Totò racconta: a Barcellona non dormono mai
A Barcellona non dormono mai. Si vede — mi direte — che soffrono d’insonnia; e invece no: a Barcellona non soffrono l’insonnia, ma non dormono mai lo stesso. A tutte le ore della notte e del giorno, senza soluzione di continuità, i barcellonesi affollano le ramblas, le avenidas, le plazas, i caffè e i tabarin, i teatri e i negozi: insomma, la notte è giorno come il giorno è giorno. Non ho mai capito se gli abitanti della metropoli catalana si avvicendano a turni regolari, dalla notte al giorno, o sono sempre i medesimi che, ventiquattr’ore su ventiquattro, restano in piedi a sbrigare i loro affari, si divertono o vanno a zonzo per la città. Barcellona, che, dunque, ribolle sempre di vita a tutte le ore, sotto la luce del sole o sotto quella delle lampade elettriche, è incantevole, e molto simile, per molti aspetti, alla mia Napoli. Forse, anche per questo, è incantevole, pur avendo essa caratteristiche urbanistiche che, in talune zone, la fanno apparire come un angolo di Parigi, di Roma o di Torino. Sulla rambla de flores, però, e su altre ramblas minori, è marcata l’impronta catalana che non subisce paragoni.
E le donne? Qui ti volevo! Le donne catalane sono veramente bbone: brune, formose, occhi neri e vivaci; ecco: questo delle donne è un aspetto della città che avvicina Barcellona a Napoli. E se poi ti capita, magari per istrada, di udire una frase come questa: Puedo pesear està manera (Posso passeggiare in questo modo), allora ti volti di scatto, perchè credi che chi l’ha pronunciata sia proprio napoletano. A Napoli, infatti, la stessa frase si traduce, in dialetto: Pozzo passia 'e sta manera. Ma è un barcellonese che ha parlato, lo stesso che direbbe: abbaha el cap (abbassa la testa) che in napoletano si dice: Abbascia 'a capa. Ah, Napoli, bella mia! Se non sapessi che per molti anni gli spagnoli ti dominarono, finirei per credere che tu hai dominato la Spagna e la Catalogna e Barcellona, sì da lasciarvi l’impronta dei tuo dialetto. Tuttavia un dubbio mi assale: sono stati gli spagnoli a imbastardre il napoletano, durante quegli anni, o i napoletani a partenopeìzzare lo spagnolo?
Ora voi, cari amici lettori di Gazzetta Sera, mi domanderete: che razza dì discorso viene a farci Totò ritornando a Torino? Che c’entra Barcellona col Carignano o con la nuova rivista che stasera si rappresenta per la prima volta in questo teatro? Ognuno parla di quel che sa (A prescindere dal fatto che molti parlano di ciò che non sanno). Io so di Barcellona perchè ci sono stato, e perciò ve ne parlo. Del resto, non sapevo come cominciare quest’articolo richiestemi dagli amici di Gazzetta Sera, e Io spunto di Barcellona, mi è parso buono. Inoltre ci tenevo a farvi sapere perchè, come e quando sono stato laggiù, anche se io sono alieno dal parlare di me. Permettetemi, dunque, di raccontarvi com’ è andata questa faccenda di Barcellona. L’autunno scorso, mentre mi godevo l’annuale riposo nella mia abitazione romana, Gisa Gert, la nota coreografa che anche il pubblico torinese ebbe modo di apprezzare in diverse riviste di Schwarz, di Galdieri, di Nelli e Mangini e di altri, mi invitò da Barcellona a prendere parte a una rivista che colà stava per essere allestita al Teatro Comico Barella.
L’avventura mi piaceva, il contratto mi soddisfaceva; accettai, e in novembre m’imbarcai a Genova, con Mario Castellani, accompagnato inoltre da mia moglie e mia figlia, che col teatro non hanno niente a che fare, ma che da me non sanno distaccarsi. Partenza uguale a tante altre; viaggio come tanti altri; niente di speciale, neppure il mal di mare. Arrivo, e subito le prove della rivista. Bisognava imparare questa e anche il catalano di cui non conoscevo una parola. Castellani e io ci guardammo in faccia, ma non ci perdemmo d’animo. Pochi giorni di assiduo conversare con persone del posto, di intense ripetizioni delle parti assegnateci, scritte in catalano, di frequenti visite persino nel malfamato «Quartiere cinese» per apprendere l’argot, ed ecco che eravamo a posto. La rivista Entro dos luces (Fra due luci) andò in scena e con essa avvenne il mio debutto barcellonese.
Sono il meno adatto a dirvi come andò questo debutto. Certo si i che dapprima l’impresario venne a pregarmi: «La smetta di parlare cosi bene il catalano; ci metta dentro degli strafalcioni, altrimenti qui crederanno ch’è un trucco l’annuncio dello spassoso comico italiano»; poi azzardò di rinnovarmi la scrittura per altri dodici mesi; poi ancora il pubblico mi tributò gli onori che usano al torero vincitore. I quali onori consistono nel grido unanime di « Olè! », nel lancio dei sombreros (ossia cappelli) sul palcoscenico e quindi nello sventolio di fazzoletti. La cosa andava bene; quel che non mi garbava erano i due spettacoli giornalieri, uno alle 17 e uno alle 22, in realtà non poco sfibranti. Anche Emma Gramatica, venuta pur essa a Barcellona con la sua Compagnia, dovette sobbarcarsi a questo gravoso compito, ma non resistette più di un mese ed emigrò per altri lidi, cosicché, nonostante il successo, gli onori da toreador e i molti quattrini che guadagnavo, non potei accettare il rinnovo della scrittura (che mi avrebbe fruttato, in capo a un anno, oltre trenta milioni di lire) e, dopo tre mesi, agli inizi del febbraio, me ne tornai in Italia.
Quest’è la mia avventura barcellonese, lieta avventura di cui serberò sempre un grato ricordo, non fosse altro che per aver portato un po’ di buonumore italiano in terra straniera.
Totò, «Gazzetta Sera», 5 giugno 1947
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Totò, «Gazzetta Sera», 5 giugno 1947 |