Totò, l'ameno spettro
Andavo dicendo da un pezzo che l'Italia aveva un mimo, forse un grande mimo: Totò. Mimica e coreografica mi pareva infatti la sua vis comica: e in quell'attributo vedevo la rara, rarissima originalità di questo attore fantomatico, il quale — non l'avete notato mai? — riesce comico avendo uno stampo tragico. E' non più l'uomo, ma lo spettro che ride. Qualche cosa che viene dal mondo delle larve, diretto al mondo delle burle. Egli è il lemure saltante e danzante d’un racconto d'Hoffmann o d'un sogno d'ebbro. È le gai revenant della ballata victorughiana. Quel pallore, quello stupore, quello scavato viso, quel corpo fantoccesco, privo di carne, e le cui ossa s‘immaginano attaccate a dei fili, quel procedere a scatti e strappi, quegli sporgenti occhi e quel flettile collo, di cui gli uni sembrano appartenere a un batrace, l’altro a un barbagianni, e questo e quelli a un quadro di streghe, non si direbbero certo ameni per definizione. Eppure scatenano l'ilarità, per un processo che in parte si spiega, in parte rimane misterioso. Anzi si può asserire che, in un certo senso, Totò è per sua propria, essenziale virtù il più lepido fra tutti gli attori comici della penisola.
Non ne conosco altri, per mio conto, cui debba di primo acchito un irresistibile disposizione a smemorarmi ed esilararmi. Per ciò io ardisco mettere Totò, senz'altro, in linea coi grandi attori grotteschi dello schermo americano. Il suo pallore è quello di Keaton, la sua magrezza quella di Laurel, il suo automatismo quello di Charlot, la sua stranezza fra burattinesca e demente quella d'un altro sommo attore transatlantico che l'italiano non conosce abbastanza: Harry Langdon. Come Langdon, l’interprete dei Tre moschettieri e de La banda delle gialle, realizza, a tratti, l'immagine d’un Pierrot, almanaccante e sublunare, caduto giù da una tregenda a far sue smorfie nel mondo dei vivi.
Totò apparirà presto sullo schermo, e si vedrà allora come la sua arte espressiva sia prevalentemente e potentemente pantomimica. Per ciò soltanto ho voluto parlarne da queste pagine. Se l’Italia avrà mai il suo film comico, questo, che fu sinora per noi la più lontana delle chimere, ma che oggi vuol essere tentato con fermezza da alcuni giovani cineasti d'ingegno e di volontà, non potrà avere come sua maschera principale che la maschera d’un simile attore, tramandataci intatta dalle farse atellane traverso le gloriose esperienze di Pulcinella.
Totò è nostrano, paesano al cento per cento: né si può rivedere la sua faccia piedigrottesca senza immaginare quelle che dovettero essere, « invase dai Numi », le recitò di quegli antichi mimi saltanti sugli otri e stridenti agli echi del circo che empivano di pazze risa il cielo di Partenope. Dalle testimonianze dei vasi atellani a quelle del teatro San Carlino, la fantomatica comicità di Totò, salente per iperboli vertiginose dalla più semplice smorfia ai parossismi della caricatura, dallo sgambetto volgare alla danza in ritmo perfetto, dall'oscènide qualunque a una vera e propria, ebrietà dionisiaca, ad aberrate ma mirabili trasfigurazioni; da quelle testimonianze centenarie e millenarie appaiono, secondo me, documentate tutte le fonti elementari dell'arte sua: la bazza, gli occhiacci, la scattante magrezza, il collo svitato ed allungabile; e, quindi, il lazzo erompente, la sgambata epilettoide, l'enormità detta con un supplice sguardo, la sozzura mobilitata da una specie d'inconscia, attonita serietà. Tutto ciò è molto mediterraneo, mollo popolare e molto antico.
E, finalmente, molto cinematografico. Il fatto visivo è infatti tutto, o quasi tutto, nelle recitie di Totò; rappresentazioni che non potrebbero certo essere gustate da un miope. Non dimentichiamo che la comicità napoletana, per spuria che sia divenuta, rimane figliuola della tarantella. La « zompata » permane alla base del suo dinamismo infantile, così innocente e così insolente. Una specie di convulsione, che la felicità degli spiriti riconduce volta per volta in ritmo, ne palesa l'interno fervore vulcanico: vibrazione tutta solare, come il trilla del mandolino o il frinio della cicala. In Totò questa convulsione è la vita stessa. E in Totò essa prende, impensatamente, grazie di toni e giustezze di cadenze che possono riuscire un incanto, oltre che un divertimento. All'improvviso, ecco che la sua comicità è danza. E danza esatta e completa, in cui tutti gli spiriti pazzarielli di quella larva d'uomo, di quel burattino dal volto di resuscitato, sembrano darsi la mano in una ronda ch'è al di là d’ogni logica, al di là d’ogni prescritto, sia nascendo da una improvvisazione, da un insurrezione che, veramente, è dionisiaca, tutto esprime e chiarisce, riassume e conclude. Fatto visivo, ripeto. E, dunque, cinematografico per eccellenza. Le parola, per Totò, quasi non contano, Poche ne pronuncia; e, si direbbe, smorte o scarne come lui.
La voce, rauca e stranita, non è che un'eco di voce. Non viene egli dal regno delle ombre; non è il lemure perduto fra i vivi; non è l'atomo semovente caduto in terra, come Cyrano de Bergerac, da un pulviscolo stellare? Si direbbe, a: volte, ch’egli neppure capisce quello che vede e che ode. E' in lui un'assenza, più ancora che un incoscienza. E allora le sue parole, pronunziate quasi automaticamente, quasi non consistono. Esse non gli appartengono nè ci appartengono. La sua presenza fra gli altri attori è casuale. Il suo è il monologo d’un matto fra gli specchi. Allora, fra stupito e compiaciuto di sé, comincia con delle sillabe, e finisce con una piroetta. Il matto si riconduce al caos.
Il fantasma si ritrova nel cosmo da cui è caduto. Si faceva l'altro ieri, a caffè, un paragone tra lui e Keaton, tra lui e Charlot. Charlot, dissi io, vuole stare nella vita d’accordo con il sogno; Keaton d'accordo con la legge. Totò, matto completo, non vuole e non può starci che d’accordo con la natura. E non appena natura lo richiami, eccolo atteggiarsi ai modi di quella danza cui ogni cosa naturale obbedisce, dall'atomo alle stelle. Allora che Totò, nei Tre Moschettieri, finisce in misura di balletto il suo duello con le guardie del Cardinale, e poi due ne ammazza a pistolettate, arrivando loro alle spalle in tempo di gavotta l'ilarità che ci prende ha veramente qualche cosa d'esaltato, che ci avverte come in quella comicità sia la presenza d’una lex risalente alle origini.
Sarà interessante, domani, veder rivivere nello schermo questo spettro senza tragedia, Pulcinella senza maschera, automa senza fili.
Marco Ramperti, «Cinema Illustrazione», anno IX, n.28, 11 luglio 1934
Marco Ramperti, «Cinema Illustrazione», anno IX, n.28, 11 luglio 1934 |