero bastare per tutto, anche per il trasporto a Napoli, perchè a Napoli mi ci dovete portare subito. Non ti do di più perché voglio funerali semplici, senza sfarzo. Don Eduardo fece gli scongiuri, anzi li fecero tutti e due, ma la busta volle dargliela lo stesso.
I dolori non passavano. Si è fatta mezzanotte, l'una, le due. Alle tre e un quarto Totò ha voluto dire due parole a Eduardo Clemente, a bassa voce. C'erano accanto a lui la moglie Franca Faldini, la figlia Adriana, la signora Margherita Tedaldi, la suocera, l'avvocato Eugenio De Simone, legale di fiducia e amico trentennale, Mimmina Quirico. amica di famiglia. «Portami subito a Napoli, Eduà, mi raccomando, subito». Non ha detto più nulla; è passato un altro quarto d’ora. E' morto alle tre e trenta.
Franca Faldini è seduta accanto al letto, distrutta dal dolore. Non ha neanche più lacrime. Entra continuamente gente nella camera e si ferma, a un passo dai quattro ceri, e si vede in tutti la faccia della gente che quasi non ci crede, cosi all'improvviso, io l’ho visto pochi giorni fa, io ci ho parlato l’altro ieri. Fra le dita gli hanno messo il medaglione di Sant’Antonio, il suo santo protettore, che non lasciava mai. Lo teneva sul comodino da notte.
Anche De Simone piange. «Nessuno sa che cuore d’oro che era. Non voleva che si sapesse. Faceva del bene a tutti. Leggeva i giornali si può dire solo per questo. Ho in piedi almeno una decina di cause di persone che non ha mai visto in faccia. Leggeva dei loro guai poi mi telefonava, «Pensaci tu, mettiti in contatto, hanno bisogno di un buon avvocato. Non dirgli che pago io». Le bestie, come i cristiani, erano la sua vita. Ha speso milioni per salvare cani, gatti, randagi, li ospitava nel suo rifugio costruito anni fa, ma ormai troppo piccolo per tutti gli animali che c’erano, e quelli arrivavano continuamente. Quando non poteva tenerli cercava di sistemarli presso amici. Ricordo che una volta voleva dare a me un pastore inglese «tanto bello, un amore di bestia che gli manca la parola ».
I funerali ci saranno lunedi. Si sta pensando di celebrarli nella chiesa di piazza Euclide, prevedendo la gran folla che ci sarà a dare l’ultimo saluto al grande Totò, all’amico che mille volte ci ha fatto dimenticare i nostri guai con lo suo frasi che almeno una volta abbiamo cercato tutti di ridire con la sua voce: «A prescindere», «Siamo uomini o caporali», «Birra e salsicce», «Io sono un uomo di mondo perchè ho fatto il militare a Cuneo»...
A Napoli Totò sarà sepolto nella tomba di famiglia dove giacciono le salme dei genitori, degli zìi e di un'attrice degli anni venti, Liliana Castagnola, chanteuse-eccentrica. S’era innamorata di lui, di Totò, e per lui si uccise. Volle che la seppellissero accanto ai suoi.
Mario Bernardini, «Corriere d'Informazione», 15 aprile 1967
Colpito da malore giovedì - Aveva detto alla moglie: «Vorrei morire a Napoli, mentre scrivo uno canzone o in palcoscenico» - Il telegramma di Saragat
(Nostro servizio particolare)
Roma, 15 aprile.
Totò è morto la notte scorsa, alle 3,30, stroncato de un infarto. Il celebre attore aveva avvertito un grave malessere ieri sere, verso le 21.
«Adesso basta. Lasciatemi morire», ha detto ai medici che con messaggi al cuore e cardiotonici tentavano di tenerlo in vita. Sei ore dopo, sfinito dalla lunga sofferenza il grande attore si ò spento nella sua abitazione ai Parioli. «Vorrei morire a Napoli, lavorando: mentre scrivo una poesia o le parole di una canzone» aveva detto giorni or sono alla moglie, l'ex attrice Franca Faldlnl «ma, soprattutto, mi piacerebbe morire in palcoscenico»,
Tornare a recitare in teatro era iI suo desiderio più grande ed era convinto di riuscire, nonostante la cecità quasi totale, come riusciva sul "set" o negli studi televisivi. Per la tv, Il grande attore napoletano he lavorato per l'ultima volta. La trasmissione si chiama «Tutto Totò», una specie di «opera omnia» di personaggi da lui creati, in 10 puntate.
E' rimesta non conclusa. Giovedì scorso, l'attore dovette interrompere il suo lavoro, non al sentiva bene. Sembrava un disturbo di origine gastrica. In serata, qualche difficoltà nel respirare, subito attribuita all’eccessivo consumo di sigarette che faceva abitualmente. Il primo allarme venne dopo cena, quando Totò fu colpito da forti attacchi di vomito, dopo aver consumato, come d'abitudine, un pasto frugale. Fu chiamato il medico di famiglia, dottor Cusamano, che per tranquillizzare il paziente ordinò una serie di esami.
Ieri, dopo una notte agitata l'attore si è sentito meglio, ma è rimasto in casa per tutta la giornata, in compagnie della moglie.
Il comico si è tranquillizzato, tanto che avrebbe voluto tornare in televisione a continuare il suo lavoro. Ma il medico l’ha sconsigliato Verso le 21, parlando al telefono con un nipote, aveva espresso soddisfazione per iI suo stato di salute, confermando l’intenzione di cominciare lunedi prossimo la lavorazione di un film di Nanni Loy. Dieci minuti dopo, un violentissimo attacco. Questa volta la natura del male non lasciava adito a dubbi.
Cominciava la lunga agonia, che gli interventi del medici hanno inutilmente tentato di arrestare. II trapasso è avvenuto serenamente; con la moglie e la figlia Liliana (nata dal primo matrimonio dell'attore) intorno al letto c'erano il cugino Edoardo e alcuni intimi. I funerali si svolgeranno lunedi a Roma, nella chiesa di S. Eugenio, in viale Belle Arti. Saranno semplicissimi, di «terza classe», secondo il desiderio espresso dall’attore. Quindi, la salma sarà portata a Napoli e dopo una nuova, solenne funzione tumulata nella tomba di famiglia.
Appena diffusa la notizia della morte di Totò, l’abitazione dell'attore, in via Monte Parioli 4, è stata subito meta di un incessante, commosso pellegrinaggio di amici, colleghi. ammiratori. A migliala, giungevano i telegrammi. Tra i primi, ci sono quelli del Capo dello Stato, del Presidente del Consiglio, del ministro dello Spettacolo. Il presidente Saragat ha scritto: «La scomparsa del grande popolare attore Antonio De Curtis è un grave lutto per II teatro e il cinematografo italiano e rattrista gli innumerevoli spettatori che, per lunghi anni,
hanno ammirato ed amato i suoi straordinari mezzi espressivi al servizio di una profonda sensibilità artistica ed umana. Associandomi al lutto del mondo dello spettacolo invio ai familiari tutti l'espressione del mio vivo cordoglio».
