Tre veri napoletani a Napoli

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Brevi incontri con due protagonisti della vita partenopea: Eduardo De Filippo e Vittorio De Sica - Silenziosi e chiusi con un velo di pudore e di riserbo - Il principesco arrivo di Totò nel quartiere dov'è nato - La sua tomba con medaglione in marmo e cinque righe di titoli nobiliari - Errori nei luoghi comuni

Napoli, aprile.

Alcuni napoletani fanno i permalosi di fronte a due loro concittadini, che tutti conoscono. Incontro Eduardo De Filippo e mi racconta, con quei suoi modi tanto timidi e calmi, che sembrano d'un uomo addolorato: «Ho ricostruito dalle fondamenta un teatro, per tenerlo in vita lavoro giorno e notte. Vi recito commedie napoletane, eppure molti mi criticano senza capire o, meglio, senza voler capire». In altra occasione incontro Vittorio De Sica e mi racconta, con quei suoi modi tanto pieni di riserbo e di grazia, che sembrano l'immediata espressione del pudore : «Ieri, in una strada di Napoli, giravo una scena del mio nuovo film. Un ignoto si è messo ad inveire contro di me. Vedeva alcuni ragazzini al seguito d'un funerale e brontolava insultandomi».

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I napoletani hanno un loro carattere, che tutti ritengono persino troppo presto riconoscibile. Aneddoti, amplificazioni letterarie e nude verità vicine alla cronaca quotidiana, ce lo fanno vivo davanti agli occhi della immaginazione: ma adesso bisogna scegliere e dire se veri napoletani sono gli uomini come De Filippo o De Sica oppure coloro che li criticano. Sono del parere che i duo, citati per nome, sono quelli veri, mentre gli altri sono piccoli snob in vena di darsi delle arie. Ma le sorprese non sono finite. Infatti De Filippo e De Sica, che interpretano il mondo napoletano dandogli fisionomia e voce, raccontandolo agli altri coti grandi risultati di emozione e di verità, non partecipano nemmeno in minima parte all'immagine retorica che noi abbiamo dei loro concittadini.

Si sa bene quali immagini ha in testa un torinese od un lombardo od un veneto quando pensa ad un napoletano. Tutti colorò che vivono nel Nord pretendono ,che sia sempre come retoricamente deve essere e nemmeno sanno di commettere in molti casi un errore. Anch'io, tra Eduardo De Filippo e Vittorio De Sica, sicuramente napoletani, non mi raccapezzavo più. Entrambi sono timidi e silenziosi; pochi sono i gesti con cui accompagnano le parole; e tutti i loro modi hanno un velo di pudore e di riserbo. Sono annotazioni che contrastano con quanto comunemente si immagina che siano, o che debbano essere. L'idea che troppo spesso i napoletani si trovino schiacciati sotto il peso dei luoghi comuni e delle frasi fatte mi è venuta incontrando questi due uomini nella loro stessa città.

Senza grandi gesti

La settimana scorsa passeggiando con De Sica per Napoli mi capitava sovente di sentire che lo salutavano con un bonario: «Maresciallo, buon giorno». Erano degli sconosciuti e rivedendo per strada il protagonista di Pane, amore e fantasia, a quel modo gli davano un saluto. Non avrei raccontato questo episodio da nulla se il seguito non fosse sorprendente. A quei saluti, ammiccanti e furbeschi, De Sica rispondeva con un'ombra di impaccio. Era contento e scontento nello stesso tempo, iti quegli attimi doveva provare il più vero desiderio dei timidi, che è quello di poter scomparire sull'istante; e mi meravigliavo che non si facesse rosso in volto per pudore.

E per Eduardo siamo allo stesso punto. Un mattino lo incontrai stilla via Partenope. Mentre chiacchieravamo tre uomini, male in arnese, lo avvicinarono sollecitando rispettosamente che desse loro del lavoro. Egli non rispose mai una parola. Era imbarazzalo, forse colpito dalla miseria di quei tre ed umiliato per la impossibilità di portarvi rimedio. Scoteva appena la testa, come per dire: c Non posso farvi fare nulla»; ed infine quei tre, inchinandosi per prendere congedo mormorarono con un soffio: «Allora scusate». Stavano per andarsene e finalmente anche De Filippo con un filo di voce, con un inchino, con molto rispetto mormorò: «Scusate». Avevo assistito ad una delle scene psicologicamente più napoletane e la ritrovavo priva di grandi gesti, di lunghe declamazioni, di quella teatralità che noi siamo soliti mettere intorno a tutte le cose di Napoli.

