Orio Vergani al cinema: Il ratto delle Sabine
Anche Charlot ha trovato lentamente la sua « maschera », e il suo personaggio è nato lentamente. E’ stata una maturazione lenta, un lento progredire dal seme delle prime comiche di duecento metri fino ai «colossi» di duemiladuecento metri. Probabilmente se Charlot, trentacinque anni fa, avesse dovuto debuttare con un film di due chilometri di lunghezza, che avesse richiesto un grande investimento di capitali e il consiglio di qualche mezza dozzina di produttori e del loro parenti e amici, Charlot non sarebbe venuto al mondo. E' nato, Charlie Chaplin, nel ritagli di tempo del primi « studi » con dei filmetti che, se andavano male, non rovinavano nessuno. La sua nascita fu senza pretese a la sua infanzia cinematografica non fu sorvegliata da bambinaie esigenti. Quanto costavano i cortometraggi del primo Charlot? Se ne sfornava, probabilmente, uno alla settimana. Due o tre attori, qualche comparsa, alcuni fondali di carta, qualche pila di piatti da rompere, un mastello di panna da rovesciare in faccia a qualcuno. Ogni filmetto voleva dire una nuova esperienza, un passo avanti sulla via che partiva dall'umorismo delle tavole del music-hall inglese, dove era nato il comico «flemmalico» Charlie Spencer Chaplin per arrivare al teatro di vetro dove nasceva la narrativa cinematografica o dove veniva al mondo Charlot, incrocio di Pierrot e di Fortunello. Gli « studi » della comica finale vivevano nella stessa dimessa e intelligente povertà degli studi, dove al di qua dell'Atlantico, si combatteva la battaglia per la pittura moderna. Charlot, non dimentichiamolo, è un contemporaneo di Amedeo Modigliani. Se a Modigliani avessero dato da dipingere gli affreschi del Palais Bourbon, la pittura moderna, con ogni probabilità, non avrebbe scoperto qualcuno dei suoi più toccanti segreti. Cosi sarebbe accaduto e Charlot, se avessero fatto girare Le luci delta città o Il Monello nel 1910.
Totò — facciamo il paragone fra i due comici, l'inglese e il napoletano, perchè anche il napoletano ha in sè il seme di una grande maschera e di un grosso personaggio non ancora espresso — ha lai disgrazia di esser nato in un tempo in cui le comicità finali non usano più. Immaginale che in letteratura per esemplo, si imponesse a uno scrittore di cominciare dal romanzo di cinquecento pagine, senza passere per la trafila della novella o del racconto. Anche il miglior temperamento di narratore verrebbe, almeno in qualche capitolo, tradito. Cosi accade a Totò, la cui grande esperienza di palcoscenico non porta, nei cinema, un vero vantaggio, perchè il personaggio cinematografico è, se non all'opposto, molto lontano dal personaggio teatrale. La scoperta dei «personaggio cinematografico Totò» non può avvenire per gradi. L’albero è poi cresciuto, coi suoi rami e con le sue fronde. Lo si trapianta, abbastanza bruscamente, si cerca di farlo acclimatare in una nuova aiola che è addirittura un nuovo continente. L'albero è forte, ma molti rami muoiono e molte fronde avvizziscono. La teatralità sopravvive, coi suoi valori, a sprazzi, ma lo spettatore ha l'impressione costante che la macchina da presa, sia collocata — come al tempi in cui si filmavano le rappresentazioni di Sarah Bernhardt e di Le Bargy — al centro di un palcoscenico, se non addirittura nella buca del suggeritore. Lo stesso è accaduto, quindici anni fa, e peggio, nei film di Petrolini, che erano nè più nè meno che la fotografia dei suol spettacoli. L'esigenza del duemila metri e del quindici o venti milioni di costò di un film in due tempi porta a questi trapianti che risultano praticamente sterili. La produzione si accontenta di fotografare Totò, e di coglierlo al varco di due o tre passaggi. Il personaggio resta sordo e senza vita, anche se, nel momenti di risveglia dal letargo teatrale o dal dormiveglia della piccola comicità farsaiola, mostra di esser nato per qualcosa di più.
Il problema del comico, al cinema, è, come nelle altre arti, abbastanza complicato. Charlot ci ha abituato male: ci ha abituato male non tanto questo attore, quanto come autore. Potrebbe, Totò, esser l’autore di se stesso? Non lo so, ma lo dubito, perchè egli è pur con grandi qualità, figlio della comicità dei varieté italiano, che ha avuto come modellatore indimenticabile Petrolini, e della comicità del piccolo teatro napoletano, col suol sottoprodotti da café-chantant. Pure, un personaggio cova in lui, e c'è qualcuno sotto la maschera del suo viso spettrale, dalla comicità sinistra che odora di miseria, di rassegnazione e addirittura di morgue. Totò ha proprio l’aria di essere un personaggio in cerca d’autore, un elemento della natura che aspetta di essere utilizzato. Dove va a parare la sua comicità astratta, il suo umanesimo innocentemente surrealista? Non saprei dirlo, qui su due piedi, perchè altrimenti potrei dire di avere scoperta la « formula » felice per un film che forse non sarebbe dimenticato. Certo che la sua formula non è quella del Ratto dette Sabine.
