Totò, da lupo di mare a volpe di palcoscenico

1942 Orlando Curioso 000

Un aristocratico nel Varietà

Loda il mare e tienti al teatro. E’ questo il motto impresso a caratteri aurei sullo stemma artistico di Totò, il mirabolante comico partenopeo che in questi giorni manda in visibilio le folle al Politeama Rossetti. Il nostro Totò, dunque, era stato destinato dai disegni della gentilizia parentela (come è noto Totò è al secolo il marchese Antonio de Curtis) a diventare ufficiale di Marina. Ma l'uomo propone e l’amore dispone. Mentre si preparava per un solenne ingresso all’Accademia Navale, il marchesino de Curtis si innamorava cotto di una canzonettista che furoreggiava nei varietà napoletani.

Avveniva allora una istantanea metamorfosi da lupo di mare Totò si trasformava in volpe di palcoscenico. Preparati in fretta a furia i bagagli, il focoso marchesino scappava con la canterina e diventato più per necessità che per virtù, artista egli stesso, debuttava poco dopo al Teatro Diocleziano di Roma in un numero comico durante il quale eseguiva le imitazioni di Pasquariello e De Marco.

Se aveva trovato la via del cuore, altrettanto non poteva dire per quella dell’arte. «Il successo lo ottengo io — egli andava rimuginando — ma il beneficio resta agli altri». Si mise allora alla ricerca della propria personalità e attraverso una severa elaborazione artistica riusciva a creare il tipo che lo ha fatto prima comico d’Italia — secondo l’autorevole giudizio di Marco Ramperti — forse d'Europa.

Dopo qualche anno di permanenza nei teatri di varietà veniva scritturalo da Achille Maresca che creava per lui la grande Compagnia Isa Bluette-Totò di gradita memoria. Ben cinque anni Totò restava nel complesso mareschiano, trasformato in un secondo tempo con la immissione di Angela Ippaviz e Alfredo Orsini, e durante questo tempo «faceva le ossa» nel teatro rivistaiolo.

Poi un bel salto nel teatro di prosa. Ed eccolo al «Nuovo» di Napoli nella Compagnia dialettale Molinari, passata poi al «Fiorentini» dopo l'incendio del primo teatro ed ora scioltasi in seguilo alla morte dell’Aulicino e alla distruzione del secondo teatro colpito da una bombe durante un attacco aereo. Per due anni e mezzo Totò è attore di prosa, interprete del repertorio dello Scarpetta e sancarliniano (vale a dire della commedia dell’arte) ciò che ha singolarmente influito sulla maturazione del suo temperamento artistico.

Per un ritorno di fiamma, Totò ritrasporta armi e bagagli nel teatro della rivista e forma compagnia propria, prima scritturando come subretta Gioconda da Vinci e poi Clely Fiamma. Nove anni di capocomicato costituiscono il ruolino di marcia di Totò con la formazione che raccoglie ovunque grandi successi. Parecchi lettori la ricorderanno nella lunga tappa sulla scena del nostro Teatro Fenice.

Totò non sfugge naturalmente all'attenzione dei cineasti e fra un giro artistico e l’altro sostiene il ruolo del protagonista nel seguenti film: «Fermo con le mani» con Erzsy Paal, regìa di Gero Zambuto, «Animali pazzi» con Luisa Ferida, regìa di C. L. Bragaglia; «L’allegro fantasma» col Trio Primavera, regìa, di Amleto Palermi; «San Giovanni decollato» con Silvana Jachino, regìa del Palermi; «Due cuori fra le belve» con Vera Carmi, regia di Giorgio Simonelli.

In quest’ultimo film — ancora Inedito — Totò incarna un maestro di ballo. «Qui ho ripreso la mia strada» egli dice, e sorride contento.

— Continuerai l'attività cinematografica?

— Ho già un impegno per due film con la «Capitani» ma il mio proposito è di non strafare per avidità di guadagno. I film comici richiedono una lunga elaborazione anche spirituale. Il mio desiderio è di non fare più di un film ogni anno.

Ecco un sano proposito che dovrebbe trovare molti imitatori. Non ci stupisce che lo esprima Totò, attore che non tradisce la propria nobiltà di razza anche nell'esplicazione della sua missione artistica. Sul palcoscenico Totò è un personaggio... pirandelliano. Rinchiude in sé due anime perfettamente fuse ma ben identificabili; quella del comico e quella dell’aristocratico.

A volte il contrasto balza evidente fra l’atteggiamento mimico e la sostanza umana, ma solo gli spiriti attenti e adusi all'analisi lo gustano nella sua esplicazione teatrale. Inguainato nella marsina, Totò sembra un pinguino. Anche per l'andatura arrancante, da quel vecchio lupo di mare che doveva diventare e che strangolò per trasformarsi in volpe di palcoscenico. Un tipo inconfondibile, di taglio classico, che imprime ad ogni più piccolo gesto o movenza o al giuoco della fisonomia qualcosa di radicato nella propria sensività. Ecco perchè Totò, pur avendo parecchi imitatori, è inimitabile.

Vi preghiamo di osservare Totò nella scena di Orlando alle prese col timbro. Apparentemente è un esercizio buffonesco, mentre l’occhio clinico vi scorge l'intima tragedia del travetto alle prese con quello che egli ritiene il simbolo dell’autorità Si sghignazza, ma rimane in bocca un poco di amaro.

Pazzo, Totò: ma di quella pazzia che maschera il genio. Mascella spiovente a destra, occhio trivellatore, sorriso mefistofelico. Una maschera del teatro dell’arte. Il mare ha perduto un pessimo (forse) capitano, il teatro ha guadagnato un grande (autentico) attore. Scritturato per l’America, Totò non ha saputo staccarsi dalla sua terra e dal suo pubblico.

— Mi volevano mandare all'altro mondo — commenta — ma per questo c’è sempre tempo. E da buon napoletano fa gli scongiuri di rito.

Lino Campanini, «Il Piccolo delle ore diciotto», 5 febbraio 1943


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Lino Campanini, «Il Piccolo delle ore diciotto», 5 febbraio 1943