Sua Altezza Totò I
Può dichiarar guerra a Tito
Prima parte
Il più popolare comico d’Italia ha dovuto lavorare a lungo per affermarsi sia nel campo della rivista sia in quello dell’araldica
La pace d’Europa dipende da un attore cinematografico italiano e da una sentenza del tribunale di Napoli : poche righe, complessivamente un centinaio di parole, che possono scatenare da un momento all’altro la terza guerra mondiale. Quando il 22 gennaio 1946, verso le undici, il presidente della VI Sezione del tribunale di Napoli rientrò nell’aula seguito dalla Corte e lesse la sentenza elaborata durante due ore di permanenza in Camera di Consiglio, era ben lontano dal supporre che essa avrebbe dato a un uomo la possibilità di far saltare quel vecchio barile di dinamite che sono i Balcani.
L’arbitro del destino d’Europa, l’individuo che, se vuole, può appiccar fuoco alla polveriera balcanica, incendiando uno dopo l’altro i paesi dell’Oriente e dell’Occidente, ascoltò la sentenza con un sorriso di soddisfazione, si inchinò ai giudici, si rallegrò con il suo avvocato, diede una lauta mancia all’usciere ed usci, calcandosi sulla testa il cappello di marca.
Nei corridoi una piccola folla lo attendeva. La notizia della sentenza favorevole aveva preceduto fuori dell’aula l’uomo dall’impeccabile completo grigio: e la corte di ammiratori gli si strinse intorno per congratularsi, per felicitarsi, per scroccargli un pranzo, per stoccargli «una mille lire».
Sua Altezza Imperiale il Principe Antonio Focas Flavio Angelo Ducas Comneno De Curtis di Bisanzio Gagliardi, Cavaliere del Sacro Romano Impero, Conte Palatino e Cavaliere di Gran Croce del» l’Ordine Costantiniano, accolse soddisfatto quella piccola ma spontanea manifestazione d’affetto; accolse, forse con minor soddisfazione, ma senza per altro dimostrarlo, le richieste di un prestito o di una "regalia”; strinse alcune diecine di mani; poi salutò tutti con un largo gesto, salì in macchina e si diresse verso il suo albergo. Da quel momento era l’arbitro del destino d'Europa: ma se la prendeva allegramente, senza dar molto peso alla faccenda.
Pure Totò, poiché S. A. I. il Principe Antonio De Curtis e il comico napoletano Totò sono la medesima persona, aveva atteso per molti anni quell’istante, sognando lo storico momento in cui il presidente del tribunale, leggendo il dispositivo di sentenza, avrebbe sancito la sua discendenza diretta, legittima e mascolina dalle famiglie di origine imperiale dei Griffo Focas; avrebbe ordinato l’aggiunta nei registri dello Stato Civile di tali cognomi a quello di De Curtis; gli avrebbe infine riconosciuto il titolo di Conte Palatino e Cavaliere di Gran Croce dell’Ordine Costantiniano con i diritti e gli oneri che a tale discendenza sono connessi e, primo fra tutti, il titolo di Principe e la qualità di Altezza Imperiale.
Da anni il signor Antonio De Curtis, in arte Totò, aspirava a quel titolo; da anni il suo avvocato succhiava la polvere degli archivi, consultava libri e registri vecchi di secoli, era in corrispondenza con uffici specializzati in ricerche araldiche, con biblioteche, con privati; e da anni il comico Totò spendeva tutti i suoi risparmi in queste indagini lunghe e delicate che gli asciugavano regolarmente le tasche.
Perché Totò non è stato sempre il distinto signore in grigio che nel piovoso gennaio del 1945, uscito dal tribunale di Napoli, salì in macchina ed ordinò all'autista di portarlo in albergo: soltanto da pochi anni la ruota della sua fortuna ha smesso di fermarsi, con esasperante monotonia, sullo "zero”, favorendo esclusivamente il "banco”.
Oggi Sua Altezza, volendolo, può perfino dichiarar guerra a Tito: fa parte dei suoi diritti, di quei diritti ed oneri connessi al suo tìtolo; ieri era in contìnua lotta con i capocomici per la conquista di mille lire di antìcipo. E’ vero che per lui era più facile ottener ieri le mille lire di antìcipo da un impresario che non oggi il trono di Serbia da Tito, ma tant’è: se Totò volesse potrebbe scatenare un conflitto contro il "maresciallo" jugoslavo, conducendo personalmente le sue truppe all’assalto della roccaforte comunista dei Balcani. Lo potrebbe perché il tribunale di Napoli, riconoscendo la discendenza di Totò da don Michele De Curtis, gli ha implicitamente riconosciuto i diritti al trono di Serbia spettantigli dal ramo dei Karageorgevic.
Totò non pensa a Belgrado
Don Michele De Curtis, l’antenato illustre, era un gentiluomo napoletano discendente diretto delle famiglie Imperiali Griffo e Focas, al quale, il 30 dicembre del 1735, Carlo II con diploma imperiale conferì, per importanti servizi resi alla Corona, la nobiltà cavalleresca ereditaria del Sacro Romano Impero. E a Don Michele, attraverso i Karageorgevic, fa capo la discendenza di un "banato” serbo con diritti, contestati ma non per questo meno regali, al trono di Serbia.
Il diritti dei Karageorgevic al trono serbo, pur essendo stati riconosciuti nel 1842 dalla Porta, han sempre incontrato l’opposizione della Russia e l’appoggio della Turchia: facendo valere oggi i suoi diritti ed una eventuale pretesa al trono, Totò non si inimicherebbe dunque soltanto Tito, ma avrebbe contro di sé anche gli eserciti del Cremlino; mentre per forza di cose e per non venir meno a un’antica tradizione, la Turchia dovrebbe uscire dalla neutralità e sostenere con le armi il buon diritto del comico napoletano.
Si sa bene che un’alleanza tira l’altra, e se un giorno Totò dichiarasse guerra a Tito e alla testa dei serbi suoi seguaci marciasse su Belgrado per scacciarne lo usurpatore, la Turchia dovrebbe invadere la Bulgaria per portare aiuto all’alleato serbo-napoletano, la Russia sarebbe costretta a dichiarare guerra alla Turchia per proteggere i bulgari, e pian piano l’incendio si trasmetterebbe al resto dell'Europa e all’America, con le conseguenze che tutti, purtroppo, conosciamo per dolorosa esperienza personale abbastanza recente.
Ma Totò non ha un esercito: e non pensa certo di "liberare” Belgrado, marciando contro Tito alla testa di un esercito di "generiche” e di "subrettine". Totò, per fortuna, pensa soltanto a interpretare dei film : e se qualche volta indossa una divisa militare o imbraccia un fucile, sia pure un fucile da caccia, lo fa soltanto per portar guerra alla malinconia. Nonostante ciò egli è il depositario della pace europea, è colui il quale ha in mano la miccia che può dar fuoco alla terza guerra mondiale. E questa miccia, costituita da alcuni diplomi, da numerosi documenti ingialliti dal tempo e da una sentenza del tribunale di Napoli, egli se la porta in giro attraverso l'ltalia, racchiusa in una cassetta d’argento che conserva in fondo al suo baule-armadio d’attore, tra una vecchia "sciassa”, una bombetta e una camicia inamidata. Il baule che, dall’anno della sua ascesa al cielo della rivista italiana, lo segue di città in città, di teatro in teatro.
Grazie a questa miccia, se egli volesse, e i mezzi economici per iniziare l’impresa oggi non gli mancano, potrebbe organizzare personalmente la rivolta contro Tito e la guerra santa per la riconquista del trono che gli spetta di diritto, anche se tale diritto gli è contestato da altri due o tre sovrani in esilio, e primo fra tutti da Michele di Serbia che egli considera un usurpatore. Ma gli basta sapere che vi è in qualche parte del mondo un trono tutto per lui, e possedere, racchiusi in una cassetta d’argento, i documenti che lo dimostrano: il resto non lo interessa; il resto è poesia, è riservato dominio della fantasia.
