La «prima» senza gerarchi, ovvero il doppio gioco di Totò
Il 26 giugno giugno, al Valle, ho assistito, finalmente, a una prima senza gerarchi. La platea, i palchi, il loggione erano zeppi di spettatori, fin dal giorno avanti il mortificante cartello con la scritta "Esaurito" era issato sul botteghino come un‘insegna di guerra, tuttavia le facce che s’intravvedevano, nella ressa e nel pigia pigia, apparivano completamente nuove. Non contesterei l'ipotesi che ci fossero anche facce false, ma di certo che quella era una « prima » veramente «prima ». Più che a un debutto si pensava a un‘inaugurazione. Facce nuove, dappertutto volti ringiovaniti e sorrisi aperti o cordiali, E, tutto sommato, era un avvenimento dl una certa importanza nel mondo del teatro. Una « prima » - anzi la prima « prima » senza gerarchi. Chi scrive quante e quante, per dovere professionale, ha dovuto vederne, riboccanti di brutte facce, di ceffi preoccupanti, di barbe forti e quadrate — barbe che facevano senz’altro pensare alle illustrazioni dei libri osceni e alle cartoline pornografiche —, di grinte minacciose forgiate a serie sul Grande Modello, di occhi imperiosi che s’avventavano a frugare scandalosamente tra i veli delle ballerine.
Oh sinistro ricordo, di quelle « prime » di prima, quando i bagliori coreografici dei palchi riservati alle personalità, che protendevano i loro petti a sonagli come per offrirli con alterigia al plotone dl esecuzione, vincevano i capricci e l’estro del regista o del disegnatore sul palcoscenico. Qui c'era il palco nel quale, un tempo, a metà dello spettacolo, faceva fragorosa irruzione Achille Starace, in questa o in quell'altra divisa. Una sera fu visto, persino, vestito da cavallerizzo. Nessuno osava zittire un cosi volgare disturbatore. L’eminente gerarca prendeva posto tra i cortigiani del seguito, qualcuno dei quali lo teneva minuziosamente aggiornato sul movimento dello ballerine e agli sciagurati del palco accanto, era inflitta l'immeritata mortificazione di vedersi guastata la serata da quella faccia che, sintomaticamente, richiamava certe caratteristiche interpretazioni del comico Agostino Salvetti. Duo o tre palchi più in là, non mancava Teruzzi, sempre pronto a sorridere ai giuochi di parola e al doppi sensi. E poi, disseminati dappertutto, gli altri: Alfieri (dallo sguardo ottuso e inespressivo, di chi, in aperta campagna, sla stato raggiunto e denudato dal fulmine; Bottai il mulatto, l’euforico Freddi, il ridicolo Buffarini, il pavido Mezzasoma dall’aria selenitica, il goffo Adelchi Serena, l’analfabeta Ricci che metteva in mostra la sua testa ricordante quella di certi clowns contro cui s’infrangono le bottiglie nel circhi equestri.
Poi, c’era la serra dei consoli della milizia, appiattati nei loro posti nell’atteggiamento di chi tende un agguato: volti per lo più deturpati da strabismo o da cicatrici, corpi flaccidi da fannulloni adagiati nell'ozio e nelle prebende, criminali dai piedi dolci, sanguinari senza coraggio, eroi da garconniéres periferiche, dall'aspetto, più che altro, postribolare. E insieme coi gerarchi, c’erano le loro amanti; le impellicciate, le ingioiellate, le pacchianissime amanti del gerarchi, attrici e attricette, alcune ex-lavandaie qualche ex-dattilografa e non mancavano signore della buona società. Negli ultimi tempi tutte erano state battute in breccia da Doris Duranti, la quale, per tacere degli altri, divideva il suo corpo tra un putrido avanzo dell'industria cinematografica e il giovane ministro della cultura popolare, Alessandro Pavolini. Anche di questi, in qualche occasione di prime spiccava la testa a dirigibile, dalla fronte capace, dall'occhio sinistro che preannunziava il criminale segretario del partito fascista repubblicano. Negli ultimi tempi, per qualche sera, si potè scorgere persino Gaetano Polverelli, più che mai austero e deciso, come Catone il vecchio, e non deporre la sua gravità, nonostante l'ambiente sbarazzino e lo spettacolo gaio o qualche volta, addirittura scurrile.
