Le Vocazioni di Totò

1948 Le vocazioni

1948 02 14 Tempo intro

Da ragazzo voleva farsi prete e studiò in seminario; più tardi divise la sua vita fra due grandi vocazioni: quella di fare il principe e quella di fare Totò

Il primo capocomico di Totò — capocomico autentico, cioè, e non direttore di baraccone — fu Vincenzo Scarpetta, figlio di quel famosissimo Eduardo, eroe del teatro ottocentesco partenopeo, capostipite(e tale non soltanto in senso figurato, ma anche fisico) di tutta una generazione di attori comici. Quello stesso Eduardo Scarpetta al quale una, volta dal loggione gridarono: «Don Eduà, tiene ’e ccorna », al che lui, con spagnolesca vanteria, rispose: «Sì, ma so' ccorna riale!», alludendo al torto che gli aveva fatto, secondo l’opinione pubblica, il primo re d’Italia. Torto del quale egli si rifece a suo modo, come ho alluso più sopra, seminando il mondo di figli che non portarono il suo nome, ma portaron bensì sui palcoscenici tutto lo splendore, il talento, la vivezza del suo sangue teatrale.

Vincenzo Scarpetta 03 L

Non a caso dunque incontriamo il nome di uno Scarpetta ai primordi di Totò, le cui origini sceniche si perdono in una antichità remotissima, e non per questione d’anni, bensì di tradizione, di ambiente. Totò ha le sue radici piantate nell’«humus» che fu il teatro napoletano degli Scarpetta o dei De Marco, in una vera società teatrale insomma, confusa, formicolante di ingegni, spaziata nel tempo, su due secoli. Per questa ragione Totò è uno dei più forti attori — dico attori e non comici — italiani e forse europei. Al pari di un altro Eduardo, il De Filippo.

Ma quel debutto di Totò su un palcoscenico regolare non fu felice. Avvenne a Roma. Totò fu licenziato dopo la terza sera, perché la sua unica «uscita» (faceva il cameriere che non parla) provocava nel pubblico una misteriosa ilarità. E don Vincenzo Scarpetta disse che in compagnia il comico era lui. Qualcosa di simile disse un poco più tardi anche ai fratelli De Filippo. Povero don Vincenzo, le sue gelosie non gli portarono fortuna: le «ccorna riale» non sono evidentemente bastevoli a fare un attore di successo.

Intanto Totò era tornato al «café-chantant» dal quale proveniva, dopo una brevissima parentesi lirica (fece la comparsa, il soldato egiziano, nell’Aida, e ve lo potete figurare). Il «café-chantant» a Napoli si faceva in via Forìa, in quel settecentesco teatraccio Mercadante, dove gli spettacoli del genere si alternavano a quelli delle marionette. Totò vi era capitato a diciassette anni, adolescente smagrito da una irrefrenabile vocazione e dai digiuni, dopo essere scappato di casa. Aveva avuto una buona educazione, aveva studiato ed era stato persino in seminario, a Lecce. Anzi, la sua prima vocazione era stata quella del sacerdozio. Voleva esser prete, sinceramente, per misticismo. E gli è rimasta sempre sulla pelle, questa vocazione soffocata, sotto il cerone e sotto le sue grandi giacche da clown. Ancor oggi Totò è un ottimo cattolico praticante, dotato di profonda religiosità. Magari eccessiva, com’è nella sua natura (mi diceva sua moglie che lui parla coi santi, come quel giocoliere di coltelli d’una novella di Anatole France; parla col suo Sant’Antonio e gli chiede le grazie).

La terza vocazione Totò se l’è scoperta un poco più tardi: quella di fare il principe. Una volta era marchese, cavaliere del Santo Sepolcro, con molti altri nobiliari attributi. Poi tanto ha fatto che un tribunale ha dovuto ammettere la sua discendenza per linea diretta dall’imperatore Costantino il grande, sicché è diventato principe, altezza imperiale anzi. E questa vocazione è tanto forte in lui, che non si capisce bene se gli piaccia di più fare il principe o fare Totò. E’ risaputo comunque che la sua faccia è asimmetrica: possiamo stabilire che la parte sinistra sia del principe e la destra di Totò (o viceversa). A parte gli scherzi, queste due vite sono rigorosamente divise: fino alle otto di sera vi può ricevere il principe Antonio De Curtis, gentiluomo amabile e di raffinato saper vivere, elegante, frequentatore dell’aristocrazia; da quell'ora in poi vi riceverà, in un camerino di teatro, un uomo dalla faccia marrone, già preso nel gioco della finzione scenica e tuttavia un poco astratto, disi ante. Questo perché Totò, fuor della scena, è un essere immobile, spento: contiene in sé una determinata carica di vis comica che si esaurisce soltanto alla ribalta, con una pirotecnica fulmineità. Qualche sera fa, per esempio, vennero due giornalisti francesi a intervistarlo. Lo vollero fotografare tra le quinte e gli chiesero di fingere un atteggiamento qualsiasi, come se fosse stato in scena. Totò lo fece malvolentieri e lo fece non bene. Per lui il teatro comincia sul margine svaporante dei riflettori.