Totò non ha l’animo dell’eroe, del conquistatore, del capitano di ventura. Tutt'altro. Poco dopo la "liberazione” di Firenze, per esempio, debuttò con la sua compagnia in uno dei maggiori teatri della città. Presentava uno spettacolo di Galdieri : e tra le altre battute di carattere politico ve n’era una anti-comunista molto forte, o, almeno, molto forte per quel periodo. Totò la gettava alla platèa con la sua caratteristica maniera di porgere; e gli spettatori la sottolineavano con una sonora risata. La sera del debutto, dopo lo spettacolo, due partigiani comunisti lo andarono a trovare in camerino e lo pregarono di ripetere "quella” battuta. Sua Altezza, avendo scambiato i due per i soliti ammiratori locali, ripete la barzelletta, facendola seguire da quella risatina secca che manda in visibilio il pubblico. Non fece però a tempo a finire, che i due partigiani rossi gh furono addosso e gliele diedero di santa ragione. Il giorno dopo la battuta venne soppressa ”motu proprio” di Sua Maestà: e a chi gliene chiese la ragione Totò spiegò: «Gisù... Quello, Galdieri, scrive le battute anticomuniste e io prendo le battute dai comunisti. La politica va bene, ma, a prescindere, a me chi me lo fa fare?...».
Trent’anni di varietà
Non ha, dunque, lo spirito battagliero, la tempra del rivoluzionario S. A. Totò: e, a parte questo, è troppo legato al palcoscenico e al teatro di posa per barattarli sia pure con un trono. Sono ormai 33 anni che lavora in varietà. Trentatrè anni dal giorno in cui, nel 1918, debuttò all’Orfeo, un vecchio teatrino che sorgeva a Roma nei pressi di Piazza Vittorio. Era stato scritturato per poche lire: meno delle dita di una mano. Tre o quattro lire a sera per un comico il quale guadagna oggi, in un giorno, più di quanto un professore universitario non riesca a mettere assieme in un paio di mesi.
Dal "Diocleziano”, la cui platea era gremita di cascherinì e di meccanici, al "Sistina”, al "Lirico”, al "Nuovo”, prenotati dal più elegante pubblico di Italia, la via è lunga e faticosa. E per Totò fu forse più lunga, più faticosa e più amara che non per molti altri attori di rivista, venuti su improvvisamente dal nulla o impostisi da un giorno all’altro grazie a una formula indovinata o ad una fortunata combinazione.
Vi fu un periodo, dieci o dodici anni or sono, in cui Totò veniva venduto a borsa nera: in quell’epoca il futuro Cavaliere del Sacro Romano Impero era solo un comico molto richiesto dalle imprese e assai gradito al pubblico; ma un comico sempre a corto di quattrini.
Le ricerche araldiche, condotte da un abile avvocato napoletano vecchio amico di famiglia, l’avvocato Gaetano Bizzarro, inghiottivano tutti i suoi guadagni : e Totò aveva continuamente bisogno di danaro. Fu allora che l’impresario Epifani, subodorando un ottimo affare, gli offrì un congruo anticipo, cinquantamila lire o giù di li, moltissime per quell’epoca, purché firmasse un contratto che lo avrebbe legato a lui per tre anni con una paga serale di ben 8.000 lire. Totò si affrettò a firmare, e l’impresario Epifani gli versò immediatamente l’anticipo,
Gaetano Curatola, «Settimo Giorno», anno V, n. 1, 3 gennaio 1952
Venduto in borsa nera
Seconda parte
Ma la sera stessa, mentre le 50.000 lire partivano alla volta di Napoli per essere investite in pergamene, vecchi attestati e alberi genealogici, Epifani rivendeva Totò a un altro impresario, Gigi Colonnelli, per 10.000 lire serali. Colonnelli non formò compagnia, ma cedette a sua volta Totò, per 12.000 lire serali, alla Suvini-Zerboni. La Suvini-Zerboni, forte del contratto acquistato da Colonnelli, fece una combinazione teatrale con gli "Spettacoli Errepì”, portando nella compagnia in formazione Totò, la cui paga fu calcolata a 13.000 lire: nei vari passaggi il prezzo dell’attore aveva subito un aumento di 5.000 lire, che finivano ogni sera nelle tasche dei numerosi intermediari.
Fu così che l’aspirante al trono di Serbia in tre anni passò di mano in mano, come quei negri di cui si dice facessero commercio gli scugnizzi napoletani subito dopo la liberazione di Napoli : e il suo prezzo, ad ogni cessione, aumentava di mille o duemila lire, senza alcun beneficio, per lui. Totò era al corrente di tale mercato, ma lasciava correre: salvo a puntare i piedi quando aveva bisogno di anticipi. Se non gli venivano' concessi si dava immediatamente da fare per trovare uni nuovo capocomico, firmava con lui un secondo contratto, intascava l’anticipo; e lasciava che gli impresari e i "concessionari” si accapigliassero tra loro, sempre pronto, però, a mettersi al lavoro con entusiasmo appena i due contendenti avessero raggiunto un accordo.
Abituato a spendere con larghezza, dotato di una bontà d’animo che lo portava ad aiutare chiunque si rivolgesse a lui, irresistibilmente attratto da quelle ricerche araldiche le quali costituivano la carta assorbente delle sue tasche, Totò è stato per circa venti anni un cacciatore di anticipi. Giovanni Vianello, che fu il suo amministratore fino al 1934, ricorda ancora uno degli episodi più divertenti della sua vita di uomo di teatro. Stanco di lavorare per gli altri, Totò aveva deciso di presentarsi al pubblico con una compagnia di sua proprietà : e ne aveva affidata la direzione artistica a Calandrino, il più grande autore italiano di riviste, e la direzione amministrativa a Vianello.
Una sera, la compagnia aveva debuttato con vivo successo all’Eliseo di Roma; Totò si intratteneva in camerino con alcuni amici, in attesa che giungesse l’ora di andare in scena. Gli affari procedevano bene, gli incassi superavano di gran lunga le spese, ma la prodigalità dell’attore e la sua generosità verso amici che attraversavano periodi critici, verso colleghi disoccupati verso i postulanti impedivano alla compagnia di navigare in acque ancor più tranquille.
Quella sera, dunque, mentre Totò chiacchierava del più e del meno, ad un tratto (forse qualcuno tra i presenti, come spesso accadeva, gli aveva chiesto un prestito) si accorse di non aver danaro. Cercò una soluzione a quello stato di cose che lo metteva in imbarazzo e, dimenticando di esser lui il "capocomico", fece chiamare l’amministratore e gli chiese 500 lire di anticipo sulla paga. Vianello cadde dalle nuvole: nella sua lunga carriera di uomo di teatro era quella la prima volta che un capocomico gli chiedeva un anticipo. Cercò allora di spiegare a Totò che in cassa, come egli avrebbe dovuto ben sapere essendo il proprietario della compagnia, in quel momento non vi era danaro. Totò, dopo aver tentato le vie della persuasione, ricorse ai sistemi draconiani : sedette davanti allo specchio, e con la vaselina incominciò a togliersi il cerone dal viso, senza dire una sola parola. Terminata l’operazione si volse verso Vianello che l’osservava stupito, e con l’aria più candida di questo mondo gli disse:
«Sentite, Vianè, se non mi date cinquecento lire di anticipo io questa sera non recito».
Vianello rimase allibito: poi corse ai ripari, e fece osservare a Totò che se non avesse recitato sarebbe stato costretto a pagare al teatro una fortissima penale, e avrebbe dovuto pagarla di tasca sua, poiché lui era il proprietario della compagnia; lui, Totò, e nessun altro. Niente da fare; Totò, come un disco rotto, si ostinava a ripetere:
«Vianè, voi potete dire quello che volete, ma se non mi date 500 lire di anticipo, questa sera non vado in scena».
L’amministratore più testardo di Totò, prese a spiegargli ancora la situazione paradossale che s’era creata: Totò comico pretendeva un anticipo da Totò impresario; di conseguenza era Totò a dover dare l’anticipo a Totò; ma se Totò aveva bisogno di 500 lire, logicamente non le aveva in tasca; e se non le aveva non poteva darle in anticipo.
