I centonovanta cani di Totò
Ogni giorno centonovanta festosi latrati accolgono, in un canile di Roma, l’arrivo di Totò: il popolare comico è il benefattore che li ha adottati in massa salvandoli dalla fame, fornendo loro cucce confortevoli, e perfino un autista e un veterinario personali
Appena oltrepassato il cancello di legno dipinto d’azzurro, comincio a capire per quale ragione un tremendo frastuono, un chiasso assordante, una rumorosa confusione si chiamava, in dialetto romanesco, "cagnara". Centonovanta cani innervositi dall'arrivo di estranei ed eccitati dalla presenza del loro più grande amico stanno abbaiando in tutte le possibili gamme: il latrato breve ed energico dei cani da caccia, lo squittio sottile dei pechinesi, il guaito di un piccolissimo bastardo che è stato ammalato di cimurro nervoso (che è per i cani l’equivalente della poliomielite) e adesso ha una zampetta pateticamente percorsa da un brivido continuo, l’abbaiare pervicace e fragoroso dei cani da guardia e da pastore.
Proprio al centro della cagnara, con un volpino in braccio, un barbone che gli tira una manica, un bastardo nero che tenta di arrampicarglisi addosso e tutto un ricamo di impronte di zampe fangose sull’impermeabile bianco, il principe Antonio de Curtis, eccezionalmente senza occhiali, grida: «Milla, stai giù!», è l’inconfondibile, straordinaria voce di Totò. «Cagnoni! Smettetela! Che mi volete, mangiare vivo? Cagnoni, state giù!».
Ma si vede che sono rimproveri e minacce scherzose, e che Totò è contento di sentirsi intorno l’affetto degli indisciplinati animali che da qualche mese ha adottato, e che gli debbono la vita. Accanto a lui Franca Faldini, con un colbacco verde e un lungo impermeabile che le protegge la pelliccia di visone, ci racconta la storia di questa adozione:
«Tempo fa, leggemmo su un giornale un episodio commovente: una signora che viveva con cinquantasei cani morì in un incendio. Le bestiole furono portate al canile comunale, e sarebbero finite tutte nella camera a gas se un’altra appassionata cinefila, la signorina Elide Brigada, che dal canto suo provvedeva già a più di cento cani, non li avesse presi con sé. La notizia ci colpì e commosse, e decidemmo di andare a trovare la signorina Brigada, di offrirle il nostro aiuto. Ne aveva davvero bisogno, povera signorina, con tutta quella famiglia da mantenere! Cominciammo ad offrirle un po’ di danaro, ma erano gocce nel mare: da due mesi, abbiamo dunque adottato i cani. Ogni attimo libero lo passiamo qui: appena arriviamo, i cani ci fanno una gran festa, ormai ci conoscono. Soprattutto Totò, li conosce tutti, uno per uno, e vuol bene a tutti».
«Ai cagnoni io ho sempre voluto bene», interviene Totò. «Ne ho sempre avuti in casa. Mi ricordo il dolore che patii quando morì Dick, un lupo a cui ero affezionatissimo e che era vissuto con me per diciotto anni. E come si fa a non volergli bene? Sono così simpatici, bisognosi di cure».
«Fortuna che ho trovato il principe», dice a sua volta la signorina Brigada. È una donna sulla quarantina dal volto sereno e aperto, che quando parla delle sue bestiole si illumina di una luce fervida e affettuosa. Si è dedicata ai cani randagi da diciotto anni. «Non sono mai stata capace di rifiutarne uno», confessa, «non sono mai stata capace di permettere che un cane venisse ucciso, se appena potevo far qualcosa». Per questo li ha accolti nel suo rifugio all’estrema periferia di Roma; ma qualche mese fa era in condizioni davvero diffìcili, e la notte non riusciva a dormire pensando che le sue bestiole sarebbero morte di fame e di malattia, perché lei non aveva più danaro e non poteva comperare cibo e medicine.
«Per fortuna ho trovato il principe, anzi, il principe ha trovato me. Lei non ha idea di quello che ha fatto per questi cani: dormivano al freddo e nel fango, e lui ha fatto costruire delle belle cucce di legno celeste, i recinti e la pavimentazione di cemento. Erano malati, e lui ha assunto per curarli un bravissimo veterinario, il dottor Mascia, ha messo a disposizione un’automobile e un autista per te necessarie commissioni. Mangiavano poco e male perché io non ce la facevo a mantenerli e adesso, grazie a lui, hanno il loro pastone di carne, verdura e pasta tutti i giorni, stanno ingrassando e sono diventati persino più allegri. Davvero è un benefattore di straordinaria generosità perché costa, sa, mantenere centonovanta cani: costa almeno 350.000 lire al mese».