«Non credevo avesse tanti amici, tanta gente che gli voleva bene — ha detto Franca Faldlni —. Quando lo conobbi, famoso com'era, mi aspettavo un tipo estroverso, brillante. Invece mi si presentò un signore riservato, che non amava il mondo d'oggi e detestava la fretta, il frastuono, la volgarità, l'arrivismo. Per questo, vivevo come in un mondo suo, da isolato. Passavamo le serate in casa, con pochissimi amici, più spesso soli. "Chiuderò con un fallimento, nessuno mi ricorderà", aveva detto tempo fa. Eppure, continuava a ricevere proposte di lavoro, perché aveva il segreto di nobilitare anche i testi più banali».
l.g., «La Stampa», 16 aprile 1967
Cinecittà, attorno al 1954. Totò girava un film qualsiasi, uno dei tanti che lo facevano vivere bene e lui non ci metteva niente oltre alla sua straordinaria maschera. Tutto lo chiamavano principe, soltanto Mattoli, il regista, gli dava del tu.
Lui era in un angolo, il suo volto era serio. « Si diverte, principe?». «lo non mi diverto, io lavoro», diceva. Antonio De Curtis, forse, non amava Totò. L'attore era lo «schiavo» dell'uomo, o viceversa. Certo, facevano vita separata. Totò era Totò sul palcoscenico, sulle schermo e basta, poi scompariva; e il principe De Curtis rientrava nella sua casa dei Parioli, tornava a essere un signore distinto, riservato, schivo dei clamori della mondanità.
Lui stesso diceva: «Sono un tipo solitario». Al lavoro mostrava la seconda faccia: «Devo portare l’allegria» diceva. E non insisterà, non cercava di impegnarsi, doveva far ridere e ci riusciva: nessuno come lui, in cinquantanni, lui fatto ridere tanto le platee. Totò era in pace con tutti, e con la sua coscienza. Non aveva rimpianti, non rinnegava nulla, neppure i suoi film più andanti, perchè la sua vita era stata dedicata, per intero, allo spettacolo.
Aveva cominciato nel ’17, che aveva appena diciannove anni, in un teatro glorioso nella storia del varietà, lo Jovinelli. E, subito, era nata una maschera, di prepotente comicità: la bombetta, il tight che gli navigata addosso, i pantaloni corti sulle calze coloratissime, le braccia che penzolavano con perfetta geometria, il mento aguzzo che andava avanti e indietro, a stantuffo. Era il 1922, e accanto a lui c'era già Mario Castellani, sua «spalla» fedelissima per tutti questi anni.
Che dire della sua arte comica? Era inimitabile. Totò si smontata come un meccano, gambe, braccia, testa e poi «i ricomponeva in una maschera fissa.
Chi potrà mai dimenticare quei suoi finali di rivista, «fuochi d'artificio», la marcetta dei bersaglieri? Conosco gente che è andata tre, quattro volte a teatro per quell'irresistibile sketch sul vagone-letto che, in principio, durava sì e no un quarto d'ora e, di rappresentazione \n rappresentazione, si era dilatato aumentando così il diletto degli spettatori. «Quando meno te l'aspetti», «Volumineide», «Orlando curioso», «Che ti sei messo in testa», «Con un palmo di naso», «C'era una volta il mondo», « Bada che ti mangio», ecco quanto di meglio ha saputo esprimere il teatro leggero in Italia; e in mezzo. il centro, il motore, il cervello, c'era lui, Totò. Il cinema non poteva trascurare questo straordinario comico che aveva tutto per piacere anche sui teloni e aveva cercato di annetterselo ancora prima della guerra. Totò aveva fatto «Fermo con le mani» e, verso il '40, «San Giovanni decollato». Da quell'epoca ormai lontana ho visto centinaia di film, cui ne ricordo pochissimi come quel meraviglioso «San Giovanni decollato ». Forse la memoria m'inganna, forse il film non era così bello come io vorrei che fosse; però, mi rivengono in mente certe battute di Totò e rido ancora.
Dopo la guerra, il cinema si affiancò al teatro, poi lo vinse del tutto. Totò divenne infaticabile, un film dopo l'altro, era pagato bene e lui non rifiutava niente. Perchè avrebbe dovuto, d'altronde! Faceva come meglio non si poteva il suo mestiere e non era colpa sua se i soggetti non gli stavano alla pari.
Ma accanto alla valanga di film (più di cento), è giusto collocare opere degne della bravura di Totò: «Guardie e ladri » di Monicelli, « Dov'è la libertà» di Rossellini, «L'oro di Napoli» di De Sica, «Racconti romani» di Franciolini, «I soliti ignoti» di Monicelli, «Uccellacci e uccellini» di Pasolini, «La mandragola» di Lattuada. E si ha il rimpianto di quel grandissimo attore che avrebbe potuto essere soltanto se questo comico nato lo avesse voluto.
Un anno fa, dopo un lungo assedioTotò ai era arreso alla televisione. Ma, a quel che si dice, è stato un incontro sfortunato. I prudentissimi funzionari televisivi avrebbero tagliato alcune scene, annacquato la pungente comicità di Totò. Il programma, in dieci puntate, è inedito. Quando sarà trasmesso, milioni di italiani non vedranno il vero Totò ma ritroveranno almeno un amico. Il comico più caro che ci ha allietato in questi anni grigi.
Angelo Falvo, «Corriere d'Informazione», 15 aprile 1967
In lui convivevano i personaggi della commedia dell’arte, la vis comica di Petrolini e le esperienze del surrealismo francese
E’ triste, tristissimo. Il 1967 aveva visto coronato il trionfo di Totò attore di cinema e ne ha visto anche la morte. Sono dinanzi ai nostri occhi, mentre scriviamo, le due cerimonie - quella dei Nastri d'Argento di Firenze e quella dei Globi d'Oro a Roma - durante le quali i giornalisti cinematografici italiani e l’Associazione della stampa estera avevano offerto al grande mimo il premio per la «migliore interpretazione dell'anno» in "Uccellacci e uccellini" di P.P. Pasolini. E’ vero che il poeta-regista era riuscito a decantare i lazzi di Totò, a sintetizzarli, e nel film il personaggio da lui interpretato aveva acquistato una dimensione universale, affiancandosi a quelli esaltati dai maggiori comici mondiali. Ma i Nastri d’Argento e i Globi d'Oro giungevano anche ad offrire a Totò, dopo il «Nastro» vinto nel ’51 per "Guardie e ladri" di Monicelli, una memoria delle sue prestazioni trentennali nel dominio del cinema.
