Totò visto da un americano
I tre comici più interessanti che abbia visto in Italia sono Macario, Rascel e Totò. Totò è di gran lunga il migliore, non soltanto perchè fa più cose e con maggiore abilità, ma anche perchè la sua presenza, la sua personalità, la sua natura abbracciano un orizzonte più vasto e più ricco. Il lavoro di un comico: sfocia nella bellezza, ma nasce dalla verità e da una prima presa di contatto col mondo. Il primo contatto essenziale che un comico del varietà stabilisce è quello con il suo pubblico popolare. Egli è l’amico e il simbolo del popolo. Il popolo si trova immediatamente a suo agio con lui e può apprezzarne gli scherzi scoccati contro il ricco e contro tutto ciò che non rientra nella normalità. Il comico del varietà è il vero campione del popolo, pur non essendo un uomo politico. Basta che un comico sìa in possesso di qualche specificazione tecnica (che sappia per esempio cantare o ballare), perchè sìa in grado di stabilire codesto contatto elementare col popolo e possa aspettarsi un certo succseso. Macario e Rascel si fermano pressappoco a questo punto. Uno Chaplin e un Totò vanno oltre. E vanno oltre, in forza di altri punti di contatto col mondo.
Totò non incontra nessuna difficoltà nel mettersi a contatto con l’uomo qualunque. Nella nota rivista «Bada che ti mangio», dove egli si finge un «uomo supermeccanico» dell’èra atomica, Totò riesce ad esprimere così la lodevole imperturbabilità dell’uomo del popolo come la sua meno lodevole incapacità di afferrare la gravità della nostra situazione. Quest’ultimo lato, forse, passa difficilmente la ribalta. Ciò che invece Totò (come Chaplin) è in grado di comunicare, è una vaga tristezza, la sensazione di qualcosa d’inespresso, Totò ha ambizioni aristocratiche, si è comprato una sfilza di titoli, cosa non necessaria; egli era già l’aristocratico del varietà. Mentre un Rascel o un Macario appaiono gente del popolo a contatto con gente del popolo, e sembrano vivere allegri e contenti in questo rapporto chiuso, un Totò tende una mano al popolo e l’altra, diciamo così, all’imperial principe di Bisanzio (di cui porta il titolo). Essenziale al suo personaggio è un certo distacco. Quando esce a ringraziare, si ferma da un lato del proscenio, celandosi a metà dietro le pieghe del sipario. La capacità di starsene in mezzo alle file delle ragazze spogliate senza intaccare la propria dignità è una virtù notevole in chiunque, e tanto più in un comico.
La fonte prima della comicità, lo sappiamo, è l’incongruenza. Sebbene argomento del comico siano le incongruenze della società, il suo strumento è la propria incongruenza. Egli deve scoprire le proprie incongruenze e adoperarle. Le incongruenze di un comico medio sono poche e volgari. Le incongruenze dì uno Chaplin o di un Totò sono molte e complesse. Così come risulta sullo schermo, la faccia di Totò non è affatto quella di un comico. E’ quella di un funzionario ben piazzato oppure... di un principe di Bisanzio in pensione. La testa è allungata e dignitosa, il naso finemente disegnato, gli occhi tristi, la bocca austera. O forse non è proprio così? Se abbiamo il vero Totò davanti a noi, su un palcoscenico, ci accorgiamo che gli angoli del viso si sono appuntiti, che la punta del naso, ora, ci sembra impertinente, che la gravità della bocca è diventata d’una solennità ridicola,» e tutto l’insieme della figura esprime un buon carattere, paterno e democratico. Questo non è il principe di Bisanzio come sì vede allo specchio, ma è il principe di Bisanzio visto da Totò, il quale ne sta sfruttando le incongruenze.
Ogni parte del corpo di Totò ha un suo significato. Le mani sono magre ed espressive, i piedi piccoli come quelli di una donna. Ci manca poco che questo corpo e questi arti non riescano più a fare un tutto organico. L’insieme è lievemente grottesco, suggerisce l’idea di una bambola meccanica, e questo è senza dubbio il punto di partenza della comicità di Totò. La sua tecnica consiste (fra l’altro) nella capacità di diventare più meccanico o meno meccanico, per gradi o tutto in una volta. Totò può passare da un estremo di umanità totale e cordiale, ad un altro, di meccanicità totale e un po’ sinistra.