Solamente un memorabile discorso dei duce aveva il potere di richiamare tanti gerarchi come l’annunzio di una nuova rivista teatrale. Gli spettacoli organizzati da Frasca, Colonnelli. Gigante e Bel Amì, si risolvevano, nell'esilarantissima serata dei debutto, in una sagra di gerarchi fieramente convenuti come per un mistico rito al « covo » o a Predappio. Totò li entusiasmava come un discorso dl Del Croix, Riento li esilarava come un motto di, spirito del duce contro Roosevelt o Churchill, Fabrizi prodigava ai loro spiriti un godimento di natura superiore, Ciccio Formaggio li galvanizzava come l'annunzio di una vittoria imperiale. E aveva, tutto questo, la sua profonda ragione. Nell’intimo della loro incoscienza, i marziali collaboratori e sottocollaboratori dell'insonne pilota, oscuramente avvertivano come uno strano quanto tenace senso di solidarietà li legasse ai personaggi del teatro di rivista e di varietà.
Vi dicevo, or dunque, che il 26 giugno segnò una data nella storia dei teatri della capitale. Una specie di 25 luglio degli spettacoli di rivista. La prima « prima » senza gerarchi. Ma non vorrei essere frainteso. Qui è necessaria una precisazione. Perché, a essere esatti, i gerarchi nel teatro non mancavano. E non si trattava di elementi trascurabili, anche se irresponsabili. Gerarconi, gerarchissimi, gerarchi dei gerarchi. Solo che non erano tra il pubblico, ma, finalmente, nel palcoscenico. E, primi fra tutti, scorgemmo Hitler e Mussolini, protagonisti della nuova rivista di Michele Galdieri «Con un palmo di naso ». Fino a qualche tempo i due compari hanno campeggiato nella scena della politica internazionale, è giusto che ora dominino le scene della rivista teatrale e del varietà. Dagli equilibrismi diplomatici al contorsionismi da palcoscenico, dalle danze campestri dopo le « storiche » trebbiature alle meno impacciate esibizioni delle ballerine di professione, il tratto è breve, facile a essere colmato col passo dell'oca e con quello romano.
Totò era il Fuehrer, ed era anche il duce; e mai come questa volta, fu soprattutto Totò. Egli era compreso, naturalmente, della storica importanza del doppio ruolo che Galdieri gli aveva caricato sulle spalle: si rendeva perfettamente conto della grande portata dell'avvenimento, dell'eco quasi mondiale che le sue parole erano destinate a suscitare. Rifare il verso al duce, e anche al fuehrer, è già troppo facile, è un gioco da bambini. Ma Totò non mirava a facili successi demagogici, sia pure sull’esempio dei suoi eccezionali personaggi: né per questo comico di razza - parliamo sempre di Totò, non del fondatore dell'impero - ha eccessivo valore la rassomiglianza fisica. Ne ha invece, e sostanziale, quella metafisica. Vedete, cosi, il suo Hitler.
L’allucinazione, la follia, l'isterismo, il cupo misogenismo, la leggendaria agitazione nervosa, i tic, i sussulti della tesa epidermide, gli sguardi perduti, l'esasperante monomania del dittatore teutonico, il suo siderale cinismo, la frigidità della sua coscienza, l'insensibilità del suo animo, la nibelungica dannazione di tutta la sua esistenza: in quale rapporto segreto d’incallito diplomatico, in quale relazione di esperti internazionali, in quale resoconto giornalistico, sono così evidenti e chiari e parlanti come nella faccia di Totò, nel giuoco diabolico dei suoi occhi, dei suoi nervi, dei suoi muscoli, nel moto perpetuo dei suoi arti, nei colpi di scena dei suoi tempestivi cachinni? Totò parla con la sua voce, la voce delle sue più celebri creazioni, delle sue più fortunate interpretazioni, e sul palcoscenico c’è, invece, Hitler, col suo monotono frasario, i suoi sciagurati propositi, la sua triste megalomania. Più che dei malfamati baffetti, più che del ciuffo spiaccicato sulla fronte, Totò si avvale di una carnevalesca gibbosità, una bella gobba a levante sotto la quale pare che il bieco dittatore pieghi come sotto il peso delle sue inespiabili colpe, dei suoi insopportabili rimorsi. Quella deformità fisica — che esprime e riassume coreograficamente degenerazione e sfacelo interiore — è la grande trovata di questa felice creazione. Questo di Totò, così sinistro e gobbo e sciancato e peggio, è un Hitler di leggenda, come, un giorno apparirà alla fantasia popolare, la quale non potrà mai arrendersi all'idea che i volti dei dèmoni non siano semplicemente paurosi e quello di Nerone non sia un volto di demonio. Incontrandolo nell'inferno di Dante, Gustavo Dorè non avrebbe ritratto Hitler in maniera dissimile da Totò.