«Ed io non recito».
Sembrava di assistere a uno degli sketchs più comici presentati da Totò in una serata di gran vena : ma alla fine, mentre il direttore di scena avvertiva gli attori e le ballerine che lo spettacolo avrebbe avuto inizio di lì a poco, Vianello dovette arrendersi : e corse alla cassa del teatro per procurare a Totò quelle 500 lire senza le quali egli non avrebbe recitato : rovinando se stesso.
Doveva volergli un gran bene Vianello, se non lo piantò in asso quella sera; e se non lo piantò alcuni mesi dopo, al Teatro Principe di Roma, quando il futuro re di Belgrado gliene combinò un’altra delle sue.
La compagnia, scritturata per 15 giorni, aveva avuto molto successo: il teatro era esaurito tutte le sere, e dopo la prima settimana l'impresa del Principe aveva offerto a Vianello di rinnovare il contratto per altri quindici giorni. L’amministratore aveva nicchiato un poco, poi s’era detto pronto a rimanere un mese anziché due settimane purché la paga serale della compagnia fosse aumentata di alcune centinaia di lire.
La proposta non venne accettata e Vianello, sicuro del fatto suo, partì alla volta di Napoli dove era in trattative con un altro teatro. Subito dopo la partenza di Vianello, giunse a Totò una lettera con la quale il suo avvocato gli chiedeva del danaro per le ricerche araldiche a cui si interessava. Totò non aveva che poche centinaia di lire, Vianello era partito, l'avvocato dimostrava una certa premura. Come fare?
Nell'intervallo tra il primo e il secondo spettacolo, Totò ebbe un’altra delle sue brillantissime idee : fece chiamare l’impresario del teatro e gli disse che era pronto a rinnovare il contratto per altri quindici giorni, purché gli fossero versate subito 5.000 lire di anticipo. La compagnia era sua, quindi l’impresa del Principe non fece obiezioni di sorta : fu lieta, anzi, di versare l’anticipo e di rinnovare subito l’impegno.
Dinoccolato, uomo di caucciù
Quando, la sera seguente, Vianello tornò a Napoli con il nuovo contratto firmato e seppe che Totò aveva a sua volta sottoscritto una proroga di 15 giorni, per poco non piantò in asso il comico e le sue pazzie. Fu necessaria, in quell’occasione, tutta la sua bravura di amministratore, sostenuta dal fatto che la compagnia era richiesta ovunque, perché Totò non fosse costretto a pagare al teatro napoletano una fortissima penale per inadempienza.
Ma a parte questi e altri episodi che avevano per teatro il camerino dell’attore, quando entrava in scena Totò dimenticava le questioni economiche, scordava di essere un nobile in aspettativa, metteva da parte l’albero genealogico : ed era soltanto Totò, il beniamino di tutte le platee, l’attore spontaneo e brillante.
Allorché, sul palcoscenico dell’Orfeo di Roma, si presentò per la prima volta al pubblico del varietà, nel 1918, aveva 17 anni e un repertorio limitatissimo che culminava con "Fifirino”, una macchietta insegnatagli da Gigi Pisano.
Pisano, che è uno dei più noti autori di canzoni comiche napoletane, aveva preso a cuore quel ragazzetto magro, dalle articolazioni snodate, il quale trascorreva tutte le sue serate in una sedia di platea al Diocleziano, un teatrino che il piccone ha cancellato da tempo dalla pianta di Roma. Pisano intuì che Totò avrebbe potuto imitare con successo uno dei maggiori comici dell’epoca, Gustavo De Marco, un uomo di caucciù, il quale, su musiche galoppanti come cavalli, cantava lunghe tiritere da mozzare il fiato : era un bene che le parole delle sue macchiette, sommerse da ondate di note fragorose, non giungessero tutte al pubblico: anche gli spettatori più smaliziati avrebbero avuto di che arrossire, tanto erano piene di doppi sensi forti come un bicchiere d’acquavite.
Ma il successo di De Marco era affidato più che alle parole alla mimica da contorsionista : e i bis si succedevano ai bis nei teatri popolari. Totò incominciò la sua carriera imitando De Marco per tre lire serali : e dopo qualche mese il suo successo era già superiore a quello del suo ispiratore. Gigi Pisano aveva visto giusto : dotato di un non comune senso della comicità, fornito di un finissimo intuito, Totò sentiva ogni sera ciò che il pubblico voleva da lui. E pian piano incominciò ad allontanarsi dalla falsariga tracciata da De Marco e a portare alle sue macchietta varie innovazioni.
La prima di queste innovazioni fu l'accompagnamento orchestrale : prevenendo la musica jazz, Totò diede enorme importanza alla batteria. Era il batterista il suo migliore «compaire»: e accompagnava opreveniva, con assordanti colpi di cassa e di piatti, i suoi buffi contorcimenti, le sue danze fatte di scatti e di saltelli.
Dall’Orfeo il nuovo comico passò al Diocleziano, in Via Nazionale, con una paga di poco superiore a quella che percepiva nel teatrino di Piazza Vittorio: quante volte, seduto nelle ultime file di sedie, non aveva sognato di prodursi su quel palcoscenico? Il sogno, ora, s’era trasformato in realtà; e il suo nome, "Totò”, figurava a lettere di scatola sul manifesto affisso alla porta del locale.
Ma era pur sempre un localetto di quart’ordine, il Diocleziano: non era la Sala Umberto nè il Salone Margherita dove le «vedettes», le stelle italo-napoletane, i «fini dicitori» mietevano successi di cassetta e successi mondani. Né poteva aspirare ad imo di questi locali di lusso il comicuccio che dal Diocleziano passò, qualche mese dopo, alla Sala Elena, un altro teatro popolare che sorgeva in Prati. Alla Sala Elena si produceva in quell’epoca una compagnia drammatica, la Compagnia Capece-Pensa-Ricciardelli, che ad un pubblico alla buona spremeva lacrime grosse come chicchi di grandine con drammoni in costume e tragedie ad episodi. A sipario abbassato, tra un atto e l’altro, fra un duello e un omicidio, si produceva Totò, a cui l’impresa aveva affidato il compito di sollevare un po’ il morale degli spettatori.
Da maschera buffa ad attore
Al centro di Roma Totò giunse dopo questa non breve anticamera in periferia. V’era un teatrino, a Piazza Poli, la Sala Giraud, che fu poi trasformata in cinema, il Cinema Colonna, quando il commendatore Italo Germini pensò di farvi proiettare, nel '32, due film al prezzo di una lira, che il pubblico di seconda categoria considerava la Sala Umberto dei poveri. Totò vi fu scritturato per qualche mese ed ebbe un successo notevole.
Da Piazza Poli a Via della Mercede, dove sorgeva, e sorge ancora, la Sala Umberto, non vi sono che cento metri di distanza: ma cento metri che nessuno, prima di Totò, aveva superato con un solo salto.
L’eco del successo riportato dal magro comico dalla mascella asimmetrica e dalle membra snodate come quelle di un burattino, giunse fino a Wolfango Cavaniglia, uno dei più vecchi e noti impresari romani. Wolfango, così lo chiamavano e lo chiamano ancor oggi nell’ ambiente teatrale, gestiva allora la Sala Umberto assieme a Luigi Oberlechner e a Salvatore Cataldi che si era proposto di trasformare il «café-chantant», ritenuto allora dai benpensanti e dai padri di famiglia uno spettacolo «immorale» e «pornografico», in qualcosa di castigato e familiare.
I tre moschettieri del varietà romano (il quarto moschettiere era Marino, uno dei fratelli proprietari del Salone Margherita) convocarono una mattina Totò per una audizione : e la sera stessa lo inclusero nel programma che sarebbe andato in scena la settimana seguente alla Sala Umberto.