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Non si potrebbero immaginare napoletani fisicamente più diversi l'uno dall'altro di questi due. De Filippo è magro, di statura media, ha la faccia scarnita e sulle guance vi sono due buchi come se la pelle fosse risucchiata dal di dentro. I suoi occhi paiono sempre velati da un pensiero doloroso, il corpo sempre sottoposto ad i una tensione nervosa. Ad essere elegante forse non ci pensa nemmeno ed. infat- \ ti non lo è. Invece De Sica j è alto e forte, la. faccia l'ha \ sempre riposata, il volto è I colorito. Le preoccupazioni ; per il lavoro sono nascoste sotto una pàtina di signorilità. Ad essere elegante forse non ci pensa nemmeno essendo elegante per istinto.

La settimana scorsa. l'Eduardo del teatro ed il Vittorio del cinema dovevano lavorare insieme. Uno come attore e l'altro come regista si trovavano di fronte per realizzare un episodio dell'Oro di Napoli, un film che sarà pronto fra un paio di mesi. I primi due giorni vennero sprecati senza combinare nulla di buono e nessuno potrebbe immaginare la vera ragione di questa inoperosità. Il reciproco imbarazzo nasceva dal fatto che entrambi, senza dirselo, si sentivano intimiditi: da una parte lo era Eduardo avendo a che fare con il grande regista De Sica, e dall'altra lo era anche De Sica avendo a che fare con il grande attore Eduardo. Sembravano due ragazzini bene educati, sensibili, estremamente preoccupati di non offendere il compagno con una parola sbagliata, con un gesto fuori posto, con un tono non giusto della voce. Ci vollero dunque due giorni per trovare la possibilità di mettersi tranquilli l'uno di fronte all'altro e di lavorare insieme con reciproca soddisfazione. E' un episodio nel quale è facile intravvedere la vera natura del carattere napoletano; e non rientra in quel facile quadro di maniera, che si è soliti dipingere non i colori dell'esuberanza, della comunicativa, della allegria e della spensieratezza.

Sempre più solo

Mi è facile continuare con questo parallelismo perchè le occasioni stesse me lo offrono senza che io almanacchi per ritrovarlo ad ogni costo. Una sera, al teatro San Ferdinando, ero nel camerino di Eduardo. Egli stava mettendosi nei panni di monsignor Perrelli per andare sulla scena e dare voce a questo personaggio che Alessandro Dumas, in un suo libro su Najioli, definisce di * favolosa scempiaggine», ma ciò non toglie che adesso serva molto bene per dimostrare alcune cose non sempre gradite ai clericali. Eduardo parlava adagio; e sempre più adagio, come uno che a poco a poco si allontanasse sempre più da noi. Si infilava i calzoni di seta nera, si metteva una catena d'argento alla vita, si incollava al labbro i baffi bianchicci, si metteva la parrucca. Ad ogni gesto capivo che si sentiva sempre più solo e che sprofondava in una curiosa solitudine. Entrò qualcuno, prima il parrucchiere, poi un impiegato, poi un amico: forse Eduardo non li vedeva nemmeno.

Nel pomeriggio andai con De Sica in piazza Sanità, davanti alla chiesa di San Vincenzo perchè si doveva girare una scena dell'Oro di Napoli. Nella piazza i curiosi si accalcavano, le comparse pure, e sul subito risultava difficile capire chi era là come curioso e chi era stato convocato come personaggio anonimo. I collaboratori di De Sica, gli assistenti, i tecnici, gli inservienti, i truccatori, tutti gli impensati tipi che la lavorazione d'un film si porta dietro erano pronti, erano indaffarati. Davano ordini, offrivano spiegazioni, parlavano tra di loro. A poco a poco vidi De Sica, col cappello in testa, con passo distratto come fosse uscito dall'albergo per una passeggiata, chiudersi in se stesso. Dava un'occhiata a qualcuno e pareva non lo vedesse. Qualcuno gli parlava e pareva non lo sentisse. L'effetto era strano perchè, su quella piazza, in mezzo al muoversi affannato ed agli sguardi curiosi od attenti di tutti, egli appariva circonda¬ to e difeso da una insuperabile solitudine. Le sorprese di fronte a tale modo d'essere e di lavorare di due sicuramente veri napoletani, sprovvisti di ogni amplificazione istrionica, silenziosi e chiusi, così contrastanti con il quadro retorico che molti si fanno di loro, non erano ancora finite.