Totò possiede la qualità che caratterizza quello che si può definire l’artista popolare più sottile: una dolcezza patetica e smisurata. In termini tecnici ciò implica un bell’equilibrio, un abbandono fisico e spirituale; l’abbandono di un atleta, naturalmente, non quello di un grassone sprofondato su una poltrona. Le sue membra possono simulare la rigidità senza essere realmente rigide — cosa che potrebbe interessare Bertold Brecht. Anche la sua mimica è «brechtiana». Spesso imita i movimenti di un altro attore, senza riprodurli esattamente, ma appena «suggerendoli». Non «suggendoli approssimativamente», però: i movimenti di Totò, sono sempre molto precisi. Nella differenza tra l’imitazione e la cosa imitata sta — come in ogni caricatura — la critica alla vita che è l’essenza dello scherzo.
Totò riempie i suoi «numeri» di magnifici dettagli — piccoli gesti e occhiate che complicano e arricchiscono le sue intenzioni. In ciò egli è un valido rappresentante della vecchia scuola classica dei clown, mentre si differenzia dal moderno attor comico radiofonico, il quale è, per forza c per vocazione, soprattutto un lettore del copione. Con Chaplin, Totò è forse l’ultimo dei grandi mimi; per lui il corpo è più espressivo della parola. Ancora come Chaplin, Totò cerca di dare ai suoi scherzi un doppio giro di molla: la punta comica dei suoi scherzi non è mai quella solita, volgare e scontata, ma qualcosa che assomiglia piuttosto al suo contrario... qualcosa di più delicatamente umano. Il pubblico ride quando Totò reagisce da maschio alle attrattive di una ballerina di fila, ma lo scherzo ha una svolta improvvisa quando ci rendiamo conto che è lei, molto più di lui, a insistere sulla questione sessuale. Totò è sensibile, ma lo è anche troppo, perchè ciò che stima più di una rapida liberazione sessuale è la conservazione del rispetto' di sè stesso.
Le buffonate di Totò non nascondono un certo disprezzo per il genere di spettacoli ai quali prende parte. In «Bada che ti mangio» Totò a un certo momento potè trasformare una povera e volgare rivista in uno studio sulla dignità offesa di un artista: fu quando, al termine della serata (precisamente all’una e mezza di notte!) Totò agitò la bacchetta del direttore in uno scontro umoristico con l’orchestra e la risata del pubblico parve la grossolana risata della gente comune a spese di ogni esteta: «Non è buffa la musica classica? Non è buffo il classico direttore d’orchestra?» ; ma poi Totò andò avanti con gesti così genuinamente belli e smorfie così persuasivamente ingrazianti che ne ricavammo tutt’altra impressione: «Quest’uomo ama il genere di musica che sta fingendo di dirigere».
Breve: se il teatro «aulico» in Italia è stato per me, in certo modo, una delusione, trovo abbondante compenso in certe forme di attività che vengon troppo spesso definite con leggerezza (anche dagli italiani) «volgari», Bisogna apprezzare l’arte teatrale là dove la si trova. Un’arte non è necessariamente più pura per esser più ambiziosa. Quando le sublimi altezze, come accade spesso oggi, portano seco il fetore della decomposizione, la semplice innocenza della buona volgarità è corroborante. Non che il lavoro del grande comico sia tutto volgare. E’ a volte più delicato e più profondo insieme di molti drammi «edificanti». Gli artisti drammatici hanno bisogno di venire direttamente e liberamente a duro contatto con la vita. A suo modo Totò fa questo. E’ più di quanto si possa dire di molti, che hanno pretese maggiori.
Eric Bentley, «Teatro», anno II, n.18, 20 ottobre 1950
Eric Bentley è un giovane critico e regista americano. Nato in Inghilterra si è trasferito prima della seconda guerra mondiale negli U.S.A., dove ha insegnato nell’Università del Minnesota. E’ autore di due volumi di critica teatrale («The Modera Theatre», che sarà pubblicato in italiano da Einaudi, e «Bernard Shaw», che uscirà pure in edizione italiana prossimamente), di alcune traduzioni da Bertold Brecht, dì cui è amo dei più entusiasti sostenitori («Parables tor the theatre», «The plays by Bertold Brecht»);, e collaboratore della rivista «Theatre Arts». Come regista ha diretto in America «Il cerchio -di gesso caucasico» di Brecht, a Dublino, all’Abbey Theatre, «La casa di Bernarda Alba», di Garcia Lorca, a Salisburgo «Him» di E. E. Cummings, e quest’inverno a Roma darà «Il signor Puntila e il suo Servo Matti» di Brecht, con la compagnia Morelli-Stoppa.
Eric Bentley, «Teatro», anno II, n.18, 20 ottobre 1950 |