Gli «arrivati»: Totò

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1953 04 04 Epoca Silvana Pampanini intro

Qualcuno si divertiva a chiamarlo «principe», alludendo ironicamente alla sua discendenza bizantina, ma ad un certo punto egli si seccò: «Amici miei — disse — qua siamo tutti lavoratori... siamo tutti amici... non ci sono né conti, né baroni... Lasciamo stare il principe: chiamatemi solo Eccellenza!».

Di Totò fuori della scena ho un ricordo che risale agli albori della sua carriera cavalleresca, prima della guerra, quando le legittime rivendicazioni dei suoi vistosi titoli cavallereschi erano, forse, non più che una sua legittima aspirazione. Egli trionfava già sulle scene di rivista, erano popolari alcune sue parodie ispirate a film di successo del tempo («Se quell’evaso io fossi», per esempio, spiritosa parafrasi del film «L’evaso», che aveva dominato un’intera stagione cinematografica), la gente non si stancava di ammirare alcune su piccanti imitazioni, e anche i più esigenti spettatori s’erano arresi di fronte ad alcune sue tiritere pervase da un estro inconfondibile, di un umorismo moderno, personale, sfavillante. Io ero un suo grande ammiratore, non avevo mancato di scrivere articoli su di lui.

1962 01 11 Vie Nuove Toto f1 L

Una notte, molto tardi, Totò venne a cercarmi al giornale dove allora lavoravo, accompagnato da un mio amico. Doveva parlarmi d’«urgenza». Pensai, lì per lì, qualche incidente con una guardia, per le solite richieste di «documenti» ; la notte, allora, era facile (ma anche adesso, del resto, che non c’è più l’apparato poliziesco del fascismo) imbattersi in un pattuglione ed essere vittima d'una sopraffazione. A ogni modo, corsi subito nella sala d aspetto, dove l’usciere aveva fatto entrare Totò. Era visibilmente emozionato. Lo pregai di dirmi tutto passando sopra ai convenevoli. La mia conoscenza con l'attore, a quel tempo, non era divenuta dimestichezza, mi chiamava, ancora «dottore». A spiegarmi il motivo di quella visita fu l'amico. Si trattava di questo. Totò, già da qualche anno cavaliere della Corona d’Italia, era stato nominato «ufficiale». Bisognava che la notizia uscisse a tutti i costi sul giornale della mattina. Erano quasi le tre di notte, la pagina della cronaca era stampata. Forse sarebbe stato lo stesso rimandare la pubblicazione al giorno dopo. Ma Totò apparve contrariato dalla mia proposta, tanto più che l’onorificenza era stata conferita «motu proprio» del Sovrano. «Motu proprio», mi ripetè, «motti proprio, dottò...». Il neo «ufficiale» non scherzava, annetteva all'avvenimento una grandissima importanza, e certe occhiate tempestive del suo accompagnatore erano molto significative. In quel momento mi venne in mente un sonetto di Trilussa, dove parla, appunto, un «cavajere» nominato di fresco, tal «Giggi Trappota», convinto che, appunto, queste insegne vengano ’ distribuite quando «ar Re je viè la fantasia senza che l'antri ciabbino pensato».

Dato, come dicevo, che il giornale era quasi pronto, bisognava far «ribattere» la cronaca per dare ospitalità al «motu proprio» di Totò. Andai dal direttore, gli esposi il caso, l’attore fu accontentato. Da allora la fortuna cavalleresca dell'irresistibile attore procedette con ritmo galoppante, direttamente proporzionale a quello della ascesa artistica. Ora egli, come tutti sanno, è Principe di Bisanzio e, insieme, è uno dei pilastri dell'industria cinematografica nazionale.

Tempo fa, a proposito di questa sua doppia personalità di attore e di principe, Totò mi parlò, anzi, di un soggetto per un film da lui accarezzato. Un film dove, appunto, egli avrebbe dovuto interpretare una doppia parte, quella di un grande attor comico e quella di un suo fratello gemello, parassita del primo. Due rampolli di una famiglia principesca ormai decaduta, addirittura in miseria; uno, a forza di sacrifici, divenuto qualcuno sul palcoscenico, l’altro protervamente attaccato al suo ormai sterile albero genealogica Il primo lavora, si affanna, veste abiti di pagliaccio per guadagnare sempre più e dar da vivere decorosamente, secondo il suo rango, al secondo, che si fa sempre più esigente, addirittura esoso. La vicenda è tutta nel contrasto tra questi due fratelli. L’«aristocratico». naturalmente, si vergogna del pagliaccio, e rinnega la parentela, dice che si tratta di una spiacevole rassomiglianza, arriva, un giorno, a sfidare a duello un conoscente che si era permesso di scherzare sull’argomento. E quando più la sua alterigia si fa intransigente, tanto più il povero pagliaccio deve intensificare i suoi sforzi perché il suo pubblico non l’abbandoni, dato che le spese di «mantenimento» crescono vertiginosamente; debiti di gioco, viaggi, donne, automobili del fratello ricadono tutti su di lui, fino al giorno inevitabile della sua ribellione, iniziatasi con una finta malattia che costringe il nobile parassita a esibirsi lui sul palcoscenico al posto del fratello, ma senza successo.

