Totò e Rossellini verso la libertà

Toto-Rossellini

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I nostri comici, era l'ora, alzano il tono. Non ancora spento il successo di Rascel come protagonista del «Cappotto» di Alberto Lattuada, ecco annunciato un altro promettentissimo incontro, quello di Totò con Roberto Rossellini nel film «Dov'è la libertà». La vicenda, ideata e sceneggiata dallo stesso Rossellini, ha un acuto sapore satirico e si conclude con un'autentica trovata. Racconta come dopo 25 anni di reclusione per aver tagliato la gola a un insidiatore di sua moglie, il barbiere Totò era uscito dal carcere, regolarmente dimesso, proprio quando aveva portato a perfezione un minuziosissimo piano per evadere. Era uscito coi migliori propositi di onestà e moralità; la testa ancora piena di omelie, prediche e ammonimenti. La città, impazzita dal tripudio della fine d'anno, lo aveva stordito; una donnaccia, con viso da monacella, gli aveva portato via i pochi soldi che gli erano stati consegnati all'uscita dal carcere. Senza denaro, senza un tetto dove riparare (il suo «salone» da barbiere era stato demolito, vittima degli sventramenti intorno all'Augusteo), senza parenti propri (quelli della moglie chi sa che fine avevano fatto), Totò non aveva trovato posto neppure nel dormitorio pubblico e aveva passato la notte all'impiedì per non intirizzire, imbrancandosi all'alba con un gregge di pecore che un pastore menava a vendere al mattatoio.

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Così aveva incontrato Romolo Torquati, uno del fratelli di Aida, la benedetta anima della moglie defunta. Un uomo grasso, rosso in faccia, vestito da milionario. Su un'auto americana, Totò si sentì portato a casa del cognato. Ritrovò tutta la famiglia, arricchita, della moglie. Ritrovò la suocera, un monumento di carne, stracarica di gioielli. Dall'alto della sua mole, ella dominava tutti: faceva tremare i figli grandi e grossi, e il vecchio marito rimbambito. Era coccolata e sbaciucchiata da tutti, da Romolo, da Remo, da Ote lo e dalle mogli di Remo e di Otello. Poi, in famiglia, c'era anche Nandino: un altro cognato di Totò — sembrava. Ma cognato da che parte? Esisteva forse un'altra sorella, di cui Totò non aveva sentito parlare? No, alla fine risultò che Nandino era l'amante ufficiale, e marito putativo della benedetta anima di sua moglie. Già, in fondo era giusto: quella poveretta di Aida doveva avere qualcuno accanto, in quei lunghi anni in cui lui era stato in carcere. E Totò provò simpatia anche per Nandino. I Torquati costituivano una tipica famiglia romanesca, tutta parole, spaghetti alla amatriciana, «core in mano» ed espansività diabolica. L'austerità che regnava nella casa, forse era dovuta al fatto che la vecchia madre aveva un male per cui, ogni volta che la facevano ridere, correva rischio di morire, per via delle arterie che non reggevano al carico della pressione. E allora ogni volta che la matrona accennava a ridere, tutti si precipitavano e si affannavano a ricordarle le storie più funeste, ricorrendo perfino a mostrarle il ritratto della figlia defunta. Totò pensò che forse qui non sarebbe stato male.

Trovò persino il suo ideale, una servetta pudica e ingenua, di cui si innamorò. Ma Totò non sapeva una cosa: perchè Romolo se l'era portato a casa, con una decisione, improvvisa? e perchè gli avevano messo subito sotto gli occhi la tenera servetta, incoraggiandolo? C'era sotto qualche cosa. Si, ma Totò non lo sospettava nemmeno; e poi, molte altre cose non sapeva ancora. E quando le venne a conoscere, una dopo l'altra, povero Totò si sentì finito, distrutto, peggio che se lo avessero condannato a scontare altri 25 anni di galera. Un giorno infatti, capì dal trambusto che tutti i Torquati erano sulle spine. C'era qualche guaio grosso in vista. La atmosfera era cupa.

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Pareva che ci fosse un israelita che, dimentico del bene che gli era stato fatto, voleva stroncare tutta la famiglia. E Totò, per fare del bene, e anche per mostrarsi eroico di fronte alla sua servettina, si offri spontaneamente di intervenire per mettere a posto le cose. «Ci vado a parlare io». Tutti lo guardarono, ebbero come una illuminazione: e per spingerlo ancora di più, si finsero riluttanti, ebbero mille esitazioni, e, senza parere, dettero mille consigli. Intanto pensavano: la soluzione migliore sarebbe che Totò «facesse fuori» quel giudeo. Totò era un pregiudicato, un avanzo di galera. Delitto più, delitto meno...

Fu mentre si recava a parlare coll'ebreo, che la verità su quel mondo gli si squarciò intera. Per prima cosa apprese che la benedett'anima di sua moglie Aida era stata lei ad indurlo al delitto, venticinque anni prima non perchè la sua virtù fosse stata insidiata, ma solo perchè voleva vendicarsi di un amante che l'aveva abbandonata. Totò si sentiva impazzire. Ma non era finita. Perchè dall'ebreo apprese altre notizie sulla famiglia del cari parenti della moglie. Seppe che la ricchezza del cognati era appartenuta al padre del giovane ebreo, che era stato perseguitato e spedito a Mathausen. Per metterla al sicuro il padre dell'ebreo l'aveva intestata al Torquati e ora il superstite figlio richiedeva invano la restituzione del maltolto. Nemmeno le minacce erano valse: i Torquati si proclamavano innocenti, anzi benefattori.

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Lì dentro l'umanità gli era apparsa meno crudele e in fondo non si era mai sentito cosi isolato, così triste, così tradito, come adesso. Visto da «dentro», il mondo degli uomini era molto bello, più umano e leale. Ma ora gli uomini «di fuori» non lo volevano, più lasciare entrare «dentro». Lui hon aveva diritto di ritornare in carcere. Ma se rinunciava alle amnistie e ai condoni di cui aveva beneficiato? Per esempio poteva rinunciare a quella ottenuta per il Decennale! Non importava, «dentro», lui, non vi doveva più tornare: cosi gli dissero il commissario, il questore, il magistrato, il Procuratore Generale. Tutti le stesse parole: niente da fare.

Era il colmo; trascinato dalla sua incrollabile volontà, il nostro eroe ricordò di avere un piano. Un piano di evasione minuzioso, perfetto: bastava rovesciarlo, applicarlo tutto a ritroso, e la cosa sarebbe fatta. Invase il carcere. Fu di nuovo sul tavolaccio. Il secondino di notte se to trovò lì, improvvisamente. Volevano cacciarlo via perchè non lo avevano In «forza». Totò si rifiutò di uscire e fece succedere un finimondo, peggio che quando si verificasse un'evasione. Il Procuratore Generale, quando intervenne, dovette riconoscere che Totò aveva commesso un atto di «violazione di domicilio», anche se si trattava di domicilio coatto. Totò fu condannato e restò lì dentro, felice come una Pasqua.

Leo Pestelli, «Stampa Sera», mercoledi 26 novembre 1952


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Leo Pestelli, «Stampa Sera», mercoledi 26 novembre 1952