Lo ricordiamo affettuosamente spinto sul palcoscenico a Firenze e a Roma — l'incipiente cecità ed un singolare pudore lo vedevano tentennare nelle cerimonie pubbliche — e ritrovare d'incanto, di fronte al microfono e alle domande di Lello Bersani, tutta la sua baldanza. Lo spirito beffardo e la cordialità umana dell’attore riaffioravano dietro la maschera del corretto gentiluomo ed una «battuta» semplice ed aguzza ad un tempo, pronunciata dimessamente, senza slanci mattatoriali cioè, avevano il potere magico di elettrizzare una platea unita in uno scroscio di applausi.
Il debutto nel 1937
Aveva avuto questo potere, che è dei grandi comici, di mostrane i difetti umani, satireggiandoli, muovendo al riso le platee di tutto il mondo, fin dal lontano 1937 quando Gero Zambuto lo aveva convinto ad entrare nel regno della celluloide con "Fermo con le mani". Un ingresso modesto e sbilenco. se si vuole, col quale, tuttavia. Totò poteva dimostrare che anche la settima arte si addiceva alla sua straordinaria mimica espressiva. "Animali pazzi" di C.L. Bragaglia, successivamente, in un contesto surreale, serviva a puntualizzare su quali strade il comico napoletano avrebbe potuto marciare, se ben indirizzato. Perché nel suo volto cavallino e nel suo corpo stentato e burattinesco i personaggi affamati dalla commedia dell'arte italiana si mescolavano con quelli. pungenti, portati sul palcoscenico e sullo schermo da Petrolini ed intorno ad essi una aria vagamente charlottiana circolava insieme agli umori recati dalla letteratura e dalla cinematografia surrealiste francesi.
Si è sempre ripetuto che tutte queste esperienze fossero state inconsapevolmente assorbite dal comico. Che l'istinto nativo, cioè, poppato con il latte della scuola napoletana, fosse la sola radice culturale dalla quale l'attore ricavasse i succhi della sua portentosa mediazione con il pubblico. La verità, forse, sta nel mezzo. E le sue dichiarazioni, riportate lungo gli anni, stanno a dimostrare che l’istinto non era il solo protagonista della sua storia di attore.
Dopo le sue prestazioni in "San Giovanni decollato" di Amleto Palermi e nell'"Allegro fantasma" dello stesso regista solo nel dopoguerra, e precisamente nel 1948, Totò tornò sulla tela con "Fifa e arena" di Mario Mattoli, con "Yvonne la nuit" di Giuseppe Amato, con "L’Imperatore di Capri" di Luigi Comencini. E' da questo momento che per il Totò cinematografico hanno inizio, insieme, le fortunatissime avventure e il cammino malcerto. D pubblico corre più spesso dietro ad un solo lato della sua multiforme personalità : quello pupazzesco e spesso gratuitamente volgare.
Gli anni cinquanta segnano il trionfo di Totò. Immesso in vicende grossolane, di pronta cassetta. Totò infila, come un rosario, una pellicola dietro l’altra. Sono gli anni di "Totò cerca moglie" e di "Totò sceicco", di "47, morto che parla" e di "Totò terzo uomo", di "Totò e i Re di Roma" e di "Totò a colori", di chi più ne ha più ne tenga.
Le variazioni su temi limitati sono solo a sprazzi riscattate dallo straordinario estro mimico dell'attore. Ma sono anche gli anni di "Napoli milionaria", di "Guardie e ladri" (smozzicato dalla censura), di "Dov’è la libertà", di "Tempi nostri", dell'"Oro di Napoli". Ogni tanto, cioè, indirizzato da registi come Eduardo De Filippo e Mario Monicelli, come Roberto Rossellini, Alessandro Blasetti e Vittorio De Sica, l'attore sa «ritrovarsi» nella sua umanità ora beffarda ed ora patetica e sa contribuire con il suo sottile spirito d’osservazione psicologica a rendere indimenticabili i personaggi da lui creati. Ai film che abbiamo nominato vanno uniti, accanto ad una serie di avventure di poco conto, "Siamo uomini o caporali" e "I soliti ignoti" di Mario Monicelli.
Le ragioni del declino
L’avidità dei produttori e il sopraggiungere di Alberto Sordi e di Franchi e Ingrassia segnarono il declino di Totò nei confronti del pubblico. La sua attività cinematografica, considerato anche il suo precario stato di salute, s'era negli ultimi anni diradata. Ma ogni volta che la sua bazza sporgente e la sua andatura dinoccolata, come recentemente nella "Mandragola" di Lattuada e in "Operazione San Gennaro", riapparivano sullo schermo gli spettatori tornavano ad amare e ad ammirare il loro Totò, cosi splendidamente italiano e così splendidamente universale nella sua carica di umiliato e offeso, pronto a trovare tutti i mezzi per difendere la sua giornata, per sottrarsi a tutti i costi alle ingiustizie, conservando un'interiore pulizia ed un dolente bisogno di poesia.
A Cesare Zavattini, in tempi lontani, egli dichiarava: «Adopero spesso le parole "surreale metafisico” e non arrossisco nel dirle. Per me vogliono dire fantastico come lo avrei fatto a dieci anni. Credo che i cartoni animati siano surreali e metafisici nel mio senso un po’ ingenuo ».
Nel recente episodio di P.P. Pasolini nelle "Streghe" su questa strada lo aveva immesso il regista del "Vangelo": una figurina da «Corriere dei piccoli», introdotto in singolari avventure. Pasolini (con il quale ave va di recente «girato» un episodio di "Capriccio italiano", «Che cosa sono le nuvole? ») e Fellini dovevano tornare e iniziare. rispettivamente l’uno e l'altro, una collaborazione con il grande attore che, di sicuro, ci avrebbe procurato nuove sorprese. Perché, tutto somma to, Totò aveva donato tanto ma forse non tutto, come, nonostante gli anni e gli acciacchi, avrebbe voluto dare. Proprio come avviene agli attori di razza.
Aldo Scagnetti, «Paese Sera», 16 aprile 1967
Pier Paolo Pasolini si trova attualmente in Marocco, per girare il film «Edipo re». Siamo stati noi a dargli la notizia della scomparsa di Totò. Erano le 19.30 quando lo abbiamo raggiunto, telefonicamente, a Quar Zazate. Sconvolto. Pasolini ci ha donato queste poche righe:
Spero che il lettore di Paese Sera possa immaginare lo stato d'animo in cui io mi trovo. E' assurdo che lo riesca a dire qualcosa di sensato. In questi ultimi due anni ho lavorato quasi ininterrottamente con lui; l'ultima volta l'ho visto, felice, in una serata in cui lo premiavano.