«Sì, costa», conferma Totò, che è riuscito finalmente a liberarsi dall’assedio affettuoso dei suoi protetti, «costa tanto, che anch’io, da solo, non posso farcela. Già molti amici sono intervenuti, hanno mandato il loro aiuto. Ma non basta, abbiamo bisogno di tanto aiuto per salvare queste bestiole dalla fame, dalla morte. Lei scrive un articolo? E allora, senta, mi permetta di fare una cosa che alla televisione non permettono mai. Un appello, sì, un appello alle lettrici del giornale, che sono tante, che certo hanno buon cuore e amore per gli animali, un appello rivolto anche ai loro bambini. Ecco, un appello che dice così: questi cani non sono belli, non sono di razza pura, qualche volta sono ammalati, qualcuno ha perso un orecchio o la coda in chissà quale avventura. Ma sono leali, affettuosi, amici nostri e vostri, hanno bisogno di noi e di voi per salvarsi. Aiutatemi come potete a salvarli: rivolgetevi al ”Club amici dei cani di Totò, via Monti Parioli 4, Roma”. E grazie, anche a nome dei cagnoni».
Ecco alcune delle storie che hanno commosso Totò e provocato il suo intervento. Le racconta Elide Brigada, l'appassionata cinofila che salvò i cani dal loro pericolo: la camera a gas.
Gli amici Ras e Tribolato
Se mi chiedessero di dare un esempio dì vera amicizia, non citerei uomini, ma questi due cani lupo: Ras e Tribolato. Ras era del proprietario di un garage e, un giorno, portò con sé un amico : Tribolato. Il padrone fu pochissimo entusiasta: «Come, Ras?», disse. «Non ce la faccio a mantenere neppure te, e ti porti dietro un altro cane?». Ras rispose abbaiando, e Tribolato restò. Dopo qualche tempo, però, il garage venne chiuso, i due cani furono abbandonati; li presi con me, e riuscii anche a trovar loro un padrone: un padrone per Ras a Tivoli, uno per Tribolato a Velletri. Due settimane dopo, Ras, ancor più stanco e malconcio del solito, con le zampe tutte gonfie e gli occhi iniettati di sangue, era tornato da me percorrendo ben quaranta chilometri. Lo feci entrare, gli detti da mangiare, gli fasciai le zampe; ma il cane continuava a piangere e guaire, come se cercasse qualcuno, non riuscisse a trovarlo.
Durante la notte, mi svegliò d’improvviso. Se mi chiedessero di dare un esempio dì vera amicizia, non citerei uomini, ma questi due cani lupo: Ras e Tribolato. Ras era del proprietario di un garage e, un giorno, portò con sé un amico : Tribolato. Il padrone fu pochissimo entusiasta: «Come, Ras?», disse. «Non ce la faccio a mantenere neppure te, e ti porti dietro un altro cane?». Ras rispose abbaiando, e Tribolato restò. Dopo qualche tempo, però, il garage venne chiuso, i due cani furono abbandonati; li presi con me, e riuscii anche a trovar loro un padrone: un padrone per Ras a Tivoli, uno per Tribolato a Velletri. Due settimane dopo, Ras, ancor più stanco e malconcio del solito, con le zampe tutte gonfie e gli occhi iniettati di sangue, era tornato da me percorrendo ben quaranta chilometri.
Lo feci entrare, gli detti da mangiare, gli fasciai le zampe; ma il cane continuava a piangere e guaire, come se cercasse qualcuno, non riuscisse a trovarlo. Durante la notte, mi svegliò d’improvviso un lungo ululato. «Ras!», rimproverai, irritata. Ma non era Ras. Ras stava accanto alla porta di casa. Aprii e sulla soglia era Tribolato, anche lui mortalmente stanco: aveva corso per quasi cinquanta chilometri, per arrivare al tacito appuntamento con il suo amico. Da quel momento, i due cani non si sono più lasciati.
Il furbo Full
A Full è un bastardo, un randagio che raccolsi per via, al quale trovai poi un padrone. Ma il cane scappò, il padrone non si curò di rintracciarlo: lo trovò, invece, l’accalappiacani. Dopo tre giorni, durante i quali nessuno lo reclamò (io non ne sapevo nulla), la sua condanna fu pronunciata: sarebbe finito nella camera a gas del canile comunale. Eppure Full riuscì a sopravvivere alla morte, quella volta e altre due volte ancora: nella camera a gas, sì accucciava fra i suoi compagni di sventura, nascondeva il muso contro quello che aveva la pelliccia più folta, e, respirando attraverso quel singolare filtro, riusciva ad evitare i vapori mortali del gas. Alla fine, dopo il terzo tentativo vano di ucciderlo, i guardiani gli fecero grazia; incuriositi, osservarono più accuratamente quel cane fenomeno, e scoprirono, sotto il pelo, una medaglietta con il mio numero telefonico. Quando andai a prenderlo, il cane sembrò impazzire dalla felicità.