II colpo era riuscito; i cento metri che separavano la Sala Giraud dalla Sala Umberto erano stati percorsi dal comico napoletano a tempo di primato. E per lui, la sera del «debutto», finiva l’anticamera in cui bisogna attendere a lungo che si aprano le porte attraverso cui si accede al cospetto di Sua Maestà il Successo. Da Maria Campi a Spadaro, da Petrolini ad Anna Fougez, tutte le «vedettes» avevano ricevuto il battestimo della gloria sul palcoscenico della Sala Umberto; così come sotto le sciabolate dei riflettori, battute dal fuoco incrociato di centinaia di binocoli, molte speranze eran cadute sul campo, falciate inesorabilmente da un mormorio di disapprovazione.
La pianticella delle aspirazioni di Totò, la sera del debutto, fu inaffiata da una scrosciante pioggia di applausi : la fama del nuovo comico era ormai consacrata negli annali del varietà, e le porte dei migliori locali italiani gli venivano aperte da quel passe-par-tout che era, in quell’ epoca, un successo alla Sala Umberto di Roma.
Però, mentre a Roma nasceva il grande comico di varietà Totò, in tutta Italia il varietà moriva.
Gli ufficiali di cavalleria eran tornati dal fronte, alla fine della prima guerra mondiale, pieni di gioia di vivere; le «can-canistes», che entravano in scena con in testa il berretto piumato dei bersaglieri ed avevano appuntate, alle bianche sottane di merletto, coccarde rosse e verdi, erano salutate da un applauso entusiastico; Armando Gill, cantando «Come pioveva», faceva venire i lucciconi ai combattenti del Carso e del Piave; Spadaro lanciava la «Ninna-nanna delle dodici mamme», e per poco non veniva chiamato in Parlamento con plebiscito popolare. Ma tutto ciò non poteva durare; in capo a qualche tempo il varietà del dopo-guerra incominciò a non trovar più consensi entusiastici. Il pubblico si orientava verso un altro genere di spettacoli: la rivista. Nemmeno l’operetta riusciva più a far issare sui botteghini dei teatri il grande pavese del «tutto esaurito»: Ines Lidelba e e Nella Rogini preparavano una bara d’oro alla grande operetta. A Torino ed a Milano nasceva la rivista.
Calandrino, Renato Simoni, Arnaldo Fraccaroli ed altri giornalisti di primo piano scrivevano per il nuovo genere; e a Torino Calandrino scopriva due stelle di straordinaria grandezza, Emma Sanfiorenzo ed Isa Bluette; la prima, dotata di una travolgente personalità artistica e di un paio di gambe alla Mistinguette, la seconda ricca di «sex-appeal» e dello squisito gusto proprio delle donne torinesi.
Totò nasceva dunque grande «vedette» mentre il mondo delle «vedettes» lentamente moriva. Fornito però di straordinaria sensibilità per tutto ciò che riguarda il palcoscenico, egli intuì che presto il «café-chantant» sarebbe stato soltanto un ricordo: come le cartoline al platino o le scatole fatte con le conchiglie. Decise perciò di passare, armi e bagagli, alla rivista.
I napoletani sono attori nati: e Totò non smentì la tradizione. Aveva imparato ad eseguire le macchiette, imparò a recitare: ed anche questa volta il successo fu dalla sua parte. Molti ricordano ancora le prime compagnie di rivista delle quali egli fu un comico inarrivabile: e tra i molti v’è anche Wanda Osiris, che nel 1924 debuttò come «figurante» in «Piccolo caffè», uno spettacolo di cui in quell’epoca si parlò a lungo negli ambienti della rivista.
E poiché, allora come oggi, ogni grande comico doveva avere al suo fianco una grande soubrette, ecco Totò affiancarsi ad Isa Bluette negli «Spettacoli Fiandra», quando ancora Nuto Navarrini, che fu poi il compagno inseparabile della grande Bluette, era combattuto tra l’operetta che l’aveva lanciato e la nuova formula di spettacolo, la rivista.
Dopo Isa Bluette fu la volta di Angela Ippaviz ad avere al suo fianco Totò. La Ippaviz era una magnifica donna: e nelle città in cui lavorava, il suo debutto veniva annunziato da grandi manifesti a colori sui quali, con lo stile delle copertine dei libri di Pitigrilli alla prima maniera, la soubrette era effigiata in mezzo e due levrieri russi. La compagnia di Angela Ippaviz era diretta e gestita dal cavalier Achille Maresca, il padre di Isa Maresca e Lidia Martora: e Totò vi lavorò a più riprese, riportando sempre entusiastici successi. Una dopo l’altra, le più luminose stelle della rivista italiana ebbero al loro fianco il comico napoletano dalla mascella asimmetrica; poi, diventato a sua volta capocomico, Totò scritturò prima Hilde Springer, quindi la monumentale Gioconda da Vinci, infine Clely Fiamma che aveva debuttato giovanissima e che si era imposta subito per la sua grazia e per la sua voce.
Come mai Totò, ricercato dalle più importanti compagnie e scritturato con ottime paghe, decise di fare compagnia per suo conto? E’ qui che ritorna in ballo la famosa sentenza del Tribunale di Napoli che doveva dargli un trono occupato ed un titolo da occupare.
Sfogliando tra le vecchie carte di famiglia, nella casa in cui suo padre, un modesto impiegato, viveva a Napoli, Totò rinvenne un giorno, molti anni or sono, qualche cosa che accennava al famoso diploma di Carlo VI. Da quel giorno non ebbe più pace: quegli accenni, sia pur vaghi ed imprecisi, quel «de» nobiliare premesso al cognome, qualche allusione fatta dal padre a discorsi uditi da ragazzo, discorsi in cui si parlava addirittura dei De Curtis come discendenti da famiglia imperiale, misero nell’ attore una strana smania : voleva sapere qualcosa di preciso sulla sua famiglia, sui suoi antenati, sui loro titoli.
Qualcuno gli disse, allora, che in Italia chiunque, con poca fatica e molta spesa, può farsi fabbricare uno stemma : ma Totò voleva il suo stemma, quello dei De Curtis; e non qualcosa di prefabbricato e pronto ad ogni richiesta.
Pensò allora di rivolgersi ad un avvocato: andò a trovare un vecchio amico, l’avvocato Gaetano Bizzarro, e gli chiese un consiglio. Bizzarro si mise a sua completa disposizione : ma per fare delle ricerche del genere di quelle a cui Totò accennava occorreva danaro, molto danaro; ed in quell’epoca, pur avendo infiniti ammiratori nel mondo della rivista, Totò danari ne aveva pochi.
Fu così che decise di formare compagnia; tutti i suoi impresari avevan guadagnato fior di biglietti da mille grazie al suo successo: ora quei biglietti li avrebbe intascati lui.
Nacque la prima compagnia di Totò. Ma dal punto di vista economico le cose non andarono come egli aveva sperato: gli incassi dei teatri eran sempre molto forti, le percentuali che la compagnia incassava erano di gran lunga superiori a quelle incassate da tutti gli altri «complessi» di rivista, ma ogni stagione veniva chiusa in pareggio se non addirittura' in passivo.
Per comprendere tale situazione bisogna tener presenti due cose : la prodigalità e la generosità di Totò, e le sue origini imperiali. Prodigo come tutti i napoletani, il futuro rivale di Tito non badava a spese. Ogni sera, dopo lo spettacolo, si portava dietro una piccola corte di amici: ed era lui a pagare il conto per tutti. Poi c’era sempre qualche vecchio attore disoccupato da aiutare, qualche amico a cui mandare «una mille lire», qualche conto da saldare.
E non basta: appena nell’ambiente teatrale si seppe che Totò aveva iniziato delle ricerche araldiche sulla sua famiglia, gli piovvero in camerino ed in albergo legali e consiglieri. Ciascuno aveva un’idea da dargli ed un prestito da chiedergli; tutti avevano un consiglio da elargire ed un favore da domandare. Ed i favori, si sa, costan cari; sono sempre costati cari.
