Totò a scatola chiusa
I personaggi che ci fanno ridere
Da quarant'anni il principe napoletano è il maggior «produttore» di comicità sul mercato dello spettacolo • Con il suo marchio di fabbrica qualsiasi filmetto rende milioni
Roma, settembre.
Antonio De Curtis, sessantasette anni, principe, napoletano, può considerarsi il maggior produttore di comicità sul mercato. dello spettacolo italiano. Vende a scatola chiusa. Il fatto si è che la comicità è diventata un bene di largo consumo popolare, sempre più prezioso e ghiotto, da assimilare con avidità, come una droga per uccidere l'angoscia contemporanea. Si tratta di una qualità di merce di cui il principe De Curtis è raffinato intenditore e imbattibile spacciatore. La sua invenzione-capolavoro si chiama Totò. Sono quarant'anni che la maschera di Totò fabbrica ilarità e milioni: ilarità per milioni di italiani, milioni a palate per Antonio De Curtis. Si può affermare che la macchina ha raggiunto un grado di rendimento perfetto. Non fallisce colpo. Totò è un affare sicuro, un investimento ad altissimo reddito, una fonte inesauribile di ricchezza e di divertimento. Totò a colori, brutto film senza ambizioni, guadagnò un miliardo di dieci anni fa. Cambiano i gusti degli spettatori, i modelli della comicità, gli idoli della moda: non cambia Totò e fa successo. In questi giorni sta lavorando al suo centocinque-simo film. E' un primato che non potrà essere battuto facilmente, conveniamone. .
L'orgoglio del principe
Si capisce che Totò costituisce l'orgoglio, la ragione di vita, la costante preoccupazione del principe De Curtis.
Totò è un miscuglio di virtù e di difetti nel quale l'italiano di media cultura e di media età riconosce. le proprie virtù e i propri difetti. Totò conosce gli impulsi e gli scatti comuni all'italiano che si sente soffocare dalla regola, che vorrebbe concedersi una pazza evasione, spezzare il cerchio ferreo delle abitudini, delle mortificazioni, delle convenzioni. Totò interpreta un’idea anarchica, folle e impossibile della vita. Totò reagisce alla meccanicità degli atti quotidiani con una esasperazione grottesca, assurda della meccanicità
«Gesù, quante cose significa 'sto benedetto Totò»: serrandosi la vestaglia, il principe Antonio De Curtis sorride con persuasione. Ecco, la battuta gli è servita ad alleggerire l’imbarazzo della conversazione. Accende una sigaretta. La vestaglia è rossa e fa contrasto col pallore del viso, attento ed arguto. Porta gli occhiali neri, soffre alla vista. E’ un omino scarno, nervoso, cortesissimo. Dietro la cortesia si maschera una timidezza di natura. La timidezza è frutto d'una melanconia senza fondo. «Lo sa che in privato non sono capace nemmeno di raccontare una barzelletta?». Sono le tre del pomeriggio. Le abitudini del principe-attore sono rigide e immutabili da decenni: lo aiutano, cosi, a sopportare un ritmo di lavoro assai sostenuto. Pochi attori, anche fra i più anziani, sanno risparmiarsi come Totò. Una vita di disciplina, veramente. Appartata, casalinga, normale: la giornata di un funzionario di banca.
Sul tavolo spicca la copertina colorata di un volumetto di poesie: 'A livella. Poesie in dialetto napoletano. Già, perchè Antonio De Curtis è poeta nei ritagli di tempo che riesce a rubare a Totò. Il volumetto comparirà nelle librerie fra poche settimane. La poesia di apertura parla di morte e di fantasmi, di differenze sociali e di rassegnazione nell’eternità. In fondo al salotto, troneggia un pianoforte. La musica è l’altra evasione del principe-attore. Le sue canzoni sono sentimentali, genere melodico, di ispirazione romantica. «Le compongo col fischio» dice e sorride, ancora. Dopo che il maestro ha tradotto il motivo in note, lui si dedica al testo. La sera, in genere, quando Totò è andato a dormire.
Antonio De Curtis abita un appartamento ai piedi dei Parioli, che nulla vieterebbe di definire principesco: una fuga di stanze sontuose, di specchi, di quadri d’autore, di mobili raffinati. Qui. Antonio De Curtis vive un’esistenza di squisito tenore borghese e matura le trovate, gli sberleffi di Totò contro la regola, la disciplina, la mortificazione quotidiana.