«Andiamo acasa, Full», gli dissi, «che il nonno ti ha preparato un buon pastone». Lui mi guardò fissa, poi abbaiò due volte, come a dirmi: «Sì, andiamo». E ci avviammo insieme. A casa mio padre, che la notte precedente non era riuscito a dormire pensando alla terribile avventura di Full, stava preparando festose accoglienze per il suo cagnolino prediletto.
Il cattivo Fulgenzio
Nessuno, tranne me, osa prendere in braccio Fulgenzio, un piccolo, simpatico e spettinato grifone di razza purissima. Nessuno vuole dargli da mangiare, giocare con lui, fargli una carezza o lanciargli una palla. Perché Fulgenzio, così piccolo e spettinato, è un cane cattivo. L’ho salvato dalla morte, ed è come se lui lo sapesse. Tre volte gli ho trovato un padrone, e per tre volte ho dovuto riprenderlo con me, i padroni lo accusavano sempre delle stesse colpe: Fulgenzio è cattivo, non si lascia avvicinare, morde, scappa, non vuol giocare, fa male ai bambini, non vuol stare nella sua cuccia, è geloso.
È vero, Fulgenzio è cattivo, ma lo è per paura, attacca per difendersi: ha avuto troppe prove di cattiveria dagli uomini, nella sua breve vita di cane respinto da tutti; in ogni carezza sospetta una percossa, in ogni richiamo un inganno, in ogni gioco un calcio doloroso, in ogni cibo una polpetta avvelenata. Per questo Fulgenzio sembra cattivo e ha fiducia solo in me, morde gli altri cani quando mi si avvicinano, è geloso. Ma è solo un piccolo cane spaventato bisognoso di cure.
Il coraggioso Jack
Jack è un barbone gigante nero, è uno dei cani a cui sono più affezionata, perché gli devo la vita. Era la notte del 15 gennaio, faceva un gran freddo; a sera, per riscaldare la casa, accesi del carbone in un bidone da benzina; poi me ne andai a letto. Ma durante la notte, dalla stufa cominciarono a sprigionarsi le terribili esalazioni dell’anidride carbonica. Io non me ne accorsi. Nel sonno sentii Jack che raspava contro il mio letto, come se volesse chiamarmi.
Mi destai dal torpore, ma ero stordita, confusa, già intossicata: capii che cosastava avvenendo, ma non avevo assolutamente la forza di reagire. Allora Jack mi afferrò con i denti per la camicia da notte, cominciò a tirare con tutta la sua energia, sinché riuscì a farmi uscire dal letto, a trascinarmi, completamente priva di forze, sino alla finestra. Dopo averla spalancata — era la salvezza — rimasi aggrappata al muro, immobile. Il mio coraggioso Jack ad un tratto si allontanò, per tornare con le mie pantofole. Non solo mi aveva salvato la vita, ma da brava e intelligente bestia, ora voleva evitarmi un raffreddore.
Il povero Mosè
Mosè ebbe la fortuna di essere stato soccorso dallo stesso Totò sull'Aurelia, dopo aver subito un grave investimento da parte di un'auto. Quasi morente, ebbe le zampe posteriori paralizzate. Totò, con l'aiuto del dottor Mascia, veterinario dell' "Ospizio", riuscì a farlo nuovamente camminare realizzando questa prodigiosa protesi mobile.
Il "poliziotto" Dox
Il cane «Dox» e suo figlio «Dox Junior», due pastori tedeschi che hanno risolto brillantemente decine di operazioni di polizia giudiziaria e che, non appartenendo allo Stato, vennero allontanati dalle camerate della Squadra mobile romana, dove alloggiavano «abusivamente» assieme al loro padrone, trovarono un tetto sicuro. La loro malinconica vicenda, regolata da rigide disposizioni di legge che non ammettono sentimentalismi, commosse Totò.
Fu nel gennaio 1961 che lo stesso Totò e Franca Faldini si recarono presso la Squadra mobile di Roma per prendere in consegna i due cani. «Dox» e «Dox junior», sfrattati da pochi giorni, avevano trascorsero la notte all'addiaccio e per tutta la giornata rimasero sdraiati sul marciapiede, davanti al portone di quella che, fino a poche ore prima, era stata la loro casa. Il «padrone» dei due «lupi», il brigadiere siciliano Giovanni Maimone, in forza alla «Mobile» per ragioni di servizio, non poteva occuparsi più di loro. La notte precedente rimase anche lui all’aperto, assieme alle sue bestie; le coprì con dei «plaid» perchè non prendessero freddo, e rifocillate verso l'alba con la consueta razione di latte e pane.
Lietta Tornabuoni, «Novella» anno XLII, n. 2, 12 gennaio 1961
Lietta Tornabuoni, «Novella» anno XLII, n. 2, 12 gennaio 1961 |