Totò: ritorno dal buio alla luce dei riflettori

Totò Malattia


Lo rivedremo accanto a Fernandel e a Pabilito

Roma, novembre

L’attore Totò si risveglia. «Se sceta», come dicono a Napoli, e dolcemente sbatte le palpebre sui poveri occhi malati: uno ormai irrimediabilmente bloccato (il sinistro, da tempo) da una lesione alla retina e l’altro, per fortuna, in via di guarigione. Le palpebre del popolarissimo principe-attore-comico-mimo partenopeo sembrano, lievemente sbattendo nella penombra, vibratili aiucce di farfalle. Si direbbero, cosi bluastre, ombrate, ancora ricoperte di quella impalpabile patina di cipria azzurrognola con la quale soubrette e attori si truccano prima di sfidare in passerella le rutilanti sciabolate dei riflettori. Qui non c’è luce che possa infastidire le pupille. Nè l’attore s’è truccato per ricevermi. Spenta, e da tanto, l’eco fragorosa degli applausi, ritrovo — inguainato in un’elegantissima vestaglia rosso mattone, fazzoletto di batista che si affaccia dal taschino — il principe Antonio Focas Flavio Comneno de Curtis di Bisanzio. Un autentico signore napoletano: un po’ triste, un po’ solo, anche un po’ preoccupato. Riacquista confidenza nella vita. Riassapora gradatamente il gusto dei colori. Quasi riacciuffa il filo di una matassa imbrogliatasi d’un tratto, inaspettatamente, la sera del 5 maggio a Palermo.

Ma il principe de Curtis cede presto all’attore Totò. E la tristezza cede a quell’atteggiamento ilare, buffo che muove il riso anche a quattr’occhi, nell’intimità. Ecco il pomo d’Adamo andare su e giù; ecco i pomelli (non è un'illusione ottica) tinti di rosso vivo; ecco quel suo mento aguzzo (la «sguessera») esplodere come nelle scenette più effervescenti; ecco la bombetta a tutti nota e il frack smisurato nel quale il personaggio affonda e nuota. Totò mi ricorda, ora, quella formidabile sequenza di Charlot in «Un re a New York»: quando vorrebbe ridere e non può per via della plastica. Anche Totò (gli ho ricordato uno dei suoi più famosi scketchs) scoppierebbe in una risata veemente (non è forse lecito ridere di se stessi nella scia di un ricordo?) ma si trattiene pensando agli occhi malati, alle pupille che vanno piano piano assuefacendosi al tenero lume di sole che filtra dall’esterno in questo stupendo, favoloso salone. Attimi. Poi, non riesce a frenarsi e libera il riso troppo a lungo compresso. Cosi scaricato, è un altro. Niente di male. La guarigione è già un fatto compiuto, Totò racconta la storia malinconica delle sue traversie. Gli pare assurdo che debba continuare, lui caricato a molla, a starsene immobile perchè gli occhi non subiscano altri colpi. Totò steso sul letto o sprofondato in poltrona da mattina a sera? Il principe-attore si ribella. Per cinque lunghi mesi Io hanno comandato a bacchetta: la moglie Franca Faldini, la bella e giovane figliola Liliana moglie dell’ingegner Buffardi, i dottori, finanche la governante e la domestica. Per cinque mesi occhiali neri, farsi leggere giornali e libri, non poter scrivere, non poter vedere la televisione, non poter spalancare le finestre e inebriarsi di sole. Una condanna. Vivo, terribilmente vivo, e immerso nel buio prima e nella penombra dopo. Sentire giù nella strada — Totò abita in via Bruno Buozzi — il palpito della vita (il ronzare delle macchine, quando tutto è buio, diventa un segno straordinariamente importante: ci si abitua a riconoscere senza errori la Buick, la Cadillac, l'Alfa) e non potersi ribellare. Centocinquanta giorni. Tremilaseicento ore. Basta. Giustamente Totò impazza di gioia, come un bambino. «Ecco la mia casa, dice. I miei quadri, questo portacenere, quel vaso cinese, il colore della sua cravatta. Gialla a fasce marrone, vero? La ricchezza... La fama... Niente conta come poter vedere. E io vedo. Rosso, verde turchino, giallo...».

