La malattia agli occhi: giorni infelici per Totò «il buono»

Totò Malattia

Da un pezzo sapeva che i riflettori gli avrebbero aggravato il male alla pupilla - "Dottore, potrò guarire?" - Soffriva immaginando di dover abbandonare il "suo pubblico" e di non portare a termine la tournée

«I lumi della ribalta, i riflettori colorati, le altre luci del palcoscenico finiranno per farmi diventare cieco. I medici hanno detto che dovrei smetterla di recitare, che ho bisogno di lunghe cure, se non voglio perdere completamente la vista. ma come faccio a lasciare la compagnia? Mi aspettano a Palermo e a Siracusa. Mi attendono soprattutto a Napoli, dove debbo concludere la tournée. Non posso tradire i miei pubblici meridionali, soprattutto quello della città in cui sono nato».

Queste confidenze furono fatte in tono sommesso e accorato da Totò al suo amico ed avvocato Eugenio De Simone, la sera di martedì 30 aprile, sei giorni prima che il male colpisse il comico napoletano e lo obbligasse a sospendere gli spettacoli della sua rivista «A prescindere», in corso a Palermo. Il colloquio fra Totò e De Simone si svolse In un angolo del salone di un grande albergo di Firenze. L'attore vi era giunto pochi giorni prima alla testa della sua compagnia di rivista. D'aspetto stava bene; portava occhiali a stanghetta con lenti un po' spesse, ma non dava segni sensibili di infermità alla vista; solo all'angolo dell'occhio destro si notava un piccolo grumo di sangue, come se una corrente d'aria avesse determinato una congestione. E pure Totò sapeva di andare incontro al male. Parecchi oculisti, che aveva consultato negli ultimi tempi, gli avevano consigliato riposo rigorosissimo e cure severe; ma il popolare attore non sapeva decidersi a lasciare in asso i propri compagni di rivista.

«Come faccio a chiudere la tournée prima del tempo stabilito?» chiese all'avvocato, quasi per cercare consiglio. «Sono tornato al teatro dopo sette anni di lontananza dalla ribalta. Il palcoscenico, come un vecchio stregone, mi ha ripreso tra le sue grinfie. Non mi vergogno affatto di confessare che ogni sera quelle luci e quegli applausi mi riempiono da vita.»

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Quella “sua” malinconia

Totò sembrava, quella sera, in vena di ricordi. Parlò del tempo in cui, poco più che ventenne, era soldato dell'88° fanteria di guarnigione a Livorno, un fantaccino come tanti altri, che faceva ridere perfino gli ufficiali con i suoi lazzi e le sue uscite in dialetto napoletano. Era da poco finita la Prima Guerra Mondiale; il militare Antonio de Curtis, classe 1901 (1), non immaginava che un giorno sarebbe diventato principe e avrebbe potuto disporre di un patrimonio eccezionale. nel salone dell'albergo fiorentino, mentre ragazze americane ballavano accompagnate da una piccola orchestra, Totò si lasciò andare sul filo patetico della malinconia, che è al fondo del suo temperamento che egli ha saputo così bene esprimere nel film «Guardie e ladri». Sentiva probabilmente che, da un momento all'altro, com'è accaduto l'altra sera a Palermo, avrebbe dovuto rinunciare per un po' al palcoscenico, alle luci della ribalta, ai battimani del pubblico, le uniche cose capaci di riempire la sua vita e di fargli dimenticare l'innata tristezza.

Ricordò il suo debutto alla sala Umberto di Roma come comico del "varietà". Nascondeva fra le dita ha una specie di cicala metallica; stringendola la faceva gracchiare curiosamente. Totò, rivolgendosi agli spettatori con la sua faccia arguta, chiedeva a melenso: «Ti piace il giocattolo?» e suscitava matte risate.

Quando, lasciato il varietà, si rivolse al mondo della rivista, i suoi spettacoli furono i più fastosi ed entusiasmanti che si fossero venduti in Italia dell'epoca delle grandi operette in poi; allorché tredici anni fa de Curtis affrontò il cinematografo, interpretando la figura del calzolaio in «San Giovanni Decollato» di Nino Martoglio, un personaggio reso famoso da Angelo Musco, fece subito spicco nel mondo della celluloide, abituato ad attori celebri e dotati di ogni risorsa. Con la fortuna artistica arrivò quella economica. Si dice che Totò sia l'attore che abbia guadagnato di più ultimi 10 anni. Poi ci fu la battaglia nobiliare, dura, drammatica, qualche volta sconcertante.