E' stato sottratto alla nostra vita, come se fosse stato rubato. Alla mia, come una parte di me stesso, quando dovevamo lavorare ancora insieme quattro o cinque episodi che dovevano formare un intero film.
lo ho già immaginato a una a una tutte le facce che egli avrebbe fatto nelle vesti del Re Mago randagio, un Re Mago arrivato in ritardo al presepio per le mille peripezie e le mille buone azioni compiute e, quando arriva davanti al presepio, ormai vuoto, muore di stenti e di stanchezza e un angelo lo prende per mano e lo porta in paradiso ballando al suono di una musica di Mozart.
Pier Paolo Pasolini, «Paese Sera», domenica 16 aprile 1967
Una grinta che sarà impossibile dimenticare e che raccontava tutta la saggezza e l'infausta deformità dei vichi napoletani.
Per i giovani Totò non può significare altro che cinema; cosi come per i meno giovani egli è soprattutto un grande comico di rivista quale seppe dare al genere senso di cattiveria e di sarcasmo negli anni oscuri del fascismo e subito dopo, fra il ‘41 e ii ‘49. quando il pubblico fu trascinato dalla sua maschera famelica e dalle sue assurde, e irriverenti invenzioni mimiche negli spettacoli scritti per lui da Galdieri. Fra l’altro, non bisogna dimenticare che Totò, con l’aria di non aver fatto nulla di serio per il teatro e, con la schiva modestia che fu sempre il suo tratto di distinzione, è invece l'attore al quale dobbiamo uno dei momenti più felici e più «popolari» dello spettacolo di arte varia o, come oggi si dice, della rivista.
Chi ancora ricorda "Quando meno te l’aspetti", o "Volumineide" o "Con un palmo di naso", sa bene che la «rivista italiana», frizzante, gioconda, funambolica e sghignazzante, raggiunse il massimo della rispondenza delle platee solo per merito suo. E per meriti, bisogna aggiungere, non ancora attribuibili a contaminazioni più o meno asettiche d’oltreoceano.
In quegli anni, infatti, il gusto newyorkese dello spettacolo folies era sconosciuto in casa nostra. I mimi, i macchiettisti linguacciuti, i fantasisti e le maschere, gli acrobati, i fini dicitori e le cantanti di petto e di «bella anca» erano l'unico patrimonio della nostra rivista. E ci si lavorava a braccio, tirandosi su le maniche e cercando di spremere il meglio di se stessi, di stabilire insomma col pubblico un contatto diretto, autentico, elementare.
Tutta un’altra faccenda, per farla breve, dal successivo "grand spectacle" a base di gambe-gambe-gambee, che ebbe e ha in Garinei e Giovannini i suoi più scaltriti animatori. Senza voler mettere in discussione la validità di questo nuovo e più vistoso spettacolo alla Broadway e senza nulla togliere alla commedia musicale e coreografica, è certo che il solo a dir cose piacevoli, pungenti e interessanti in termini di rivista popolare all'italiana fu proprio Totò. Quanti furono, per esempio, ad accorgersi di quella specie di colpo basso sferrato da Totò al nazismo, mentre recitava e mimava a Roma, in piena occupazione tedesca, "Che ti sei messo in testa?" Si deve a Totò (e, naturaalmente, anche al povero Galdieri che gli stava alle spalle fornendogli spunti e malizie) se quello spettacolo riuscì a mettere alla berlina gli occupanti, presentandoli per quel che essi erano, senza troppi peli sulla lingua.
La storia di una maschera
Ma Totò, grande e sbilenca maschera dell'antica fame partenopea, ha una a storia che comincia molto prima, in un'epoca di cui non fummo testimoni e che abbiamo ritrovata — come un manoscritto chiuso in bottiglia — proprio l’altra sera, al Valle, in "Napoli notte e giorno" di Raffaele Viviani. Non si può intendere niente dell'attore scomparso, se non lo si restituisce a quelle stesse origini; all’«universo straccione» epicizzato da Viviani e prima da Scarpetta, reso coloritissimo e parodistico dai Maldacea o dai De Marco, con le sue canzoncine, i suoi sberleffi e ghiribizzi, il suo senso esplosivo della pantomima e della caricatura al vetriolo.
Non è certamente un caso che Totò, dopo le prime oscure prove nella città natale, cominciò «la carriera» nel 1917 allo Jovinelli di Roma con un repertorio nel quale si ripetevano, in chiave dì smorfia e di imitazione, certe invenzioni marionettistiche del De Marco. Fin da allora (con Il bel Ciccillo, Il gagà, Biondo corsaro), veniva già definendosi l’immagine del personaggio: una maschera disarticolata, un eroe meschino dell’antico teatro dei pupi, un picaro in perenne e indomita battaglia con l'ordine costituito, con la decenza e la morale e la legge dei «ricchi».
Una faccia sbalorditiva
Nel 1922, alla Sala Umberto, Totò si era già perfettamente identificato allo specchio, facendo della sua faccia sbalorditiva uno strumento feroce di comicità. Era soltanto un «fantasista» ma, come si può leggere anche nei manuali di storia teatrale, si presentava subito in qualità di aggressore, di ridevole e dolente testimonio di accusa: una bombetta bisunta, un tight sgraffignato a qualche straccivendolo, calze scarlatte a righe, brache da bracalone pezzente; e quella faccia di marmo a fette, quei movimenti delle mandibole irresistibili, quella risata più simile a una ferita, quella «grinta» che sarà impossibile dimenticare perché diceva tutta la saggezza e l’ingiusta deformità dei vichi napoletani.
Nasceva allora il Totò che abbiamo amato. Nasceva dai cortili plebei di Toledo e del rione Carità, di Forcella e di Porta Capuana, dalla razza con la pancia vuota e la beffa facile, dal teatro di «sceneggiata» e di circo, dall’antico ceppo volgare che comincia con lo Zanni e con Pulcinella e che dalla commedia dell’arte si perpetua nel «varietà di fuorivia», nello spettacolo di irrisione popolare.
In tal senso, Totò ebbe un suo ruolo, forse minore ma irripetibile; e comunque non va dimenticato che egli fu macchiettista per quasi un trentennio. per quasi una vita. Venne poi il cinema, il successo, la vecchiaia. Oggi la morte. Non potremo più ridere per merito suo e solo oggi ci accorgiamo che gli dobbiamo tutti qualcosa.
