Recensione del film «Guardie e ladri»

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1952 01 05 Il Mondo Guardie e ladri intro

Verso la fine di «Guardie e ladri», Totò e Fabrizi, l'uno da ladro e l'altro da poliziotto, inseguito e inseguitore, devono dirsi alcune parole amare sulla loro condizione, giustificandosi e quasi scusandosi reciprocamente sulla ineluttabilità ael loro mestiere, come in una favola in cui il gatto e il topo, venuti alle corte, si confidassero.

Dietro al ladro e al poliziotto, c'è una società che si difende dai ladri per mezzo dei poliziotti; ma gli uni e gli altri, almeno in questo film, senza una vera vocazione per il loro mestiere. Pare non ci sia di meglio da fare, per alcuni tipi, come i protagonisti di questo film: tutti e due buoni padri di famiglia che vogliono crescere figli onesti e laboriosi; anzi il ladro, in questo senso, è il più esemplare. La sua famiglia non conosce, e non si cura di conoscerlo, il genere di lavoro con cui egli sbarca il lunario. E' fatalità, è destino, è cattiva fortuna. Non è nemmeno cattiva organizzazione della società. Il film non vuole dire questo. La società è veduta così, come un profondo regno animale dove gli eventi si svolgono con la cecità del caso.

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Lo scenario dell'azione aiuta questa impressione. E' Roma, ma sono i quartieri romani delle borgate, con le misere casupole fradice di pioggia, le strade senza selciato che si trasformano in pozzanghere, e in alto la sommità dei monumenti lontani e dominanti, le cupole delle basiliche, un paesaggio che non ha nulla da spartire con l'umanità che vi si agita e vive e cerca ragioni di vita, un paesaggio di città astratta che ha finito di vivere nel tempo. E’ una delle impressioni più forti di questo film con la sua rude morale e che ha un solo momento in cui si falsa, proprio niella scena del ladro e del poliziotto di fronte, quando dopo essersi evitati e cercati per tutto il film, si confidano le loro ragioni e la fatalità della loro inimicizia. C'è in esse qualcosa di dolciastro e di falso mentre il film non è mai caduto nel sentimento fino a questa scena. Per precisare e dire troppo, la scena perde d‘'efficacia. Ma la situazione è bella, ed è la replica di una simile che apre il film e che là è riuscita, dà più grande effetto comico e patetico.

E' lo stesso poliziotto che insegue il ladro; tutti e due si fermano ansanti a pochi passi di distanza per riprendere fiato. E stabiliscono un contatto umano proprio attraverso queste tare dell’età, del lavoro, della vita affannosa e dura a tutti e due, confidandosi qualcosa della loro storia e consigliandosi una buona medicina americana. E’ quello che si dice l'umanità popolare italiana. Il film offre più di un esempio di questa difficile atmosfera, che tempera una fondamentale durezza di vita, che stende un velo su quanto in essa vi è di irrimediabile.

Una delle prime impressioni, e determinante per tutto il film, è la scena con cui si inizia, nel Foro Romano. Non v’è retorica, non v'è grandezza né memoria né storia. Appare un mucchio di rovine e di colonne ridotte a pietrame, sotto un cielo grigio. E’ la scena in cui Totò appiccica la solita patacca allo straniero, l’americano. C'è un rifiuto dell'estetismo, una noncuranza verso i pretesti del bel quadro e della bella illuminazione. E’ da credere che in altri tempi quando ci si rivestiva di illusioni grandiose e gratuite, l’arrivo d'un enorme vassoio di spaghetti come si vede qui in una scena, avrebbe fatto strillare tutte le oche del Campidoglio retorico nazionale. Il fatto è che le qualità umane che affiorano in questo film, e non d'una bontà programmatica e di maniera, compensano largamente l'ostentazione dei «macaroni» e dei ripieghi per vivere. In questo racconto senza compiacimenti, senza un minuto di sosta per guardare in alto un cielo del resto indifferente, appaiono alcuni visi di ragazzi e di ragazzi e di monelli d'una grazia e d'una distinzione popolare, come a ritrovare, fra tante scorie, una nobiltà storica e naturale. É tutto questo tra americani truffati, e pacchi dono con una delle tante sigle che oggi regolano il mondo; e un’umanità che ha poco lavoro tra molta ostentazione di beneficenza. Il film è pieno di queste suggestioni che il pubblico carpisce al volo e di cui ride amaro.