Totò dovette battersi con tre persone che, nel giugno 1951, misero in dubbio il suo titolo imperiale di principe Antonio Angelo Flavio Comneno Lascaris, discendente dai Focas di Bisanzio, incorrendo nei reati di calunnia e di diffamazione.

Ci fu un lungo processo durante il quale l'attore portò in tribunale il libro d'oro della nobiltà italiana a antiche «bolle» che attestano la sua discendenza da Niceforo II Focas, imperatore di Bisanzio. La contesa dinastica fra Totò e il suo antagonista si concluse con la vittoria del popolare comico.

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Striscione in rosso

« I miei trionfi, le soddisfazioni che la vita mi ha offerto, il mio stesso patrimonio — disse quella sera, a Firenze, Totò — non sono riusciti a guarirmi dalla passione per il teatro. L'ho nel sangue; l’ho portata con me anche quando i mici occhi si indebolivano sotto le lampade a cinquecentomila dei teatri di posa. E pure, lo sento, dovrò rinunciare a tutto questo il giorno in cui la mia vista non gliela farà più». Era vicina a Totò la figlia Liliana, sposata al signor Gianni Buffardi, che da qualche tempo accompagna il padre durante le «tournée». Liliana trasalì nell'udire che l’attore non si faceva illusioni sul proprio male, aggravatosi nello scorso gennaio a Milano, quando Totò fu colto da una brutta polmonite e si sottopose a una cura massiccia di antibiotici, per non restare troppo tempo a letto e costringere la sua Compagnia a una forzata inoperosità. La figlia sapeva bene che Totò era stato colpito da una emorragia alla retina dell'occhio sinistro in seguito alla cura e che, non appena rimessosi, con la pupilla velata ed inerte, aveva ricominciato a girare l’Italia, affrontando le luci della ribalta. Udendolo parlare del suoi timori per l'occhio offeso. Liliana disse al padre: «Presto ti riposerai, papà, e potrai curarti bene».

Non pensò nemmeno a suggerire d'interrompere la «tournée», per non far inquietare l'infermo. L’altra sera, quello che Totò oscuramente intuiva si è verificato. Anche l’altro occhio, il destro, quello col piccolo grumo di sangue, si è improvvisamente ammalato. I medici chiamano fenomeni del genere «manifestazioni di simpatia» fra un organo e l'altro. La verità è che Totò, il quale sul palcoscenico già vedeva soltanto i contorni sfumati delle persone e delle cose, si è trovato repentinamente di fronte ad un velo d'ombra. Non è riuscito più a distinguere nemmeno genericamente l'ambiente chc lo circondava; si è ritirato nel camerino con la figlia, brancolando per uno stretto corridoio c dicendo con voce sommessa: «Sono cieco... Sono cieco! ». E’ accaduto cosi che lunedi sera 6 maggio la «tournée» è stata chiusa con quindici giorni d'anticipo: uno striscione rosso, sovrapposto al manifesti del Politeama Garibaldi a Palermo, ha informato il pubblico che lo spettacolo era sospeso «per improvviso malore del capocomico».

Totò non avrà il trionfo che più gli sarebbe piaciuto. Appena tre mesi fa, ottenne nella città natale un successo cosi toccante che l’impresario l’aveva scongiurato di tornare al più presto e di concludere dinanzi al pubblico napoletano la sua stagione. II principe Antonio De Curtis è arrivato invece stamane, a Napoli, col postale di Palermo, non per recitare, ma per sottoporsi a una cura radicale della sua infermità.

Il caso di Totò ha commosso il pubblico, gli innumerevoli suoi ammiratori, e subito si è pensato di far intervenire gli oculisti più illustri i quali guarissero il popolare attore e gli permettessero di tornare al più presto, al teatro.

Fra l’altro, si era detto che Totò si mettesse in cura nella clinica oculista dell'Università di Napoli, diretta dal professore Girolamo Lo Cascio. Invece l’attore, appena sbarcato dal postale di Palermo, è proseguito per Roma. Egli ha preferito curarsi nella sua casa romana di via Bruno Buozzi, fra i mobili antichi, i quadri d’autore, gli oggetti d'arte preziosi, nell’affettuoso ambiente familiare.

Arnaldo Geraldini, «Corriere della Sera», 9 maggio 1957


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Arnaldo Geraldini, «Corriere della Sera», 9 maggio 1957