Alfredo Orecchio, «Paese Sera», 16 aprile 1967
Tra la gente che lo vide giovane e applaudì al «Partenope» i primi successi artistici • Una voce corre tra i vicoli: «Si informano per l'eredità» • In casa dei cugini del principe Antonio De Curtis
NAPOLI, 16. — Via Santa Maria Antesaecula alla Sanità. Una strada popolare, botteghe dall’uno e dall'altro lato, di artigiani e di alimentari, e «bassi», tanti «bassi» con tanta gente. E in alto, da una finestra all'altra, distesi come tanti festoni, i panni allo sciorino; e carrette a carrettini con frutta e verdura e cesti di pesce. La Napoli popolare, insomma. E’ come quando Totò vi nacque, in quel quartierino del primo piano al numero 106, composto di tre stanze disadorne e scarso mobilio.
Via Santa Maria Antesaecula è rimasta la stessa di settanta anni fa, forse la stessa di prima di settanta anni fa, o anche di cento. Non è cambiato nulla, se non forse, qualche tubo di neon al posto della lampadina elettrica.
L’ultimo ricordo di Totò in questa strada risale alla fine del 1965, quando l'indimenticabile attore vi giunse per una ripresa di "Tivusette" a bordo della sua macchina, lamentandosi, tra una folla di popolani festosi, che non riusciva mai a consumare un paio di scarpe, pur avendone tante, giacché era costretto ad andare sempre in macchina. Una battuta di spirito cui, per altro, seguì la tanto desiderata passeggiata, cominciando proprio dall'antico palazzo in cui abitava, vecchio e diruto, che egli, fattosi improvvisamente serio, si era soffermato a guardare a lungo, certamente sopraffatto da tanti pensieri e tanti ricordi.
Vincenza Rippa, coetanea di Totò, proprietaria della panetteria accanto al palazzo, lo ricorda cominciando dall'ultima volta che lo ha visto: «Mi avvicinai a lui e gli dissi: Ti ricordi, Totò, quando eravamo ragazzi? Io sono Vicenza, 'a figlia d' 'o farenaro... ».
«Si che mi ricordo, Vicenzina bella.. E tu si Maria 'a guantaia, tu si Nanninella 'a figlia 'e gentiello. Site belle come 'na vota... ».
Era considerato perfino bello
«Vicenza» è un diluvio: «Io gli portavo, tanti anni fa, i fiori quando recitava al "Partenope" a via Foria, io ero sempre in prima fila al teatro e ricordo la cantava con successo: «"Si bella Fofò... cantava con successo: "Si bella Fofò... grazie, lo so'" ». Perché Totò, pur magrissimo e con quel mento sporgente da un lato che, qualche volta — ci dicono — copriva col fazzoletto, era considerato bello dalle ragazze del quartiere di cui egli era il beniamino.
«Andava in giro in paglietta e bastoncino e recitava — dice donna Vicenza — recitava sempre in casa, per la strada, al caffè. La sua giovinezza è stata tutta una recita».
Si è fatto intanto un capannello attorno a noi e ognuno vuol raccontare qualcosa. Giuseppe Riccioli, panettiere, ha fatto le elementari con Totò. Si ricorda benissimo colui che, tra il 1912 e il 1914, fu il maestro di Totò: il comico Gustavo De Marco. Era questi che usava coprirsi il capo con una paglietta e tenere in mano un bastoncino di bambù. E Totò, tanto fanatico di lui, lo imitava, finché De Marco non lo volle con sé, a fare delle imitazioni al «Trianon» e all'«Orfeo», vecchi teatri di avanspettacolo della Napoli primo-anteguerra, quando ancora il gusto per questo tipo di spettacolo non aveva subito un fiero colpo.
Non ci ha mai dimenticato
Don Peppino Riccioli gli era amico e, come tale, non gli invidiava nulla, se non la fortuna che Totò aveva con le donne. «Piaceva a tutte ed ognuna faceva a gara per conquistarlo. Ma lui scherzava e non saprei dire se si sia veramente innamorato di qualcuna. Forse, dì Menechella, tuttora vivente (una Venere, afferma), forse Vincenza Santoro, ora defunta, di cui amava parlare spesso e con enfasi. Totò — conclude don Peppino — era fin da allora una macchietta ».
Anna Emilio, quasi coetanea di Totò, si fa avanti: è una pizzaiola. «Totò non era ricco, allora, ma era egualmente generoso. A me che gli auguravo sempre tanta fortuna offriva il gelato. Ed anche io andavo con donna Vicenza Rippa e tutte le altre ragazze al "Partenope" a spellarmi le mani per lui. Noi della Sanità gli abbiamo tributato i primi successi, noi gli abbiamo sempre voluto bene, Io abbiamo messo sulla strada della gloria artistica...».
E’ un coro di elogi, di rimpianti, di affetti non tutti esplosi come avrebbero dovuto, giacché quei popolani l’hanno conservato in cuore e quasi vorrebbero farlo esplodere ora che Totò non c’è più. Altre voci si levano: «Non si è dimenticato mai di noi»; «Era un benefattore e lasciava sempre a noi, povera gente, un po’ di denaro»; «Abbiamo tanto bisogno», La folla si ingrossa e oramai non riusciamo più ad ascoltare interamente le espressioni, perché tutti vogliono dire qualcosa di Totò. D’un tratto si crede di capire che è arrivato lì qualcuno (cioè noi) che si sta informando per l'eredità di Totò. E non abbiamo potuto fare a meno di lasciarci accompagnare dai «parenti» del compianto Antonio De Curtis, ci dicono dei cugini, i quali, appunto, si chiamano De Curtis. Lasciamo fare e andiamo.
Vico Tronari, ai Cristallini, qualche centinaio di metri più avanti. Al confronto, la descritta via Santa Maria Antesaecula sembra un boulevard parigino. Al numero 9, un palazzetto che sembra venir fuori dalle macerie contorte di un terremoto. c'è mezzo (sgangheratissimo) portoncino chiuso in segno di lutto e su un pezzetto di carta incollata, con la scritta: «Chiuso per la morte del principe Antonio De Curtis».
E’ rimasto nel cuore di tutti
Ci spingono a salire sopra, tra scale e scalette prive di soglie che si intrecciano, tra improvvisi varchi da cui si ode il pianto di bimbi, ed accediamo per un antro buio che dovrebbe essere una casa. Lì, appunto, abitano Gennaro De Curtis — il quale è assente — con i figli Giovanni, Rosaria, Concetta, Antonio, Ciro. La madre non c’è; è morta sette anni fa. E' assente pure un'altra figlia che è sposata. Parlano i figli di Gennaro De Curtis e ci assicurano che Totò era loro zio. E ci mostrano delle foto di Totò, con affettuose dediche e ci dicono che lui li aveva sempre aiutati, che li voleva bene. Ora sperano.
E sperano anche Mario ed Elmerinda De Curtis, fratelli di Gennaro De Curtis; dicono anche loro di essere cugini dello scomparso, Anch’essi sono povera gente, come del resto quasi tutti quelli del vasto e popoloso quartiere della Sanità. A fatica riusciamo ad andarcene.