Gaetano Curatola, «Settimo Giorno», anno V, n. 2, 10 gennaio 1952
La fortuna arrivò nel '40
Terza ed ultima parte
Una sera approdò nel camerino di Totò uno strano tipo. Confabulò a lungo con lui, nell’intervallo tra uno spettacolo e l’altro; quando il colloquio finì, il comico era raggiante e, sorridendo, chiamava lo strano tipo «papà». Lo strano tipo era un marchese, il marchese Dassergio; ed aveva proposto a Totò di adottarlo, trasmettendogli il suo titolo. Gli aveva, insomma, offerto un marchesato in enfiteusi: e Totò aveva accolto con entusiasmo la proposta. In attesa che gli autentici titoli nobiliari delta sua famiglia fossero tratti dalla polvere dei tempi, sarebbe stato marchese per adozione. Da quel momento, aspettando che le pratiche per ottenere l’adozione fossero espletate, il neo-papà si stabili in compagnia Totò, con il titolo, meno nobiliare ma più redditizio, di «direttore di scena»; e con l’incarico specifico e retribuito di tirare i «siparietti» alla fine di ogni scena e di ogni balletto. Il marchese padre era prodigo quanto il futuro marchese figlio : e non badava a spese, tanto più che il danaro con cui i conti venivano pagati non apparteneva a lui, ma al bonario futuro figliolo. Era un uomo, il marchese Dassergio, che in gioventù, stando almeno a quanto raccontava, aveva avuto carrozze e palazzi, donne di classe e scuderie da corsa: ma il gioco e le femmine lo avevano rovinato; e si era ridotto a vivere alle spalle del figlio di adozione.
Da un mese appena il marchese Dassergio si era stabilito nella compagnia Totò, e già da ogni angolo di Napoli e dintorni incominciarono a piovere nel camerino dell’attore offerte di adozione.
Una sera un duca, fornito di una ragguardevole barba che gli permetteva di incutere soggezione e di risparmiare la cravatta, gli presentò un albero genealogico: un papa, due o tre cardinali, numerosi uomini di legge e vari capitani di ventura si dondolavano dai rami carichi di gloria e di illustri personaggi. Totò ne rimase incantato, e pensò di optare per il duca; ma il giorno dopo ecco piombare al suo albergo un altro personaggio, un barone questa volta; un barone il quale vantava, appollaiato sul suo albero, non un pontefice ma un sovrano: sovrano di un’isoletta dell’Egeo, ma sempre sovrano.
E di sera in sera, di settimana in settimana, la scelta diventava sempre più difficile : mentre il marchese Dassergio era costretto a difendere con le unghie e coi denti la sua paternità continuamente in pericolo.
Finché non giunse il colpo gobbo. A Palermo un duca, anche lui con albero genealogico ragguardevolissimo e ben fornito, propose a Totò di adottarlo; fu accolto, al pari degli altri, con amor filiale e pranzi luculliani; ma dopo una settimana appena di permanenza a Palermo, venne riaccompagnato alla stazione da un macchinista della compagnia, infilato in un vagone di terza classe e rispedito a casa, senza nemmeno il viatico di un saluto e di un cestino da viaggio. Le informazioni richieste sul suo conto erano state disastrose: titolo, ducato, albero genealogico con due o tre papi e chissà quanti cardinali, tutto era falso: di vero, di autentico non v’era che la fame dell'autorevole personaggio. Troppo poco per Totò.
La vecchia “berlina” del marchese
Ecco perchè, nel '34, dopo un'annata eccezionalmente favorevole per gli incassi, la compagnia chiuse la stagione con un passivo di oltre 300.000 lire. Fu una doccia gelata: Totò, che da poco era diventato marchese di Terziveri (finalmente aveva optato per uno dei tanti alberi genealogici messi a sua disposizione), aveva acquistato anche una vecchia automobile, sui cui sportelli aveva fatto applicare tanto di corona marchesale ed era veramente felice.
Un grande comico senza una macchina era, in quell’epoca, un piccolo comico, un «guitto». E gli attori di rivista che si contendevano i favori del pubblico (Macario, Nuto Navarrini, Armando Fineschi e Guido Riccioli) eran tutti motorizzati; anzi ciascuno faceva del suo meglio per sbalordire i rivali, mostrandosi al volante di una macchina più bella, più nuova, più potente, più lussuosa di quella acquistata dagli altri. Accadeva, allora, ciò che accade oggi con gli attori del cinema, balzati di colpo alla ribalta della fama.
Tra Macario e Nuto Navarrini, ad esempio, la lotta per la più bella «fuori serie» era particolarmente aspra. Nuto Navarrini era riuscito a mettere k.o. Macario, presentandosi un giorno su una macchina guidata da un negro: l’autista della «storica» coppia della rivista italiana, Isa Bluette e Nuto Navarrini. Macario era definitivamente sconfitto: ma la vittoria costò cara a Navarrini, perché egli fu costretto ad abbandonare all’autista di colore il volante della sua macchina, benché gli piacesse moltissimo guidarla personalmente.
Totò non era in grado, allora, di gareggiare con gli altri, sfoggiando macchine di lusso: ma quella corona marchesale che spiccava sullo sportello nero della vecchia «berlina» rappresentava la sua rivincita morale. Nessuno poteva sperare di batterlo: nemmeno alleandosi ad un autista negro in livrea azzurra guarnita con bottoni dotati.
Il deficit della stagione 1933-34 prostrò l’attore. Totò pensò allora di affidare la gestione della compagnia ad un amministratore noto negli ambienti teatrali come un uomo di ferro: Luigi Zoppegni; e si mise nelle sue mani, dichiarandosi pronto a seguire le direttive severissime del nuovo amministratore.
Zoppegni incominciò subito a tagliar senza pietà sulle spese, impose a Totò di vendere la macchina, cacciò via la corte di postulanti (nobili o no) che circondava il neo-marchese, tenne l’amministrato a «stecchetto» per un anno e la compagnia, alla fine della prima gestione Zoppegni, chiuse il bilancio in attivo: per la prima volta, forse, nella carriera di Totò capo-comico.
Intanto l’avvocato Bizzarro continuava, nonostante l’adozione Terziveri, a consultar vecchi libri, a rivangar vecchie storie, a tirar fuori dagli archivi e dalle biblioteche carte ingiallite: e là discendenza di Totò andava sempre più chiaramente delineandosi.
Ma occorrevano danari: e Totò, per averli, sciolse la compagnia e pensò di farsi scritturare come ai primi tempi della sua carriera. L’impresario Carlo Epifani colse la palla al balzo, diede all’attore un congruo anticipo, e la nuova compagnia basata sul nome e sulla comicità di Totò incominciò a lavorare con grandi successi artistici e di cassetta per il fortunato capocomico.
Nello stesso periodo la ripresa della cinematografia italiana mobilitava, per lo schermo, tutte le forze del teatro. Anche Totò venne chiamato alla leva del cinema : ma i suoi primi esperimenti non furono molto felici. Con in testa un cappelluccio di carta, felice connubio tra il copricapo dei muratori ed i berretti da generale cari a tutti i monelli che giocano alla guerra, Totò, seduto su un baule, si riparava dalla luce dei riflettori da ventimila : ed aspettava pazientemente il copione.
Si era nel 1936 e il comico napoletano, giocava per la prima volta la carta del cinema interpretando accanto ad Erszi Paal un film comico, «Fermo con le mani», ideato e sceneggiato da Guglielmo Giannini.
Il futuro aspirante al trono di Serbia ed il futuro fondatore del Movimento Qualunquista si erano incontrati lungo la via del cinema: e dalla loro collaborazione nacque un pessimo film; un film che non aveva nulla da invidiare, in quanto a fallimento totale, ai brutti film comici che vengono gitati oggi.
Giannini mandava al regista la sceneggiatura giorno per giorno; e le sue cartelle giungevano al teatro di posa pochi minuti prima che avesse inizio la lavorazione del film. Probabilmente il futuro uomo politico, per mettersi alla macchina e scrivere la razione giornaliera di sceneggiatura, aspettava che il produttore gli inviasse la razione quotidiana di danaro pattuito.