Diffidate in genere, al cinematografo, di quelli che si chiamavano un tempo i « cavalli da battaglia » dei più famosi brillanti. Ermete Novelli era atteso nella parte del capocomico Tromboni come si attendeva Tamagno nella « pira » del Trovatore. Due o tre generazioni di spettatori del teatro di prosa hanno riso alla vicenda del povero guitto, che arrivato in provincia coi suoi affamatissimi comici, scova un ignoto autore drammatico e porta sulla scena il suo «Ratto dello Sabine». Farsa in tre atti, generosa di una comicità da spettacolo pomeridiano per famiglie. La commedia è stata ridotta anche per tutte le scene dialettali, e la dlalettalltà gli è stata conservata anche nei film. Ma Totò è, al tempo stesso, qualcosa di più o qualcosa di meno di Tromboni; è di più perchè ha in germe una maschera che supera, per il sintetismo della sua comicità, l’umorismo verosimile del suoi compagni di recitazione, Campanini e la Matania; qualcosa di meno perchè, quando non è più maschera, ma dev’essere, come gli altri, attore, il passaggio fra i due toni è fatalmente a suo svantaggio. L'equilibrio tra il farsesco e il comico , non è raggiunto, perchè la vitalità comica di Tromboni non è quella di Totò, e i due personaggi si rincorrono inutilmente. Solo in qualche momento coincidono. Nel resto del film si scontrano, o l'uno cancella l'altro.
Eppure, quale attore, appunto, in quei tali momenti! Liberatelo dall’imbottigliamento degli effetti facili che infarciscono tante parti del film, fino a farlo sembrare una antologia di tutti i più vieti mezzucci comici, e portatelo, per esempio, al momento in cui, mentre la rappresentazione della tragedia dell’autore provinciale sta per andare a scatafascio, gli attori la trasformano, di botto, in melodramma, e improvvisano un terzetto canoro. E' il punto in cui si salva tutto il film, il momento in cui la comicità farsesca fa un passo in su, e tocca un gradino veramente felice, su cui la regia del vecchio Bonnard ha saputo sostenersi per qualche minuto con la sapienza che forse è stata suggerita all'antico divo del muto italiano dalla sua esperienza con gli spettacoli del suo amico Petrollnl. Ma è probabilmente alla regia che va fuor di misura, o che concede troppo all'invenzione dei comici, che si deve imputare l’effetto scolorito di alcuni passaggi che vorrebbero essere invece pieni di colori, come nella scena del solletico contagioso o del parapiglia in teatro. Forzata la mano al farsesco, la comicità si rompe le corna contro il muro, e, quando, da questo farsesco frenetico si torna al piano della media comicità, i due toni non si fondono, e sembra che la regia sia affidata a mani differenti, e interviene una mediocrità che chiameremmo dopolavoristica, un gusto esclusivamente parodistico che non supera il livello del medio variété.
Come trenta o quarant'anni fa accadde per Petrolini — quando il primo elogio per l’attore romano tu detto da Bontempelli e dagli scrittori d’avanguardia — Totò è portato sugli scudi da qualche scrittore che ha intuito, come ha fatto Zavattini, la misteriosa vitalità, del suo personaggio ancora embrionale. Petrolini ascoltò, ringrazio, o continuò a fare a modo suo. Era un grande attore, e tale rimase. Fu un mediocre attore da cinema. Non vorremmo che qualcosa di simile accadesse a Totò, se egli non saprà imporre ai suoi produttori di consentirgli di andare in cerca di sé
stesso, e non dei vecchi personaggi della ribalta del teatro comico. Date a Totò, nel campo comico, qualcosa che abbia il respiro che nel drammatico ha, per esemplo, la Leggenda di Lilloni. Sia una maschera, una marionetta fantastica, un attore, magari, da comica finale. Non faccia quello che farebbe meglio di lui Edoardo Da Filippo, nè quello che tanto meglio ha fatto, a cominciar dal camminare, Charlot. Non si affidi all'umorismo dei settimanali umoristici e delle papere. Non creda al gigioni dalla produzione. Non permetta le antologie di capitomboli, di giganti, di donne grasse in mutande, di affamati magrissimi. Cerchi se stesso.
Orio Vergani, «Film d'oggi», anno II, n.14, 6 aprile 1946
Orio Vergani, «Film d'oggi», anno II, n.14, 6 aprile 1946 |