Totò, lì, è rimasto nel cuore di tutti, cosi come Totò stesso disse una volta, che il suo cuore era rimasto lì, alla Sanità, in via Santa Maria Antesaecula, dove quando egli usciva, paglietta in testa e bastoncino in mano, magrissimo, raccoglieva i sorrisi delle belle ragazze alle finestre o davanti ai «bassi», rispondendo loro con un inchino e con una levata di paglietta, senza riuscire a non essere buffo, amorevolmente buffo, nonostante i suoi sforzi.
Luigi Ricci, «Paese Sera», 16 aprile 1967
A volte la televisione, dopo orge di spettacoli di varietà di dubbio gusto, telefilm insensati, dopo telegiornali che se ne infischiano dei reali interessi e delle curiosità dei telespettatori, a volte, dicevamo, scopre la sua funzione, diventa attualità, penetra con il suo occhio candido, impietoso, ingenuo, con il suo occhio vero, con il suo occhio che è testimone, nella realtà. E coglie le emozioni che trascorrono, senza finzione, ferma momenti, puntualizza, senza forzare la mano, gli avvenimenti. E’ morto Totò. E una edizione speciale di «Prima Pagina» è stata dedicata da Pietro Pintus alla scomparsa di questo grande attore. Attraverso le testimonianze, i brani di film, gli sketches, abbiamo rivisto quel grande viso che è nato per le strade, quel grande comico che aveva l’autenticità del poeta nato, e un amore esclusivo per l’arte, una infinita capacità di umorismo e insieme una regalità naturale.
«Ventotto anni fa iniziai la mia carriera come attore, ed egli era già un maestro» ha detto Tognazzi iniziando. Niente era preparato. Tognazzi ha parlato a ruota libera. Ha detto cosa pensava. Ed ecco l’emozione genuina rampollare dalle sue parole. Ora Tognazzi ha accettato di sostituire Totò in un film. Certo: niente si ferma, il mondo dello spettacolo prosegue, tiene conto del passaggio di Totò, ma prosegue.
Ed è cominciata la collana di rievocazioni di alcune grandi interpretazioni di Totò. E’ cominciata con 'O Pazzariello da «L’oro di Napoli». Si dice che il grado di civiltà di una cultura si misura sulla qualità della sua produzione artistica. Ebbene, la nostra civiltà è una civiltà non in decadenza finché ci sono uomini come Totò a farne da testimoni. Molti, oggi che è morto, oggi che rivedono commossi i brani dei suol film alla TV, o le sue pellicole sparse qua e là nei cinema, nelle sale rionali, ripescate per fare una serata, molti ieri sera e oggi si sono accorti che Totò era qualcosa di più di un comico per spiriti sempliciotti; quasi tutti oggi parlano di lui con il rispetto e la gravità dovuta all’arte.
Ma ieri, chi era Totò? Quali sono i film che in tanti lustri di carriera gli sono stati affidati? Quali speculazioni commerciali sono state organizzate sul suo nome? Ieri sera alla televisione abbiamo visto un grande attore, e che fosse un grande attore lo hanno testimoniato gli intervenuti: un grande attore, pur con tutte le sue scintillanti contraddizioni. Ma allora perché non lo hanno mai elevato all adignità di un grande film? Perché tanti altri sì, e lui no. Certo, per molti in questo momento ci saranno dei rimpianti postumi, ma è quanto è affiorato dalla profondità di molte coscienze vedendo la trasmissione televisiva di ieri sera. E possedeva l’autenticità del poeta nato: ricordate la poesia che ha recitato ieri sera Nino Taranto, una poesia straordinaria, che ti lascia con gli occhi bassi e il nodo in gola.
La trasmissione televisiva, si capiva, era stata costruita in fretta, e forse per questo era più autentica. E non si sono viste lacrime, scene madri. Solo il commosso rimpianto. L’apparizione di Anna Magnani. Se ne stava lì con i suoi grandi occhi di chi sa tante cose, i suoi grandi occhi di chi vorrebbe dire ma non è questo il momento, i suoi grandi occhi di chi sa parlare da anima, ad anima, coi suoi grandi occhi. Si è chiesta: perché lo hanno ignorato per tanti anni? Si è chiesta: perché non gli hanno permesso di fare le cose importanti che egli voleva fare? Si è chiesta: perché non lo hanno aiutato a diventare un dei più grandi e famosi attori di questi anni? Ma ormai Totò è scomparso e le domande di Anna Magnani suonavano solo come rimpianto.
E la trasmissione televisiva è proseguita, inframezzando brani cinematografici ad altre interviste. Non ha creato facile commozione nei telespettatori, certo. Ma è servita a ricordare. E agli uomini di spettacolo, gli stessi che proseguono perché debbono proseguire, perché il cinema non si ferma, a loro ha detto: chinate la testa per un attimo, è morto un maestro.
Dario Argento, «Paese Sera», 16 aprile 1967
Si è fermato un grande cuore
L'ultimo grande erede della Commedia dell’Arte è tornato alla sua Napoli chiuso in una bara. Alla città che lo aveva espresso, il grande artista — che Totò non era soltanto un grande attore — aveva rivolto il suo ultimo pensiero prima che la morte ne fermasse per sempre il cuore generoso. Pregando i suoi di portarlo a Napoli egli adempiva ad un voto che non era soltanto di amore verso la famiglia ma di sincero, genuino, commovente attaccamento alla sua città. Napoletano verace, di Napoli egli ha portato fino all'ultimo l'immagine e la poesia nel cuore.
E Napoli è scesa nelle strade con tutta la sua gente, col popolo minuto che forse lo amava di più perché Totò aveva sempre parlato a questo popolo un linguaggio che soltanto i diseredati capiscono. Il linguaggio dell'amore, della solidarietà, della comprensione. Totò ha fatto piangere Napoli assai più di quanto l'aveva fatta ridere, perché l'artista vivo era una parte della città che viveva con essa e in essa ne sentiva il contatto, la vicinanza. l'ansia di aiutare e di sollevare e il dolore del lunghi distacchi e la gioia degli improvvisi ritorni. Totò morto è qualcosa di definitivamente perduto, una bella favola conclusa, una nube nera che offusca il sole.
I napoletani amavano in lui il gran signore e il geniale artista e dell'uno e dell'altro egli è sempre riuscito a fondere in sé stesso gli aspetti più seducenti senza mai contraddirli. Totò è una pagina della nostra vita che si chiude, un vuoto che non si colma.
«Corriere del Mezzogiorno», 19 aprile 1967
I popolare comico, fra tasse e opere di beneficenza, ha speso la maggior parte di quanto ha guadagnato. Di imposte pagava circa quaranta milioni all'anno.