Quando il materiale arrivava in teatro, Totò, che era semi intontito dal calore dei riflettori, si animava, leggeva quel che Giannini aveva scritto, afferrava uno spunto, lo manipolava, lo condiva con il sale dei suoi lazzi ed il pepe delle sue contorsioni, e lo sfornava davanti alla macchina da presa completamente trasformato.
Era ed è il suo sistema di lavoro : in teatro come in cinema, Totò non si assoggetta a nessun regista ed a nessun copione. Due cartelle scritte da un autore qualsiasi gli permettono di intrattenere il pubblico per mezz’ora; purché, s’intende, egli ne abbia voglia. Ad una settimana di distanza dalla prima di qualsiasi rivista da lui interpretata, del copione originale sono rimaste intatte soltanto le didascalie; e le battute che non lo riguardano. Il resto è tutto trasformato. Così avviene anche per i film.
Durante la lavorazione di uno dei suoi innumerevoli film comici diretto da due giovani registi, si dice che uno di essi abbia abbandonato il campo dopo le prime scene, dichiarando ai produttori:
«Due registi, passi; ma tre sono troppi...».
Il terzo, e, a dire il vero, il più efficace, il più attivo ed il più intraprendente, era Totò, l’interprete.
Nemmeno il film «Animali pazzi», girato nel 1938 su soggetto di Achille Campanile, ebbe fortuna: Totò non aveva ancora trovato la sua strada; perciò decise di aspettare con pazienza l’occasione buona, dedicandosi, nell’attesa, esclusivamente alla rivista.
Era incominciato il periodo della vendita a borsa nera: sul foglio-piaga delle compagnie con le quali il comico napoletano lavorava, egli incideva per 13.000 lire il giorno; ma ne incassava 8.000 soltanto, mentre le altre 5.000 finivano nella mani degli impresari che se l’eran passato l’uno all’altro sotto banco. Però, ad onta di tale maggiorazione, quanto mai sensibile in quel periodo, le compagnie chiudevano in attivo la loro stagione.
In Italia, intanto, la rivista «a grande spettacolo», dopo molti anni di assenza, incominciava a far nuovamente capolino sui palcoscenici delle grandi città, e Totò, di ritorno da un lungo «giro» in Africa Orientale, venne «venduto» appunto ad una di queste grosse formazioni.
Fu allora, nel 1940, che la ruota della fortuna si fermò improvvisamente sul numero che il «marchese» giocava ostinatamente tutte le sere fin dal giorno del suo debutto all’Orfeo. Al «Teatro Valle» il nuovo Totò, apparso in frac accanto ad Anna Magnani nella rivista di Michele Galdieri «Quando meno te l’aspetti», ebbe un successo formidabile.
’O povero Zi' Vicienzo
Nessuno, nell’ambiente teatrale, si aspettava che egli, tolto di peso dal suo elemento marionettistico, potesse riuscire tanto bene. Colui che l’aveva comperato per primo, l’impresario Epifani, l’aveva sempre fatto lavorare in un’atmosfera un poco guitta: riteneva che fosse inutile splendere del danaro per costumi e messa in scena di prim’ordine, dato che Totò faceva ridere sempre, in qualunque salsa fosse condito. La ricca messa in scena, i costumi sfarzosi erano considerati un di più, una spesa inutile per una compagnia basata su di lui. La stessa cosa aveva pensato Colonnelli a cui Totò era stato rivenduto; e come Colonnelli sembrava la pensasse anche l’impresa Suvini-Zerboni. Ma quando la Suvini-Zerboni si accordò con Remigio Paone per una compagnia Totò-Magnani, le cose cambiarono: ed i capocomici entrarono nell’ordine di idee che valeva la piena tentare una formula nuova.
Ma era un nuovo Totò quello presentato al «Valle» a fianco di Anna Magnani, o era sempre il comico della «Sala Umberto» e degli «Spettacoli Maresca», che aveva inserito la sua vecchia comicità in una formula nuova di spettacolo?
Molti sostengono che l’attuale enorme successo di Totò sia dovuto al fatto che egli è rimasto sempre lo stesso, ad onta del passare del tempio; sempre quel Totò pronto a rimediare con una battuta estemporanea, con un vecchio lazzo, ad una situazione stagnante. Quel Totò che molti anni or sono, al «Teatro Quattro Fontane» di Roma, salvò da solo una rivista che minacciava di naufragare paurosamente in un mare di sbadigli. Quella sera Totò, sacrificato in una parte scialba, legato ad un copione insulso, non riusciva a superare la mediocrità generale; la compagnia non era ancora affiatata a dovere, il pubblico diventava sempre più irrequieto, i quadri si susseguivano tra il disinteresse generale. Il primo tempo della rivista si era trascinato così, per circa due ore, alla meno peggio ; ma appena si levò il sipario sul primo quadro del secondo tempo, Totò entrò in scena deciso a fare a modo suo. Incominciò a recitare a soggetto, a vitaminizzare il dialogo con le sue vecchie battute, a scherzare con il pubblico e con l’orchestra; ed il successo fu assicurato.
La fortuna, dunque, si fermò accanto a Totò nel '40 : e non solo nel campo della rivisita ed in quello del cinema, dove Totò vinse alla sua prima battaglia interpretando «San Giovanni decollato», ma anche nel campo ben più delicato dell’araldica. L’avvocato Bizzarro, che per anni ed anni non si era concesso un istante di tregua nelle ricerche, incominciò a comunicare i primi risultati positivi al suo «raccomandato». E nella casa dei Parioli, a Roma, dove Totò aveva preso in affitto un appartamento «principesco», piovvero documenti originali, pergamene, codificati, bolle. Il titolo marchesale che spettava ai De Curtis di diritto, senza bisogno di adozioni di sorta; i documenti comprovanti la discendenza in linea diretta maschile dalle famiglie di origine imperiale dei Griffo e Focas; il diploma, scritto in lingua latina, con il titolo di Conte Palatino; un secondo diploma con il titolo di Cavaliere di Gran Croce dell’Ordine Costantiniano; ed infine i documenti comprovanti il diritto di fregiarsi del titolo di Altezza Imperiale.
La sua casa, allora, incominciò a riempirsi di quadri : gli antenati illustri. Guerrieri, prelati, nobildonne, signori dallo sguardo severo : tutto ciò che Totò trovava, in fatto di ritratti antichi, in Via del Babuino, lo portava a casa per costituire «la gallerìa». Ed un giorno, passando assieme ad Eduardo De Filippo, suo ospite, davanti ad uno dei quadri che facevano bella mostra di sé nel «salone», il quadro di un gentiluomo dalla bazza un po’ asimmetrica che ricordava stranamente la sua, Totò così, quasi con indifferenza, lasciò cadere un «’O povero zi' Vicienzo...».
Eduardo De Filippo è molto amico di Totò, ne apprezza la spontanea comicità, le doti di improvvisatore senza eguali, la profonda conoscenza del pubblico e dei suoi gusti. E l'anno scorso gli propose di prendere, nella sua compagnia di prosa, il posto di Peppino De Filippo. Ma Totò guadagna troppo bene in rivista per abbandonare questo genere di spettacolo: la sua ultima stagione, fra paga, diritti d’autore e via discorrendo, gli ha reso circa 80.000 lire il giorno; senza contare quel che gli rendono i film.
Negli ultimi tempi si è accennato, negli ambienti teatrali, ed una nuova formazione Totò-Magnani, ma i due recordmen italiani degli incassi cinematografici non pensano affatto di tornare assieme. Il nome sul manifesto, il repertorio, la precedenza nell’entrata in scena, la scelta delle parti li dividono irreparabilmente, perché non intendono scendere a patti o cedere l’uno davanti alle pretese dell’altra, e viceversa.
Furono assieme nel '40 e nel '41, ed il successo fu enorme; tornarono assieme l'anno seguente, creando, nella rivista «Volumineide», gli indimenticabili personaggi di Pinocchio e di Cappuccetto Rosso; e si assicurarono un trionfo. Ma nel '41 Totò rimase solo e ritrovò l'accordo con la Magnani Tanno dopo. Un accordo di cui si parlò perfino nello spettacolo che i due interpretarono : nella prima scena, infatti, i due attori, rivivendo i personaggi interpretati assieme dal '40 in poi, narravano al pubblico le vicenda della loro lite e della loro rappacificazione.