1901 Nicola Maldacea L

Il circo è il suo sogno

In quel baraccone di via Foria si andava spegnendo, quando vi arrivò Totò, la grande tradizione della Commedia dell'arte. Totò racconta commosso come là si recitasse a soggetto e si ripromette di tornare a quel genere non appena potrà disporre di una compagnia adatta. Il che non avverrà mai, perché gii attori capaci di recitare a soggetto sono ormai pochi e non si vogliono o non si sanno più riunire. E’ anche probabile che Totò non possa realizzare un altro suo sogno: il circo. Dice agli amici: «Prima di morire, io devo fare il circo». Non faccio commenti: chiunque sa qualcosa di teatro, conosce il valore «di spettacolo», il valore primordiale e insostituibile del circo. Tutte le grandi società teatrali hanno amato il circo (si vedano i non lontani esempi russi). Non potremmo avere migliore testimonianza del buon sangue di Totò. Ma per arrivare al circo gli occorrerà un grande coraggio, perché molti sciocchi parleranno di declassazione e lui ne soffrirà da morirne per davvero.

E’ sensibile, infatti: non tanto alle parole della stampa, quanto alla benevolenza del pubblico. Essendo uomo naturalmente malinconico, attraversa fasi di depressione fortissima; e allora dice alla moglie: «Vedi che non mi riconoscono, che non mi amano più?». Qualche tempo fa andò in Spagna. Vi trovò trionfali successi, ma dal contegno della gente in strada, al caffè, in albergo capì che in quel paese l’attore è tenuto in una medievale considerazione di inferiorità sociale. Non lo potè sopportare e ora detesta la Spagna. Già le corride non gli erano piaciute, le aveva giudicate spettacolo barbaro.

E’ anche viziato. Anzitutto, dalle donne. Ancor oggi riceve lettere d’amore e offerte alquanto lusinghiere. Ora non gli fanno né caldo né freddo, per la ragione che dirò; ma un tempo non se le lasciò sfuggire. In gioventù, come dicono al suo paese, «ha vissuto». Senonché, intorno al 1931 conobbe una fanciulla toscana di sedici anni. Lui veramente non lo sapeva che avesse sedici anni e anche meno. Chiese repentinamente di sposarla, poi lo seppe, e non voleva più. Quanto alla fanciulla, restia dapprima, fu alla conclusione delle cose più risoluta di lui. E si sposarono. Da quel giorno la principessa Diana — una bella e affabile signora — non è mancata a una sola sua recita. Sono una coppia felice, con una figliola di quattordici anni, altrettanto bella. Ho chiesto alla signora De Curtis che ne pensa di un marito che passa almeno due ore della sua giornata tra ballerine e soubrettes. Ha sorriso, sicura di sé e di lui. In verità Totò, fuor della sua vita familiare, è un refrattario. E’ anche un moralista: ed ecco uno dei lati più sorprendenti della sua personalità. Ama il teatro, ama assai meno la gente di teatro, perché la considera un poco scapestrata. Si parlava alcune sere fa dei boys, quei poveri diavoli che saltellano tra i seni delle ballerine. «Si illudono», dice Totò, «e potrebbero fare un mestiere migliore».

Antonio Petito 01 L

Ma viziato è soprattutto dal pubblico. Dai palcoscenici minori, dall’avanspettacolo, egli è balzato rapidissimamente al primo piano della popolarità. La sua vita, da un certo momento in poi, diventa monotona, non essendo altro che una serie ininterrotta di fortunate stagioni. Poi gli fecero fare del cinema, ma lui non ama il genere. Ed è logico, data la sua personalità che non può essere disgiunta dal palcoscenico. Giudica riuscito soltanto il suo primo film, Fermo con le mani. E l’ultimo, naturalmente, quello che verrà proiettato fra poco.

Dicevo che non è molto sensibile alla critica. Eppure, per mandarlo in bestia, basta che un critico gli dica che si ripete, che rifa se stesso. «E che forse Pulcinella, per cambiare, avrebbe dovuto togliersi la maschera nera?». Così protesta Totò e non ci sentiamo di dargli torto. Il suo segreto è assai antico: variare all’infinito, in virtù della fantasia e dell’intelligenza, un unico tema: se stesso. E’ la strada più breve per fare dell’arte, in qualsiasi campo.

Vittorio Bonicelli, «Tempo», 14 febbraio 1948


Tempo
Vittorio Bonicelli, «Tempo», 14 febbraio 1948