ROMA, 19 aprile
I poveri di Napoli non avranno i cinquecento milioni di Totò. Purtroppo la notizia dell’ingente lascito diffusasi nella città partenopea il giorno dei funerali del popolare comico, non risponde a verità. «Totò è morto povero — ha detto il cugino e segretario dell’attore Eduardo Clemente —. Certo non ha lasciato la famiglia in condizioni economiche difficili, ma non era ricco, per carità !». E la cosa è stata confermata anche dall’avv. Eugenio De Simone, legale ed amico intimo del principe de Curtis. «Data la sua continua, smisurata ed eccezionale generosità—ha detto — non sarebbe mai stato in grado di accumulare non dirò mezzo miliardo, ma neppure un risparmio assai meno cospicuo». Totò, in effetti, negli ultimi anni, ha lavorato soltanto per le tasse e per i poveri.
«Da cinque anni — spiega Eduardo Clemente — non interpretava film come protagonista, faceva soltanto delle "partecipazioni” e tali ruoli non offrono grandi guadagni. Doveva pagare circa quaranta milioni all’anno. Per questo faceva tutti i lavori che gli offrivano, dalle partecipazioni ai caroselli televisivi. E, intanto, continuava a fare la carità, non diceva mai di no. In un anno, ultimamente, poteva guadagnare un centinaio di milioni e se ne andavano tutti tra spese di famiglia, tasse e beneficenza». Clemente calcola che, al massimo, l'attore potesse metter da parte un paio di milioni all’anno. Comunque siamo lontani da mezzi miliardi. D’altra parte, di beneficenza Totò ne ha fatta tenta in vita. L'ultima è stata una carrozzella per una vecchia paralitica. Pochi giorni prima di morire il principe de Curtis aveva ricevuto una lettera dal Cottolengo di Napoli.
«Caro Totò — c’era scritto — ho le gambe paralizzate. Qui intorno c’è un bel parco e io non posso andarci perché non ho una carrozzella. Non ho nessuno, ti prego, fammi vedere il sole tra gli alberi. Mandami una carrozzella anche usata...».
Il giorno dopo l’autista del grande comico era in viaggio verso la città partenopea: sul portabagagli della macchina c’era una carrozzella nuova fiammante.
«Il Mattino», 20 aprile 1967
Negli ultimi 5 anni non aveva più fatto un film da protagonista, mentre pagava ingentissime tasse e faceva molta beneficenza
(Nostro servizio particolare)
ROMA, 20
«Totò è morto povero»: così affermano i parenti del celebre comico smentendo la voce secondo la quale egli avrebbe lasciato 500 milioni ai poveri della Sanità.
Eduardo Clemente, cugino e segretario di Totò, l’uomo che per anni gli è stato vicino, ha ribadito: «Totò è morto effettivamente povero. Certo, non ha lasciato la famiglia in condizioni economiche difficili o allarmanti, ma non era ricco, per carità!».
Ai poveri ha pensato effettivamente durante tutta la sua vita. «Si può dire — ha infatti continuato Clemente — che negli ultimi tempi Totò, malgrado gli affanni dell'età e la debolezza della sua vista, abbia lavorato proprio per loro, per i poveri. Da cinque unni il principe De Curtius non interpretava un film come protagonista. Faceva soltanto delle partecipazioni e chi lavora nel cinema sa bene che tali ruoli non offrono grandi guadagni. Doveva pagare le tasse. Le ha sempre pagate, puntualmente. Si trattava di circa quaranta milioni all’anno. Per questo faceva tutti i lavori che gli offrivano, partecipazioni, caratterizzazioni, caroselli.
E nonostante tutto continuava a fare la carità, ad aiutare chi aveva bisogno, chi bussava alla sua porta. Non sapeva mai dire di no, non ne aveva il coraggio. Quando gli dicevano: chissà quanta gente si approfitta della tua bontà. Totò rispondeva: ”E come faccio a saperlo? Per non sbagliare mi fido di tutti...”. E così mandava vaglia a destra e a sinistra, senza indugiare. Gli chiedevano una gamba di legno, di finanziare un'operazione agli occhi, di pagare medici e medicine. Totò era sempre pronto. Non rifiutava mai niente a nessuno».
Negli ultimi anni, Totò non guadagnava più le cifre astronomiche dei tempi d’oro e se ne preoccupava per i suoi beneficati. Da tutte le sue attività ricavava un centinaio di milioni che, detratte le tasse, diventavano una cifra esigua. Comunque nel libro delle uscite, figuravano sempre centinaia di vaglia destinati agli indigenti.
«Caro Totò — c’era scritto — sono tanto vecchia. Ho le gambe paralizzate. Qui intorno c'è un bel parco ma io non posso mai andarci perché non ho una carrozzella. Non ho nessuno, ti prego, fammi vedere il sole tra gli alberi. Mandami una carrozzella, anche usata...».
Questa lettera, il comico la ebbe pochi giorni prima di morire da un ospite del Cottolengo di Napoli. Nel giro di poche ore, il suo autista lasciò Roma con una carrozzella nuova fiammante sul portabagagli. Fu l’ultima opera che Totò il buono siglò con il suo nobile, generoso animo.
«Il Roma», 20 aprile 1967
Totò è morto mentre stava girando il film «Capriccio all'italiana», nel quale fa diversi travestimenti per adescare i capelloni e raparli a zero. «E' un film come tanti altri che ho interpretato», ci aveva detto Totò quando gli abbiamo parlato l’ultima volta per telefono: «Vale poco. Ma io questi film li ho sempre fatti lo stesso, perché so che piacciono al mio pubblico. La gente, quella che viene a vedere i miei film, ama la risata semplice, la storia banale, senza problemi. E io do al mio pubblico quello che vuole da me: ho fatto così per tutta la mia carriera. I film di valore che ho interpretato si possono contare sulla punta delle dita. Quelli che mi stanno più a cuore sono Arrangiatevi di Bolognini e, naturalmente. Uccellacci e uccellini. Dico naturalmente, perché è per questo film che ho avuto tanti premi, tantissimi. Sa, finalmente dopo quarant'anni di carriera sono stato riconosciuto il migliore attore dell’anno. Sono proprio soddisfatto. Inoltre tutti i mercoledì, per radio, vengono trasmesse le mie canzoni. Perbacco, è importante: io alle mie canzoni ci ho dedicato buona parte della mia vita, nei loro versi si ritrovano la mia felicità, la mia amarezza, i miei ricordi, E' proprio un anno fortunato questo per me: fra qualche mese andrà in onda per televisione un mio show, il primo show della mia vita. Poi fra qualche settimana Mina mi inviterà a Sabato sera, per fare l’ospite d’onore. Tutti mi vogliono, perbacco. E io vado, perché per me il lavoro è tutto. Mi fa male lavorare, dovrei starmene in casa buono buono, in silenzio e non pensare a niente. Non sto tanto bene, vede: in questi giorni ho un tremendo raffreddore. Ma io lavoro lo stesso, sennò mi sentirei inutile. Perbacco, se mi togliete questa gioia che cosa mi resta più nella vita? lo ho sessantanove anni, perbacco ».