1957 11 06 Piccolo Sera Malattia occhi convalescenza f1

Totò era ritornato alla rivista dopo una lunghissima parentesi cinematografica. Patron, Remigio Paone. «A prescindere» fu un clamoroso successo. Incassi record in tutte le «piazze». Un Totò più che mai in forma, all'altezza della sua fama di attore-mimo insuperabile. Un primo «colpo» a febbraio: broncopolmonite. Avrebbe dovuto concedersi almeno quindici giorni di riposo. Invece, volle continuare: il senso del dovere, «Potevo mettere una compagnia in mezzo alla strada?», dice. La rivista continua il suo trionfale «giro». Ma a Palermo dopo tre rappresentazioni «A prescindere» dovette segnare il passo. Gli occhi. Totò non vedeva più. Nella sua relazione in data 7 maggio il prof. Guido Sala della clinica oculistica dell’Università di Palermo così si esprimeva: «Astigmatismo ipermetropico contro regola; chiazze pigmentate sulla retina, nel settore inferiore, d'antica data; piccolo focolaio di pigmento nella regione paramaculare con piccola spruzza emorragica e un lieve sco toma centrale». Nell’occhio sinistro il professionista dichiarava di aver riscontrato: «esito di distacco di retina con cataratta complicata e visus spento».

Palermo, Napoli, Roma. Naturalmente la compagnia dovette essere sciolta prima del previsto. Nacquero complicazioni di carattere finanziario. Remigio Paone, impresario della compagnia, ordinò una visita di controllo a Roma. Lo specialista confermò la diagnosi del prof. Sala. Totò preferisce sorvolare su questo tristissimo episodio. «Proprio Paone, un amico, osò mettere in dubbio la mia malattia. Capite? Paone, napoletano e amico». La stampa si occupò ampiamente del «caso». Testimonianze d’affetto, auguri da tutto il mondo. In sessanta — quaranta gratuitamente e venti a pagamento — offrirono un occhio all’attore. «Stavo davvero per diventare cieco, sottolinea malinconicamente Totò, e gli amici d’arte, ad eccezione di Wanda Osiris, Delia Scala e Peppino De Filippo, mi ignorarono. Credevo d’avere centinaia di colleghi affezionati, e invece...». Cinque mesi. Dimenticato da tutti. Proprio lui, Totò, che tutti aveva beneficato. Anche Remigio Paone. «Ne sapete niente voi, di don Remigio? Che gli è successo? Con me non s’è più fatto vivo...».

Sospesi i film che avrebbe dovuto girare: «Mariti imbroglioni» e «Via Veneto» con Peppino De Filippo. Ma già Totò è pronto a riprendere il lavoro. Alla fine di novembre, con Fernandel, «La legge è legge» (storia di un contrabbandiere e di un finanziere); subito dopo, «Totò e Marcellino» con Pablito Calvo (la storia di un piccolo orfanello). Niente rivista. Niente televisione. Niente politica. Tre partiti hanno offerto a Totò la candidatura nel collegio di Napoli in vista delle prossime elezioni politiche. Totò ha cortesemente e nettamente rifiutato. Ride, di gusto. «Ve lo figurate? Io a Montecitorio con questa faccia. L’onorevole Totò: ecco il titolo per un film. Ci voglio pensare». Punto e basta anche per le canzonette: troppi imbrogli. Meglio la poesia in vernacolo. Gli ultimi quattro versi di «Felicità» dicono (traduco): «Vorrei sapere cos’è questa parola — vorrei sapere cosa vuole significare — sarà ignoranza, la mia, mancanza di studi — ma chi l'ha mai sentita nominare?». Un saggio di filosofia (e di tristezza) tutta napoletana.

Totò ritorna. Totò, seconda edizione, che ha acceso ceri a San Gennaro e a Santa Lucia. Totò miracolosamente «attore» anche quando si parla nella raccolta intimità di un salone di coroidenite, di chiazze, di distacco di retina. Il primo Totò che conobbi apparteneva alla perduta stagione degli aoristi fortissimi, di Orazio e del «fanciullino di Cebete». Avanspettacolo, al cinema - teatro «La Fenice»: ingresso, una lira. Totò imperversava con la famosa scenetta della preghiera: quel suo straordinario contorcersi sul palcoscenico spegneva l’amaro ricordo dei canti di Dante a memoria. Non era principe, allora. Iniziava la sua folgorante carriera Nunzio Filogamo. L’Italia impazziva per il «Feroce Saladino». Dos Passos dedicava a Rodolfo Valentino lo stupendo capitolo «Tango lento» in «Quarantaduesimo parallelo». Non riesco a pensare a un Totò, cosi vivo, attore, mimo, clown spento insieme alle sue pupille. I ceri accesi a San Gennaro ce lo restituiscono. Ma riusciranno, finalmente, a darci i suoi prossimi film quel Totò che per anni abbiamo appena intravisto nelle scipite commediole che ancora tengono banco in provincia?

Sandro Delli Ponti, «Piccolo della Sera», 6 novembre 1957


Il Piccolo di Trieste
Sandro Delli Ponti, «Piccolo della Sera», 6 novembre 1957