Quando si divisero la seconda volta fu per sempre; invano nel '46 Ivo Moresco e Pompeo Pastorino tentarono una seconda rappacificazione. Anna Magnani pretendeva un manifesto in cui fosse lei la «tète d’affiche». La dicitura della «planche» avrebbe dovuto essere ; «La Grande Compagnia di Riviste Anna Magnani presenta»; ed il manifesto avrebbe dovuto portare, in basso, nel cosiddetto «rettangolo all’americana», l’aggiunta: «Con la partecipazione di Totò». Naturalmente Totò respinse le proposte: e continuò a lavorare da solo, avendo al suo fianco elementi femminili senza eccessive pretese.
La causa davanti al Tribunale di Napoli fu l’ultima tappa del suo cammino verso il trono. Dopo la guerra, volendo regolarizzare la sua discendenza regale, chiese a S.A. il Principe Nicola Nemagna Paleologo, erede delle antiche dinastie imperiali bizantine e Gran Maestro del Sacro Imperiale Ordine Costantiniano Nemagnico di Santo Stefano, di poter inserire i propri cognomi, con titoli e gradi, nei ruoli dei decorati dell’Ordine stesso. Ma S.A. Nicola si rifiutò; e non potendo obiettar nulla sulla ultra-provata e documentata discendenza imperiale di Totò, si oppose all’iscrizione del comico nei ruoli dell’Ordine perché, asseriva. Tale iscrizione era subordinata ad un suo giudizio favorevole sulle qualità personali del richiedente necessarie per ottenere l’investitura di tale titolo e grado.
Il rifiuto del Principe Nicola Nemagna fece piombare nuovamente Totò nell’oscuro pessimismo del periodo in cui cercava affannosamente un nobile che lo adottasse : ma la sentenza del Tribunale di Napoli, a lui favorevole, lo rese di nuovo felice ed euforico.
C’è forse un neo in tanta felicità, ma non è dovuto all’ostruzionismo costante ed irriducibile di un gruppo di aristocratici romani e napoletani, i quali han fatto del loro meglio per minare alle basi il trono di Totò e si sono battuti fino all’ultimo sangue ed all'ultimo foglio di carta bollata per abbattere il suo glorioso albero genealogico. Tre mesi or sono, una nuova sentenza, questa volta del Tribunale di Roma, sanciva i diritti del comico partenopeo, chiudendo in suo favore una istruttoria aperta dietro denunzia dei suoi avversari.
Né è dovuto, questo neo, alla «Congiura di Palazzo» attraverso la quale di recente, a Parigi, si è tentato di privare il principe dei titoli imperiali che spettano di diritto. Se v’è un neo nella felicità di Totò esso è costituito dalla mancanza di un figlio maschio a cui trasmettere i titoli e gli onori, perché a sua volta li trasmetta ai figli ed ai figli dei figli, perpetuando la stirpe imperiale dei De Curtis.
Totò ha solo una figlia che adora e della quale è fiero più di ogni diploma e di ogni pergamena sia pure con «sigillo pendulo». Una figlia per la quale il più grande comico italiano di riviste, l’attore cinematografico dagrli incassi record, ha costruito, una pietra dopo l'altra, l'edificio della sua imponente fortuna economica.
E se un giorno Totò dichiarerà guerra a Tito e, con il grado di «primo maresciallo», marcerà su Belgrado alla testa dei suoi sudditi, lo farà putacaso per dare a sua figlia un trono e non perché a lui piaccia essere re. Personalmente gli basta essere l'lmperatore di Capri.
Gaetano Curatola, «Settimo Giorno», anno V, n. 3, 17 gennaio 1952
Commento ragionato a: "SUA ALTEZZA TOTO' 1°", articolo di Gaetano Curatola, pubblicato in 3 puntate in "Settimo Giorno" anno V (1952): con i sottotitoli "PUO' DICHIARAR GUERRA A TITO" nel N° 1 (165) per 03/01/1952 (pagine 34-35), "VENDUTO IN BORSA NERA" nel n° 2 (166) per 10/01/1952 (pag 22 - 24) e "LA FORTUNA ARRIVO' NEL '40" nel n° 3 (167) per 17/01/1952 (pagine 14 - 16).
ERRATA CORRIGE
A) parte 2, FOTO LILIANA, scritto "Signorina" è un errore, in quanto nel 1951 appena trascorso aveva sposato ed in quel '52 sarebbe diventata mamma per la prima volta.
B) Riguardo l'aggressione fisica subita a Firenze da Antonio De Curtis Totò per aver osato una battuta "anti-comunista molto forte", in realtà, è imprecisa lettura permalosa "di parte"; infatti, la frase "provocatoria", come si può constatare se ci si ferma a riflettere, rivela un equilibrato intento pacificatore tra i 2 gruppi estremisti. Trattasi della seguente: "Compagni o Camerati è lo stesso"...
DUBBI
C) "Calandrino" (Umberto Castelli) autore e Direttore Artistico per Compagnie Totò a me non risulta. Questo non lo va ad escludere al 100% (sennò lo avrei collocato fra gli errori), ma in centinaia di periodici d'epoca, in collaborazione con Totò mai l'ho ancora incontrato...
D) Hilde Springher, oltre che in questo articolo, è citata anche da Alessandro Porro in un successivo articolo per "Grazia" del 1958: il neo-capocomico Totò De Curtis l'avrebbe scritturata (presumibile tra '30 e '33); per certo nell'estate 1928 ella non potè aderire alla scrittura propostale da Achille Maresca; nella stagione 1935-'36 fece parte della Compagnia Macario.
Però in decenni di consultazione dei quotidiani, per ripercorrerne le tappe teatrali, non l'ho trascritta come partecipante a Compagnie Totò e quindi, sempre se reale la nota, può esser avvenuto per breve tempo, non oltre un mese o due. A meno che, non sia stata confusa per colleghe dal nome più o meno simile, come ad esempio Fiammette Hildegarde (quest'ultima sì, invece, menzionata varie volte).
INDIZI
E) "33 anni che lavora in Varietà. Nel 1918 debuttò all'Orfeo di Roma." Si specifica essere classe 1901: siccome sappiamo che invece era del 1898, di anni ne aveva 20 oppure vi si esibì nel '15 (se davvero a 17 anni)... (Tamburini e date precise a tutt'oggi da trovare)
F) Al Diocleziano già vi si esibiva nel 1916...
G) Alla Sala Giraud: qui la Compagnia Capece sicuramente tra dicembre '17 e gennaio '18; forse Totò in Varietà nel '20-'21? (conferme d'epoca da trovare per Totò alla Sala Giraud di Roma)
H) Ricciardelli menzionato in Compagnia Capece perlomeno nel 1919 (allo Jovinelli)
I) Ivo Moresco, con l'avvocato Mario Majolo, avrebbero co-finanziato le Riviste "Che ti sei messo in testa!" e "Con un palmo di naso" (testimonianza Rudy Majolo)
L) visto quanto deducibile su Epifani, Paone ed altri, il triennio nel quale passò dalle 8 alle 13 mila lire a sera dovrebbe essere grossomodo primavera 1940 - primi mesi 1942
INTEGRAZIONI (dati accertati dai giornali di allora)
M) FOTO RIVISTA "MESSALINA" con scritto "di TOTò" e "al Teatro MERCADANTE di Napoli"; sappiamo che detta Rivista la fece al Nuovo di Napoli nella stagione 1929-'30, ma è pur vero che la Compagnia di Riviste e Fantasie Comiche Totò diede "Messalina", "di Mangini nell'adattamento di Totò", al Mercadante nell'aprile 1933.
N) Gioconda Da Vinci fu con Totò nel 1933-'34.
O) Clely Fiamma con Totò nel '34-'35 e poi nel '39-40.