Due giorni dopo Totò moriva. E noi lo ricordiamo così: allegro, felice, tranquillo, soddisfatto di sé e della sua carriera, come il Totò dei suoi film.
S.M. «Novella 2000», anno XLVIII, n.18, 30 aprile 1967
Il racconto del cronista che 50 anni fa seguì dal campanile del Carmine il rito funebre “Un dolore composto, una folla enorme”
Pensando alla morte - un pensiero fisso, ossessivo, come un'ansia della quale non ci si può liberare - Totò sicuramente aveva sognato per il suo funerale una "festa" come questa. Centomila "spettatori" (ma a occhio ne contammo di più, forse addirittura il doppio), la città paralizzata, una esplosione di affetto incontenibile, travolgente e drammatica al tempo stesso, con il carro funebre bloccato all'ingresso della piazza del Carmine, applausi, pianti, svenimenti e la voce tremante del diacono della basilica che avvertiva i fedeli: «Ricordatevi che stiamo nella casa del Signore»". Era il 18 aprile 1967, giusto cinquantanni fa: cominciava così la cronaca dell'ultimo abbraccio tra Napoli e il "suo" comico, il suo mito. Per descriverla sul Roma il cronista di allora, lo stesso di quello di oggi, si era arrampicato, grazie al complice aiuto del sagrestano, sul campanile della basilica del Carmine dal quale l'immagine della piazza e delle strade laterali era totale.
Uno scenario da brividi, profondamente diverso - più umano e anche più composto - rispetto ai sold out dei nostri giorni: la "qualità" della partecipazione del pubblico era più composta, nonostante la ressa e più attenta a dare il giusto valore ai sentimenti piuttosto che alla "costruzione" della scena. Rimettendo indietro l'orologio della cronaca, quel pomeriggio ci fu data la possibilità di scoprire quanto grande fosse l'amore di Napoli per Totò che più volte, negli ultimi giorni di vita, aveva detto ai parenti: "Vi prego, portatemi a Napoli". E per il funerale si fece promettere che si sarebbe svolto nella basilica del Carmine. Come quelli di Enrico Caruso, Beniamino Gigli e Tito Schipa.
Riuscimmo così a cogliere, tra l'altro, l'attimo drammatico in cui Franca Faldini, la moglie di Totò, non resistette all'emozione e crollò a terra. Era provatissima Franca e, soprattutto, era una donna umiliata: il giorno prima la curia romana non aveva concesso il permesso per la cerimonia funebre, i coniugi non erano sposati in chiesa. Nella chiesa di Sant'Eugenio in via Belle Arti, a poca distanza dalla abitazione romana di Totò, il funerale venne celebrato con una semplice ma fredda benedizione che lasciò tutti delusi. Subito dopo - alle 13,20 per la precisione - il viaggio alla volta di Napoli, la "passeggiata" nel cuore ella Sanità e, infine, il grande funerale. L'unico, anche se ce ne fu un terzo, senza la salma, che, come racconta la figlia Liliana, venne deciso per accontentare la richiesta pressante di Naso 'e cane - Luigi Campo-luongo - un guappo tifosissimo del comico, e degli abitanti del quartiere. La cerimonia ebbe luogo cinque giorni dopo, il 22 aprile, nella chiesa di San Vincenzo e fu seguita da migliaia di persone.
Ma continuiamo a rileggere l'articolo di cinquant'anni fa. Ad attendere l'arrivo della salma c'erano Nino Taranto, Sergio Bruni, Maria Paris, Gloria Cristian, Nunzio Gallo, Franco Sportelli e Carlo Taranto. Tutti piangevano, qualcuno si sentì male. All'ingresso della basilica erano schierati il sindaco Giovanni Principe, il senatore Gaetano Fiorentino, il vicequestore Simone. L'orazione funebre fu tenuta da N ino T aran-to che più volte fu sul puto di essere sopraffatto, anche lui, dalla commozione. "Amico mio, sono sicuro che mi stai ascoltando e mi rispondi. La tua voce è nel cuore di questa Napoli che è venuta a dirti grazie perché tu l'hai onorata... tu, amico mio, hai fatto sorridere la tua città, le hai dato gioia e felicità". Al termine, come in un copione studiato per strappare un fragoroso applauso finale, la battuta ad effetto: "Il tuo pubblico ha voluto che facessi a casa l'ultimo esaurito". Oltre i grandi dello spettacolo, confusi tra la gente ma riconosciuti da tutti, anche molti colleghi meno fortunati. Qualche testimonianza raccolta dal cronista è esemplare.
Michele De Stefano, macchinista del teatro Kursaal di Salerno, raccontò di aver ricevuto una mancia di cinque lire - pari alla paga di una serata -«soltanto per avergli comprato un caffè e un pacchetto di nazionali». Pasquale Pedruccini, un comico che aveva lavorato con Totò al Verde e al cinema Gaitè in piazza Carità nel 1918, si vantò, invece, di aver guadagnato più di lui - 18 lire a sera contro 12 - ma riconobbe che il "principe" era già molto più popolare di lui la macchietta di "Ciccio pasticcio". E chiudiamo con la testimonianza di Vincenzo Fragolino, un altro comico minore, il quale tenne a tessere un grande elogio della bontà del comico: «Mi prestò Core 'ngrato, la parodia con la quale aveva debuttato. E in cambio non volle niente».
Carlo Franco, «Repubblica», 15 aprile 2017
Sintesi delle notizie estrapolate dagli archivi storici dei seguenti quotidiani e periodici:
- Mario Bernardini, «Corriere d'Informazione», 15 aprile 1967
- l.g., «La Stampa», 16 aprile 1967
- Angelo Falvo, «Corriere d'Informazione», 15 aprile 1967
- Aldo Scagnetti, «Paese Sera», 16 aprile 1967
- Pier Paolo Pasolini, «Paese Sera», domenica 16 aprile 1967
- Alfredo Orecchio, «Paese Sera», 16 aprile 1967
- Luigi Ricci, «Paese Sera», 16 aprile 1967
- Dario Argento, «Paese Sera», 16 aprile 1967
- «Corriere del Mezzogiorno», 19 aprile 1967
- «Il Mattino», 20 aprile 1967
- «Il Roma», 20 aprile 1967
- S.M. «Novella 2000», anno XLVIII, n.18, 30 aprile 1967
- Carlo Franco, «Repubblica», 15 aprile 2017