Una chiave per spiegare il successo di Totò attraverso i decenni e le guerre e i capovolgimenti sociali potrebbe essere questo rapporto singolare fra la maschera comica e il principe-inventore. Un rapporto nel quale Totò ruba a De Curtis gli stimoli e le ribellioni dell'uomo comune e nel quale De Curtis risolve, affrancandosene, i complessi e le frustrazioni della società a cui appartiene. C’è nella identificazione fra Totò e il principe De Curtis una sorgente vitale, misteriosa, di umori beffardi e di presupposti comici: è possibile che da questo nodo scaturisca la carica che alimenta la maschera più popolare in Italia, la fabbrica di ilarità e di ricchezza.
Solo una maschera
Si è scritto che a Totò è mancato un regista che sapesse utilizzarne l’esperienza e l’ispirazione per un’opera d’arte e si è scomodato il nome di Federico Fellini, si è sottolineato il merito di Totò nel rifiutare le furberie. i trucchi fregoliani con i quali gli altri attori comici si ingegnano di divertire il pubblico, si è rimpianto che Totò abbia un po’ dissipato le sue straordinarie risorse: il principe Antonio De Curtis accetta il discorso con appena un’ombra di risentimento.
Dice cose sacrosante, che Totò è una maschera e non un attore-personaggio: ciò significa che Totò non può che interpretare se stesso, mentre qualsiasi regista di nome pretenderebbe di rivestirlo dei panni di personaggi immaginari, pretenderebbe di piegarlo a una diversa dimensione umana. Un regista con intenzioni artistiche si sforzerebbe di impossessarsi di Totò e Totò non vuole perchè non ci crede più, ormai. «D'altronde, è ancora da scoprire se esiste in Italia un regista che sappia raccontare storie comiche» conclude Antonio De Curtis.
Una soluzione ci sarebbe e sarebbe che Totò dirigesse se stesso: Totò regista di Totò in un film rispettoso della maschera comica. Certo, sarebbe Tunica soluzione ragionevole. Charlot non s’è fidato sempre di Charlie Chaplin e soltanto di Charlie Chaplin? «Sì, ma io non saprei accettare responsabilità così pesanti» dice Antonio De Curtis. Onesto fino all’autolesionismo, dal momento che sarebbe in grado di trovare credito per qualsiasi avventura che recasse il marchio dì fabbrica Totò.
Il quale, come regista, un'idea tecnica l’avrebbe per migliorare il prodotto: «Vorrei far imparare le parti a memoria, come si usa in teatro. E pretenderei che il film fosse recitato come una commedia. Anticiperei il lavoro tutto nella fase delle prove. Quando lo spettacolo fosse stato messo a punto in ogni dettaglio, comincerei a girare: dopo averlo scomposto in teatro di posa, lo ricomporrei in montaggio». L’idea gli è sorta sulla scorta delle esperienze personali, dovendo sempre interpretare film che lo costringono a inventare le battute davanti alla macchina da presa, «al caldo dei riflettori, già recitando », sul filo di uno scarno canovaccio scritto in poche cartelle e da Totò accettato magari con mesi e mesi di anticipo.
«Sul canovaccio — racconta — io ricamo, improvvisandole giorno per giorno, le mie battute. Sul palcoscenico questo è reso più facile dalla presenza stimolante del pubblico e dopo un certo rodaggio si impara quale è la intonazione che ha maggiore effetto, quale dev'essere la durata di una pausa. In cinema tutto avviene a freddo, non c’è la possibilità di verificare la validità di una frase. Con il mio sistema, il giorno che mi decidessi a fare il regista, l’attore, prova e riprova, riuscirebbe a mettere a fuoco la comicità improvvisata». Siamo andati lontano: cinema artigianale, cinema-industria, preventivi, preparazione tecnica, lavoro di tavolino: tutto un discorso che sollecita il principe De Curtis alla polemica. «I produttori sono semplici appaltatori di film, i capitali non sai mai come arrivano sul set: questo è il guaio del cinema italiano» conclude.
Quando Totò apparve per la prima volta sullo schermo, era il '37. Il film si intitolava Fermo con le mani. Totò era già una maschera nazionale della comicità. Aveva mosso i primi passi a Napoli in spettacoli dialettali all'aperto: «Dove si recitava a soggetto, rinnovando sera dietro sera il mito della commedia dell’arte». Quarant’annì, insomma, che Totò è costretto all'improvvisazione, cinema o non cinema: una carriera ben faticata, bisogna riconoscerlo.
Alfonso Madeo, «Corriere della Sera», 20 settembre 1964
Alfonso Madeo, «Corriere della Sera», 20 settembre 1964 |