Il soggetto di «Guardie e ladri» è di Cario Tellini, la sceneggiatura di Vitaliano Brancati, Ennio Flaiano e altri, la regia di Steno e Monicelli, la fotografia di Bava. Il racconto avrebbe potuto essere condotto con l'impeccabile modulo del racconto poliziesco inglese, quello letterario e tutto provvidenziale di Stevenson o di Chesterton, o quello cinematografico con la tecnica del «Terzo Uomo». Girarlo fidando sugli elementi dinamici del racconto pieno di bravura, senza preoccupazioni di genere, offriva il pericolo d’un certo realismo dialettale e piccolo borghese. Vi cade talvolta, ed è un peccato perché Totò e Fabrizi qui sono, nella loro parte, in vena come in pochi altri lavori.

Un poliziotto si lascia sfuggire un ladruncolo il quale questa volta ha avuto la disavventura di truffare un americano per cui si muovano alte autorità. Il poliziotto rischia di essere licenziato dall'impiego se non riacciufferà l’evaso. Il film si svolge tutto sulle arti che adopera il poliziotto per acchiappare il suo uomo, e con una nuova e crudele risorsa: poiché il ladro è inafferrabile, il poliziotto tenta di entrare in rapporti con la famiglia del ladro, mettere a contatto con essa i suoi figli e sua moglie, stabilire un’amicizia con le visite e gl'inviti a pranzo che un giorno gli permetteranno di mettere le mani sulla sua vittima. E’ una situazione che ha gran forza, ricca di elementi di suggestione, con un continuo evitarsi e rasentarsi. Della lotta fra i due, sono ignare le due famiglie. Vi sono due grosse scene: quella in cui poliziotto e ladro nello stesso momento vanno, senza incontrarsi, a far visita scambievolmente l’uno alla famiglia dell’altro, che è il culmine dell’intrigo; e quella d'un gusto di vecchia scena comica in cui i due si trovano a farsi sbarbare nella stessa bottega, su due sedie vicine.. La trappola finale è il pranzo che la famiglia del ladro, ignara, offre alla famiglia del poliziotto ugualmente ignara, giacché, mentre i due uomini conducono la loro lotta, le due famiglie sono divenute amiche, l’una ha avuto benefici dall’altra, e qualcosa di tenero s'è stabilito tra la figlia del poliziotto e il figlio del ladro. La confusione dei sentimenti è al colmo, tanto che alla fine è il ladro che incoraggia il poliziotto a sbrigarsi di portarlo in carcere. Tutti e due d 'accordo dicono che si tratta d'un viaggio di tre mesi, per affari, giacché per tutti, e anche per la sua famiglia, il ladro passa per uno che si arrangia a fare affarucci in tempo di disoccupazione.

Fino a questo momento, la situazione del poliziotto che si serve dell'amicizia per ingannare la famiglia del ladro, e fare di essa una trappola per arrestarlo, si è retta sul filo di un rasoio, e sulle continue giustificazioni da povero diavolo che ha dato afta sua parte Fabrizi. L'ultima scena, del ladro che ha pietà degli improvvisi rimorsi del poliziotto e lo incoraggia ad arrestarlo, riscatta del tutto un personaggio che proprio qui, vincitore, rischiava di riuscire antipatico.

Corrado Alvaro, «Il Mondo», 5 gennaio 1952


Il Mondo
Corrado Alvaro, «Il Mondo», 5 gennaio 1952