1962 01 11 Vie Nuove Toto f2 LTotò e Franca Faldini a Montecarlo durante il Gala del British American Hospital.

Questo, pressappoco, la trama del film ideato da Totò, e mai realizzato per l’inevitabile ottusità dei produttori (almeno io penso), o forse perché lo stesso attore non ha mai approfondito il suo progetto. Altri soggetti di film da lui concepiti, del resto, non sono andati, egualmente, avanti, per un motivo o per l'altro. Ed è un gran peccato, perché Totò ha una fantasia fertilissima, un fervore d’inventiva inimmaginabile. Chi, come me, ha collaborato con lui all’elaborazione di alcuni film sa benissimo tutto ciò. E’ un umorista straordinario. Ha la percezione fulminea del comico. Una volta, quando una sentenza della magistratura aveva ormai stabilito definitivamente che gli appartenesse il titolo di Principe, durante la lavorazione di un film diretto da Rossellini («Dov'è la libertà?», scritto da me in collaborazione con Vitaliano Brancati e Antonio Pietrangeli), capì che qualcuno della troupe si divertiva a chiamarlo «Principe» anche quando l’uso dell’imponente appellativo non era strettamente necessario. Sulle prime Totò fece finta di niente, ma «Prìncipe qua», «Prìncipe là», a un certo punto si seccò. Ma da signore qual è é, soprattutto, da uomo intelligente, non pensò nemmeno lontanamente di mettere a posto gli importuni in modo convenzionale. «Amici miei», disse, durante una pausa, come se continuasse a recitare la scena, «qua siamo tutti lavoratori, qua non ci sono né principi né baroni... qua siamo tutti amici... Lasciamo stare il principe... Chiamatemi solamente Eccellenza!». E la battuta ricorda quella di un altro spassoso e arguto napoletano, il giornalista Adolfo Cotronei, il quale, a un giovane collega ospitato nella sua stanza al Corriere della Sera e che gli rivolgeva continuamente la parola col «lei», un bel momento lo pregò: «Ma siamo colleghi perché questo "lei"? Diamoci del "voi"!».

Ciò non significa, tuttavia, che Totò non prenda nella meritata considerazione il suo ruolo nobiliare. I suoi successi artistici forse non gli hanno prodigato la stessa orgogliosa soddisfazione delle vittorie giudiziarie ottenute contro accaniti pretendenti al trono di Bisanzio. Durante la lavorazione di un altro film, ricordo ancora, approfittavo della pausa per dare un’occhiata ai giornali. Totò venne a sedermisi vicino. Eravamo in «esterni» ai margini di un binario morto, in una stazioncina sperduta a una cinquantina di chilometri da Roma. Il principe De Curtis era vestito da capo stazione, aveva un berretto fiammante. Nella prima pagina del giornale che leggevo in quel momento un gran titolo annunziava che un terremoto aveva sconvolto la Grecia e la Turchia. Totò volle il giornale. quando me lo restituì appariva pensieroso. La notizia di quel terremoto lo aveva turbato. «Da quelle parti ho dei parenti», mi disse poi. Io, li per lì, pensai che si trattasse di parenti stretti, che si trovassero nelle zone terremotate per motivi di lavoro o in gita turistica. Egli, invece, alludeva a parenti come lui discendenti dagli imperatori di Bisanzio.

Pochi attori come Totò, a ogni modo, hanno meritato il successo più di Totò. E’ una forza viva delle scene e del cinema. Sembra nato per creare personaggi deformati dalla fantasia umoristica dell’interprete, vorrei dire idealizzati dal suo estro epigrammatico. I suoi personaggi non sono mai macchiette, non sono legati a una moda, hanno sempre qualche cosa di metafisico, di poetico, di indicibilmente umano. Molti hanno ancora davanti agli occhi quel suo straordinario «gagà» di una rivista; un povero «gagà» finito ai lavori forzati nelle miniere di Carbonia, dove il duce aveva decretato che dovessero finire i «fannulloni» (e in realtà vi finirono solo degli antifascisti). Nella miniera. Totò-gagà raccontava le sue traversie. «Mi trovavo a via Veneto», diceva, «quando mi si avvicinarono due signori con impermeabili e ombrello, che mi dissero: "Siete un gagà?", e io, data fora: "Sono un gagà!"...». Quel «data l’ora», detto da Totò in un certo modo aveva tutto un suo significato, il sottinteso della battuta non sfuggiva a nessuno. E poi, la bellezza del personaggio era nella rifinitissima caratterizzazione di quel «gagà» che anche nelle viscere della terra conservava. inalterati, gli stessi tratti, le stesse moine, gli stessi sdilinquimenti, lo stesso linguaggio snervato di via Veneto allo stesso modo delle damine di Maria Antonietta che, in una celebre ballata di Heine, pur senza testa, perché ghigliottinate, continuano a fargli inchini e i convenevoli come se fossero sempre a corte.

