Totò al Lirico - Gli occhi più disillusi del mondo
Il tubino e la redingote sono quelli di Charlot, certe intonazioni sono ancora di Ettore Petrolini, il naso e il mento sono quelli di Pulcinella. Da questo incrocio è nato Totò. Totò il buono come lo ha chiamato Zavattini un po' uomo, un po' angelo, un po’ marionetta, e un po’ clown come del resto, al suoi tempi, è state Charile Chaplin. Un comico che fa ridere con le ossa, muovendo gli angoli più imprevisti dello scheletro. Si muove, nei momenti di parossismo, come si muovono sulla lavagna i quadrati costruiti sui lati del triangolo del teorema di Pitagora. Data sua origine napoletana, non è forse ingiusto ricordare, a suo proponilo la geometria di certi gesti dei mimi greci, tramandati nella pittura del vasi ellenici. A questa violentissima capacità di pantomima — tra tante donne belle Totò sembrava ieri sera, con indosso la sua redingote color vecchio ombrello, veramente il pantin, il burattino di La femme et le pantin di Pierre Louys — si accompagna, per contrasto, l’alta mestizia degli occhi più disillusi del mondo. La bocca sorride e si illude, bonaria, gli occhi non credono alla favola gaia entro la quale vivono, il corpo balla e si scompone come nel grottesco di una danza macabra. Un personaggio che sarebbe piaciuto al Goncourt, per il suo verismo, e, per la sua fantasia, a Gautier. Nelle cronache del teatro francese del Secondo Impero c’è la storia di qualche comico spettrale, che piacque anche a Victor Hugo. Non è, del resto Zavattini, profeta letterario di Totò, il romantico degli angeli e dei poveri?
Totò ci ha mandato a casa all'una passata, attraverso una Milano mortalmente buia e piovosa. Finiti gli applausi dell'ultima «passerella» la gente si è dimenticata dei grigi camerini, delle ragazze che, levato il bianco di zinco non solo dalla faccia, ma da tutto il corpo con ruvide salviette, si sarebbero disperse freddolose verso le due di notte nella nebbia. La gente si riportava via, entro i baveri alzati, senza speranza di tranvai, il ricordo di quella bonaria faccia allampanata e di quelle sgambettanti ragazze. Domani ricomincia Il lavoro, e gli aficionados discuteranno fra di loro, fra una pratica e l’altra, di chi è meglio: se Macario o Totò, se Wanda Osiris o Taranto. Il Lirico sta diventando una specie di Scala minore, una Scala del music-hall. Queste prime prendono proporzioni wagneriane.
Gira e rigira nella memoria, scopriremo che le riviste si assomigliano tutte, perchè le gambe nude son sempre gambe nude, e le canzoni sono tutte cugine fra loro, maliziose cugine. La memoria sarà tutta, un giorno, rappresentata da un nome, dal ricordo di un accento e di un'occhiata. Questa rivista, per noi, si chiama Totò, anche se attorno a lui abbiamo visto donne non facilmente dimenticabili, come Vera Worth, Adriana Serra, la Giusti e la Marino. Totò si fa perdonare le lungaggini, la mediocrità di certi dialoghi che in principio avevano inquietato qualcuno del pubblico. Il finale del primo tempo, finale senza parole, una sarabanda frenetica di pura comicità clownesca, è un bel pezzo di arte dello spettacolo. Molti applausi. Titolo: «Ma se ci toccano nel nostro debole...», che non ha, naturalmente, niente a che vedere con il testo.
Orio Vergani «Corriere della Sera», 8 marzo 1947
Orio Vergani «Corriere della Sera», 8 marzo 1947 |