Si parli finalmente di Totò
Naturalmente non può essere un discorso molto serio, se si prende lo spunto dall’ultimo film di Totò apparso sul mercato: «Sette ore di guai». Un film abominevole. Si dovrebbe fare dunque piuttosto un discorso triste, commemorativo. Tuttavia, anche questa volta, l’allegro cinema italiano ha raggiunto l’unico risultato veramente comico che gli sia consentito: far uscire dalla sala di proiezione i critici con la faccia stravolta da umori vendicativi e imbavagliati (qui per critici intendo tutte le persone dotate di normale senso critico, siano pagati o no per esercitarlo sulle colonne di qualche giornale).
Parlare del cinema comico italiano infatti non è più possibile. E’ antipatriottico. Questo particolare cinema è diventato una specie di piaga nazionale, una febbre intermittente della quale non è decente parlare ai vicini di casa. Tutti andiamo a vedere i film comici e tutti non oseremmo confessarlo ai nostri genitori. Quel ch’è più buffo, una volta nel buio della sala, c’è chi ride e chi no. I secondi odiano i primi. I primi ricambiano, non senza vergognarsi d’aver riso. Alla fine gli uni e gli altri si sentono tormentati da un confuso complesso di colpa. A parte quel pizzico di ipocrisia che esiste sempre in queste cose, c’è anche un errore di fatto. Nessuna colpa. Quel riso ci è estorto. Anche una povera vecchia che scivola sul ghiaccio fa ridere, specialmente se qualcuno ci assicura che è caduta per finta, che è una burla. Poi magari la vecchia muore. E allora noi giustamente ci vergogniamo, comprendendo che il nostro riso era stato soltanto un’impura contrazione muscolare, a tutto detrimento dell’intelletto e del senso morale. Ma la cattiva azione l’ha compiuta chi ha fatto cadere la vecchia.
«Sette ore di guai», ridotte fortunatamente a un’ora e mezza di proiezione, sarebbe la traduzione cinematografica d’una farsa dialettale di Scarpetta. Lo stesso Scarpetta troverebbe molto balzana l’idea di riprodurre a distanza di mezzo secolo situazioni e battute legate a un certo ambiente e a un certo gusto, allora già dozzinali, figuriamoci oggi. E sarebbe profondamente scandalizzato dalla mancanza di idee dei comici moderni. Quanto a Totò, che figura farebbe davanti a Scarpetta proprio lui che non si perita di sfoggiare con tanta insistenza giochi di parole che hanno già fatto il giro di tutti gli avanspettacoli suburbani d’Italia, come quello dell’«avvocato Spinaci»?
Ma Totò, dicono i produttori, è un mimo, è una «maschera», l’ultima maschera della commedia dell’arte e via dicendo. Naturalmente la maggior parte dei produttori se ne infischia della commedia dell’arte. Ad essi interessa soltanto la faccia che fa ridere, a colpo sicuro: il Totò-salva-tutto. Io mi meraviglio soltanto che Totò non pensi a salvare se stesso: che non si preoccupi, voglio dire, di lasciarci una immagine meno effimera di sè, della propria personalità indubbiamente eccezionale. Come può resistere alla tentazione di provarsi a fare un film, uno solo, che duri, che conti qualche cosa nella storia del cinema?
Mistero. Lo stesso mistero costituito dai tre personaggi «distratti» che rallegrano «Sette ore di guai»: personaggi privi, non dirò di intelligenza, che sarebbe pretendere troppo, ma di un barlume di luce che potrebbe distinguerli da una sedia o da un palo telegrafico.
«Tempo», anno XIII, n.46, 17 novembre 1951
«Tempo», anno XIII, n.46, 17 novembre 1951 |