Contrariamente a ciò che accade frequentando attori, la compagnia di Totò, la sua conversazione sono piacevolissime. Una volta, essendo caduto il discorso su un comune amico, al quale egli vuol bene (come glie ne voglio anche io), ma che sarebbe una terribile ingiustizia annoverare tra le persone amanti dell’acqua e del sapone, io domandai a Totò quanti anni avesse, essendo uno di quegli uomini «senza età», che tutti asseriscono di ricordare «così». Totò corrugò la fronte, come per concentrarsi nello sforzo di un calcolo : «Dunque», rispose, «io l'ho conosciuto a Napoli, quando lavoravo all'Eldorado... poi io andai in Tripolitania... quando tornai, mi dissero che si era trasferito a Roma, e difatti, quando io fui scritturato a Roma alla Sala Umberto, lo ritrovai... Poteva essere il 1930... Poi... ci siamo rivisti durante la guerra... Ti dirò...  è sporco!». Il tempo sommerso dalla «sporcizia» è una di quelle illuminazioni che hanno sempre costituito la caratteristica più immediata dell'umorismo di Totò. Non c’è barba di catone che sappia resistere alla simpatia di questo prodigioso comico, nei cui sguardi, nelle cui battute si dissolvono i più tenaci luoghi comuni, per rinascere come portentose fenici, e vibrare nell’aria con suoni nuovi, in fantastiche iridescenze.

Tante volte, vedendo un film di Totò, quando egli sparisce dallo schermo, accade come quando, viaggiando, il treno entra in una galleria, e il paesaggio, d’un tratto, è abolito, e gli alberi, i fiorì, il sole diventano in un baleno dei semplici ricordi. Non resta che aspettare lo sbocco del tunnel per riprendere a vivere. Totò illumina lo schermo, come la scena. Il suo volto, i suoi sguardi, i suoi tic sono come i paesaggi, come le letture, come le conversazioni con i compagni di scompartimento, indispensabili a rendere meno faticoso il viaggio. Totò, poi, ha il dono di far dimenticare anche i testi più insulsi. Ha il segreto di apparire sempre fresco, inedito e senza mai ingegnarsi di mutar pelle come i serpenti e i comici da strapazzo; e nemmeno di forzare la sua natura. L’umanità di Totò non ha nulla da dividere con il sentimentalismo di certi attori «col cuore in mano» che passano dal pernacchio al pianto con istrionismi intollerabili.

Qualunque tentativo di «deamicizzare» Totò è caduto nel vuoto, senza, però, trascinare il nostro comico nel baratro. Il suo mondo, del resto, è cosi personale. I suoi personaggi non esprìmono rammarichi, non narrano terrene disavventure, non cantano per tristezza o per rabbia, non ridono pagliaccescamente per celare l’intima malinconia. Della vita quotidiana, dell’esperienza del marciapiedi, essi non recano con sé che il ricordo di piccole, trascurabili contingenze, non sono che i portavoce di qualche frase più memorabile, di qualche assillante aforisma, di petulanti ritornelli, di certe popolari cacofonie, di venerandi luoghi comuni. Ma questo bagaglio, apparentemente esiguo, avrà, poi, la sua importanza, quando parole gravi, proverbi ammonitori, grani di sapienza, vocaboli dal suono affascinante si troveranno a contatto con l’espansivo brìo, con l’incontenibile dinamismo, con la marionettistica agitazione dell'attore.

1962 01 11 Vie Nuove Toto f3 LFranca Faldini e Totò nella cabina di guida dell'«Alcor», lo yacht del popolare attore.

Ecco la genesi, la giustificazione di certi memorabili successi, di certe travolgenti contaminazioni. Ecco le assurde, clamorose farse, sulla scena e sullo schermo, dove l’azione si svolge tra la terra e il cielo, epoca passata, presente e futura: Totò centauro, chimera, lupo mannaro, illusionista, prestigiatore, marziano, piovuto dal cielo e sprofondato nelle viscere della terra, atteso, sempre, e festeggiato messaggero della fantasia, e sempre circondato, come Anacreonte, da fiorenti ragazze che gli consentono docilmente quegli audaci movimenti di mano, a Napoli chiamati «passaggi».

E oggi che i miei interessi professionali non mi consentono più la dimestichezza di un tempo con Totò, penso con rinnovata nostalgia ai suoi successi del Valle e del Quattro Fontane, quando mi era dato di godermelo anche fuori del teatro o del cinema: penso a quel Totò, come dicevo, niente affatto meno arguto e irresistibile dell'attore cosi ammirato, pronto allo scherzo, alla battuta, alla rievocazione dell’aneddoto piccante, spontaneamente, umanamente spiritoso. Come quando, per esempio, ad alcuni autorevoli esponenti di un partito, che, in occasione delle elezioni amministrative del 1952, dopo avergli inutilmente offerto di far parte della propria lista, volevano sapere se, almeno, potessero contare sul suo voto, con tono compitissimo di superiorità e distacco, rispose: «Ma voi dimenticate che un sovrano non vota...».

Vincenzo Talarico, «Vie Nuove», anno XVII, n.2, 11 gennaio 1962


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Vincenzo Talarico, «Vie Nuove», anno XVII, n.2, 11 gennaio 1962