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Senso d'inquietudine

Una notte con Eduardo andammo da Giacomino, che è il conosciuto proprietario di un ristorante. Non so come toccammo Giacomino su alcune sue credenze ed egli fu pronto ad urlare: «Il dieci di agosto d'ogni anno, festa di San Lorenzo, a mezzogiorno in punto ed in qualsiasi posto, se scaverete sotto terra troverete dei pezzi di carbone a. Deve essere una superstizione napoletana, che rende omaggio al santo morto sulla graticola. E la notizia era difesa, imposta; e poi ancora ripetuta ed ampliata con l'appoggio di svariate sfide ed una era che il Giacomino si sentiva pronto a scommettere dieci milioni. Questo Giacomino era simpatico, ma intemperante e forse recitava la. sua. parte di fronte a me forestiero, mentre Eduardo se ne stava in silenzio, con gli occhi sul piatto. Ogni tanto però guardava davanti a sè come rincorresse un pensiero che gli sfuggiva. Per questo, a mezza voce, ad un certo punto gli dissi: «Ma lei pensa alla morte». Sorridendo con p u d o r e, riabbassando lo sguardo, mi rispose: «Eh, qualche volta succede».

In un'altra occasione mi trovavo con De Sica in trattoria. Si mangiava quasi in silenzio. Poi entrarono due suonatori, cominciarono la loro esibizione, che non mi parve molto gradita al mio commensale, ma ad ogni modo egli tacque del tutto. Pareva, lo facesse con un certo impegno suggerito forse dall'educazione, forse dalla cortesia verso quei due sciagurati che ci offrivano mediocre musica napoletana; ma ugualmente non capivo perchè sul suo viso a poco a poco calasse un velo di tristezza. Ed infatti quel che più sembrerà strano doveva accadere dopo. Quando quei due cessarono di suonare, davvero immediatamente. De Sica si chinò verso di me e prese a parlare d'un nostro comune amico morto da pochi mesi. Allora una cosa mi parve chiara: egli, durante quel modesto concerto, aveva avuto pensieri di morte, che poi lo avevano naturalmente spinto a ricordare l'amico scomparso.

Davanti a simili scoperte pensavo di aver a che fare con due napoletani eccezionali, che mandavano all'aria molti luoghi comuni. Una volta soltanto mi illusi di rientrare nella normalità. Con grande piacere pochi giorni fa vidi l'arrivo del principe De Curtis, che tutti conoscono come Totò, nel quartiere dov'è nato. La folla lo aspettava; don Pasquale Cènnamo, un guappo eiegante come un diplomatico, autorevole come un arcivescovo aprì lo sportello e Totò discese adagio e sorridente. «E' nobile, è buono, è caritatevole» mi diceva un segretario di don Pasquale; ed intanto vedevo che più fortunati volevano baciare la mano di Totò, ma egli si sottraeva a quell'omaggio. Il segretario di don Pasquale aggiunse: «E' anche democratico». Credevo d'avere finalmente trovato un napoletano come retoricamente se lo immaginano i piemontesi od i lombardi. Ma fu una scoperta di poca durata. Subito mi raccontarono che al cimitero di Napoli il principe Totò si è già preparata la tomba, già ha messo un medaglione di marmo che mostra il suo volto, già la scritta è pronta, lunga cinque righe per farci stare tutti i titoli nobiliari; ed in bianco c'è soltanto il posto dell'ultima data. Così questi napoletani cominciarono a darmi un senso di inquietudine.

Enrico Emanuelli, «La Nuova Stampa», 25 aprile 1954


La Stampa
Enrico Emanuelli, «La Nuova Stampa», 25 aprile 1954