P) Wanda Osiris partecipò allo spettacolo "Al piccolo caffè" (con Totò) non nel 1924, bensì nell'estate 1932!
Q) Cambiò diverse volte amministratori e rappresentanti; il passaggio da Giovanni Vianello a Luigi Zop(p)egni avvenne nell'estate 1934.
R) Carlo Epifani organizzava la Compagnia di Fantasie Comiche Totò a primavera 1940 (al rientro dalla tournee africana) con una nuova edizione de "L'ultimo Tarzan", al Valle; quindi, Epifani, in società con Aulicino, amministratore Elio Gigante, organizzarono la stagione teatrale subito successiva 1940-'41 "Quando meno te l'aspetti".
Napoletano, Carlo Epifani, classe 1889 oppure 1888, è morto a Roma giovedì 20 aprile 1967; i quotidiani affermavano che, pochi giorni prima, nonostante non stesse bene di salute, non se l'era sentita di mancare ai funerali di Antonio De Curtis.
S) Remigio Paone iniziò ad essere impresario di Spettacoli delle Compagnie Totò a partire da "Volumineide" (stagione 1941-'42)...
T) Nicola Nemagna Paleologo, detto Kaponic o Kaponik, uno dei presunti eredi al trono di Istanbul, pare di primo cognome fosse Capone (come un suo avo nato nel 1480); di codesto signore visionai anni fa una "seconda lettera ad Antonio De Curtis" datata 02/03/1953 (presso Associazione Antonio De Curtis)
U) A proposito dei Karageorgevic, Alessandro, nato in London il 17/07/1945- poi sposava Maria Pia di Savoia.
V) PRECISAZIONE FINALE
L'argomento araldico resta il più ostico da commentare; tuttavia, a questo punto, azzardo la mia parziale conclusione sul tema specifico. Penso non ci sia nulla di scandaloso, nè di diffamatorio, nel dichiarare notizie differenti dai libri editi, anche quando esse vanno a contraddire acquisizioni date per buone, buone non tanto a furia di ripeterle (e moltiplicarle) negli anni, quanto perchè basate su sentenze e riportate in testi ufficiali; abbiamo imparato negli ultimi quarant'anni (dal caso Tortora in qua), infatti, come pur i Giudici, essendo uomini fallibili, possono sbagliare (e con cantonate clamorose)!
Certo il fatto della nobiltà di sangue, su questo credo siamo tutti d'accordo, nulla va togliere ai talenti artistici ed alle doti poetiche di Antonio De Curtis in arte Totò. Nè ne va ad aggiungere. L'articolata sensibilità dell'uomo, spesso filtrata nella verve dell'originale Maschera, resta testimoniata in ciò che Egli ha dato, nel teatro "leggero" (coi suoi non pochi sotto-generi ed evoluzioni) e, soprattutto, nel mondo della celluloide (non unicamente nel genere comico).
Antonio De Curtis, pare nel 1933, di fatto fu adottato dal Marchese Gagliardi (di Terziveri ed altri cognomi e titoli); è accertato che, a coronamento del lavoro di ricerca di un primo legale araldista (Gaetano Bizzarro) alcune sentenze gli hanno riconosciuto il diritto di vantare cognomi e titoli (che dal secondo dopoguerra restano solo cognomi aggiunti privi di valore feudale o di casta); è Storia, infine che, perlomeno dal 1945, fu costretto a processi araldici contro rivali pretendenti "Basileus": Nicola Nemagna Paleologo in primis, Marziano Lavarello (del quale il precedente pare fosse uno degli "zii" acquisiti) e Maria Teresa Argondizza Tocci.
Ho conosciuto l'ultimo araldista di Totò De Curtis, grazie a Federico Clemente, ossìa il Conte Luciano Pelliccioni di Poli: ha dedicato la sua vita a questo tipo di ricerche ed ha pubblicato decine di libri sui temi araldici, cavallereschi e dinastie europee; ciò non toglie che tutto ciò che ha scritto sia oro colato. Egli attorno al 2004 ebbe un incontro, purtroppo terminato in scontro, con il Marchese Camillo De Curtis (che vado poi a citare): le loro divergenze in campo storico e nobiliare sono naufragate nel riscoprirsi di fazioni politiche opposte... e di questo mancato confronto intellettuale, al quale avevo ingenuamente creduto, porto il peso quale galeotto che favorì le presentazioni...
Che Giuseppe De Curtis (il papà di "Totò") fosse di famiglia nobile viene smentito dal Marchese Camillo De Curtis con il volume "Storia della famiglia De Curtis dai longobardi fino alla falsa nobiltà di Totò" (edito nel 2005); dopo un paziente lavoro di ricerca costato anni, nel testo si ricostruiscono vicende e famiglie omonime (forse imparentate alla lontana?); infatti ivi si apprende che, in Campania, vi erano perlomeno due famiglie di cognome De Curtis: una a Napoli e l'altra (dopo secolari vicende in parte ricostruite) di stanza nel comune di Somma Vesuviana. Quest'ultima ebbe in possesso diretto un castello, nel quale nacquero il marchese Camillo con suo fratello gemello Rodolfo e, prima di loro, la loro sorella maggiore (classe 1915, ho avuto la fortuna di conoscerla, e conobbe Totò...); erano i figli di tale Gaspare De Curtis (morto suicida nel 1938), che fu pure amministratore di Antonio De Curtis (...), e che in alcuni libri è erroneamente spacciato per suo cugino. L'albero genealogico dei De Curtis di Somma Vesuviana è stato accertato dal 1123 ai giorni nostri e vanta personalità di spicco nella Storia degli ultimi secoli; pare che, perlomeno nel loro caso, l'origine del cognome non sia variazione dal latino Curtius, bensì latinizzazione dal longobardo Della Corte. Il Marchesato della casata di Somma viene fatto risalire al quadrisavolo di Camillo (nato nel 1922 e deceduto in Venezuela), di nome appunto Michele, nel 1733 su emissione a Vienna da re Carlo 6° Asburgo (1685-1740). Tutto ciò è verificabile poichè documentato.
Cosa curiosa è che, pure il quadrisavolo di Totò De Curtis era di nome Michele (chi lo sa se in questo caso De Curtis avesse diversa origine verbale?), ma costui nato a Napoli solamente nel 1750. Certo sarebbe molto curioso, anche se ovviamente non impossibile, pure questo Michele (nel corso della vita) abbia avuto una investitura imperiale a Marchese, ma ad oggi è molto difficile da appurare. Questo Michele del 1750 è ad oggi la generazione più antica collocata nell'albero genealogico dei De Curtis di Napoli: così, non si posson escludere Michele precedenti a lui (visto il ripetersi dei nomi in uso, frequente in ogni ceto e classe sociale).
Per completezza risulta che i poeti ed autori di canzoni Ernesto e Giambattista De Curtis (del ramo napoletano pure) sarebbero cugini di terzo grado con Giuseppe padre di Totò. Ed il tenore Federico Junior De Curtis, che ospitammo a Lendinara nel maggio 2004 (come dai video che conservo), dunque era cugino di 4° grado con Totò...
Evito di addentrarmi nei secoli antecedenti al mille D.C., in quanto eccessivamente complessi da verificare con assoluta sicurezza, e dove le ipotesi finiscono per confondersi col fascino delle leggenda. Antenati Curtius fra i romani antichi? I De Curtis di Napoli oppure i Gagliardi (vedi adozione) discendenti diretti dei bizantini Foca? Penso ci rimangano troppo pochi elementi per poter accertare definitivamente queste ipotesi che lascio agli esperti araldisti con le loro fonti segrete (custodite chissà dove). Nemmeno mi sogno di smentirle o contestarle, in quanto, per quanto mi concerne, fosse imperatore o lazzaro, a me poco importa: resta l'attore e fantasista numero Uno.
Simone Riberto
Gaetano Curatola, «Settimo Giorno», anno V, n. 1,2 e 3, del 3, 10 e 17 gennaio 1952 |
Riferimenti e bibliografie:
Simone Riberto, alias Tenente Colombo, luglio 2022