E anche il duce ha avuto la sua parte; una parte, logicamente, dl secondo piano. Ma non credo che debba esserne contento. Galdieri e Totò anche qui hanno avuto la mano felice. Altri, forse, avrebbero pensato all’apparizione improvvisa, sul palcoscenico, del protettore dell'Islam che pugnacemente brandisce la scimitarra o del fondatore dell'impero in sella al cavallo bianco in attesa di entrare in Alessandria di Egitto. Nella rivista di Galdieri niente dì tutto questo; e non v'è traccia neppure dell’adusto trebbiatore, del flebile violinista, del minatore ardimentoso, del gagilardo nuotatore, del primo bersagliere d’Italia, eccetera; e nemmeno, incredibile a dirsi, del dinamico dongiovanni intento e spezzare le reni. No, egli è comparso truccato semplicemente da Pinocchio. Con molta opportunità Totò ha voluto rendere giustizia alla sola divisa, fra le tante, in cui, ai suoi bei tempi, colui avrebbe avuto pieno e incontestabile diritto di pavoneggiarsi davanti alle folle deliranti e agli obiettivi dei fotografi. Burattino che parla (al mondo) con la voce tagliente e perentoria del « Salvatore della Pace », e per bocca di Totò: dovete convenire che è una trovata irresistibile.
Nel giorno del debutto la rivista conteneva un quadro che oltre ad essere il più bello dello spettacolo, si sollevava di molto sulla corrente produzione di questa contaminato genere di teatro per un suo particolare vigore satirico e, oso asserire, per una sua bizzarra poesia. Un quadro che si può definire un vero e proprio pamphet, un libello violento e indovinato, di quelli che mirano giusto al loro obiettivo e colpiscono mortalmente. Molti spettatori, tuttavia, hanno trovato che il finale era « volgaruccio », come se la satira di uomini corrotti e volgari potesse contenersi entro i fragili argini dell'eufemismo e della rispettabilità borghese, della battuta convenzionale o della risaputa allusione.
Solo qualche anno fa la gente trovava normale — quando, addirittura, l'avveni mento non la riempiva di commozione — che le salme di dodici teppisti fiorentini definiti « martiri », fossero ritolte all’accogliente madre terra, che già aveva perdonato, per essere trasportate a profanare il tempio di S. Croce; e non più di sette od otto mesi or sono molti romani guardarono, non voglio dire con compiacimento, ma con indifferenza, come se si trattasse di un normale episodio di vita cittadina, le fotografie pubblicate dal giornali, nelle quali era ritratto il « federale » Bardi — lo sfrenato invertito sessuale, il bieco operatore di arresti e sequestri di persona, il furioso « torturatore, di Palazzo Braschi — che s'accostava oscenamente alla mensa eucaristica. E, ora, c'è chi ha il coraggio di trovare « di cattivo gusto » che si faccia finire in un luogo di decenza il protettore dell'Islam e di tutti i criminali d'Italia, tumulati in S. Croce o ancora in vita — e speriamo per poco — come Bardi.
Il quadro incriminato, infatti, raffigura Hitler che, secondo i piani prestabiliti, dal grande salone delle sue teatrali udienze, via via si « sgancia » verso saloni e sale sempre più modesti, finché estremo baluardo della sua ritirata, non gli resti che il numero 100, dove, naturalmente trova —- in effige — asserragliato il suo migliore amico. Con gesto rapido e crudele, il nuovo venuto tira la catena e, immediatamente, l'ex alleato affonda tra i flutti gorgoglianti, scompare lentamente negli indefettibili abissi senza tuttavia dimettere la consueta fierezza, solenne e austero come una nave ammiraglia. E’ l'ultima esecuzione perpetrata dall’ex Imbianchino, già visibilmente preda del dèmone degli autoaffondatori.
Dopo la prima sera, questo impareggiabile finale fu stoltamente eliminato. Che ci sia ancora gente che non riesce a familiarizzare col luoghi di decenza, anche adesso che, di nuovo, può servirsi del water closet?
Mercutio (Vincenzo Talarico) «Star», 12 agosto 1944
Mercutio (Vincenzo Talarico) «Star», 12 agosto 1944 |