Poesia e memorie di Totò

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Non c'è cosa più letteraria è retorica della miseria se, chi la riflette, non ha anima e virtù d'arte. Quando il dolore si veste di stracci, la fantasia si discioglie languida e spicca voli di compiaciuta poesia. Certo è tuttavia, che per l'arte e per gli artisti la miseria e pane per i loro denti; il solo cibo che li nutre; e, se sono di buona salute, li rende robusti e capaci di eccellenti e preziose sorprese. tra coloro che noi consideriamo artisti sono, oltre che poeti e scrittori, i comici punto e non paghiamo alla gerarchia della ribalta. Vogliamo cioè dire che alla dignità aulica di un attore tragico, bene s'accompagna la malinconia pagliacciesca di Chaplin; come quella di Giacomo Leopardi alla satira di Giuseppe Gioacchino Belli, che gli ignoranti definiscono plebea.

Sul deserto bruciato della nostra scena, schermo o prosa, passano in lontananza carovane di stanchi cammelli, e rare sono le oasi dove è possibile rinfrescarsi all'ombra di una palma. I giovani recitano male, i vecchi non ci sono più. Quelli che oggi detengono lo scettro di un'effimera gloriola, al tempo di Eleonora Duse avrebbero appena annunciato ”che il pranzo è servito”, a metà del secondo atto. Avvelenati dall’accademismo, sono andati a scuola di recitazione e non alla scuola della vita. Perché la vita, ai poeti e agli artisti, da sempre botte da orbi. Prima di farli diventare bravi, li fa morire letteralmente di fame. E la fame, la miseria, il dolore, li lima, li rende lucidi di umanità, li spreme goccia a goccia, li svelena per renderli, alla fine, trasparenti come diamanti.

Antonio De Curtis Nobilta CC

Tra qualche mese uscirà in Italia il libro di Totò: «Siamo uomini o caporali?» dove, senza complimenti, il nostro attore racconta le amare avventure della sua vita. A guardar vivere da vicino questo curioso attore si perde il senso dei riferimenti, la giustificazione naturale dell'identità. Il Principe Antonio de Curtis parla di Totò come di uno a cui è legato da indissolubile amicizia. dice: «Gli debbo voler bene per forza, ma in fondo se lo merita, perché se non avessi incontrato Totò a quest'ora Dio sa dove sarei andato a finire». il libro infatti racconterà di questo lungo sodalizio, alla base del quale è la miseria e la conquista del pubblico punti da Napoli, a Roma, al teatrino di Piazza Guglielmo Pepe, con due lire di paga alla settimana.

E di Napoli è rimasto in lui il calore dell'espressione, dell'osservazione diretta e un appassionatissimo sentimento lirico che egli confessa se stesso in termini e voci di segreta poesia. uscito dalla finzione, Totò riprende il filo di un antico idillio. Alle sue pause di riposo e gli concede evasioni che il grosso pubblico ignora. evasioni musicali e poetiche. Dietro la sua maschera fluida, una maschera che i critici francesi hanno definito assurda e metafisica (lo leggevo pochi giorni fa sul «Figaro»), è la malinconia ferma, dura di un uomo al quale sono cadute addosso le esperienze e le prove della ”città disgraziata” di Napoli, per dirlo con una frase che serve la geografia sentimentale di Di Giacomo e Matilde Serao. Scriveva Don Salvatore, infatti: «La mia sensazione è questa, che Napoli è una città disgraziata».

Dai vicoli, dai fondaci, dai bassi, dagli ospizi dei poveri, s’alza il canto e il riso. E l'uno e l'altro nascono dalla medesima rassegnazione. su quel carro di saltimbanchi che parte a notte e che di Giacomo descrive, io riconosco Totò, bianco, affilato, piccolo e vibrantissimo. Oggi Totò quando rimane solo e si slaccia la maschera, canta in segreto. E, per chi non lo sapesse, scrive versi, annota motivi che serviranno alle sue canzoni, alle sue ”ariette”, tutte alzate sul filo di una disperatissima armonia napoletana. Ed è malinconia che sembra quella di uno a cui la vita non ha più nulla da insegnare. Una poesia l’ha intitolata “Core addulurato”. E la musica scorre chiara sui motivi dell'antica Piedigrotta:

Se dice ‘a mala nova ‘a porta ‘o viento
e ‘o viento pe’ vint’anne m’ha purtato
‘sta mala nova ogn’ora, ogne mumento
c’ ‘a fine ‘e chist’ammore era accussì.
Pe’ vint’anne aggio chiagnuto
tanta lacrime ‘e dulore,
pe’ vint’anne aggio purtato,
mille spade dint’ ‘o core.

Versi e musica sembrano prendere il volo in un paesaggio di ombre, tra vicoli e madonnelle illuminate; rimbalzano nell’eco sorda delle straducce imbandierate di stracci, dove il sonno è grave come la miseria che opprime taluni rioni della ”città dei Miracoli”, degli eroismi senza premio, delle allucinazioni, della gelosia ”nera che nun se stracqua“.

E dalla malinconia di questa notturna canzonetta, ecco il sole di Napoli in un‘“arietta” che tra breve sentirete cantare in Italia. E’ Totò poeta, che si illumina alla bellezza di una donna giovane e canta sulle note classiche che gli servivano la passione dei grandi cantautori napoletani:

Quanto so’ belle ‘sti manelle ‘e fata,
quanto so’ belle st’uocchie tuoie curvine
e chesta chioma nera avvultulata
pare ‘na massa ‘e file ‘e seta fine.
Gnernò, - nun si ‘na femmena
tu si ‘na cesta ‘e rose,
si ‘nu caniste ‘ e fravule addirose.

E ancora un'altra “arietta” dedicata a Capri, scritta in un italiano che sembra una traduzione dal dialetto, cioè dallo spirito che stabilisce la sostanza di queste evasioni poetiche di Totò, maschera viva di un'arte che si altalena tra il riso è il dolore, tra la miseria e il lazo, virtù di un ”mestiere” antico come la ”religione del teatro” : da Plauto a Shakespeare.

Fabrizio Sarazani, «Momento Sera», 29 aprile 1951


Momento Sera
Fabrizio Sarazani, «Momento Sera», 29 aprile 1951