Il lamento del vecchio Totò
In una spietata autocritica Totò mostra la corda di tutto il suo pessimismo. Riconosce di avere speso male il suo grande patrimonio di attore, ma biasima i troppo facili successi di tanti altri.
ROMA, settembre.
«Chiudo in fallimento, caro amico », mi dice Totò nel mezzo della più spietata autocritica. E sembra che questa confessione non gli offra altra scappatoia che un salto oltre la spalletta del fiume. «Avrei potuto diventare un attore internazionale... Credo di avere una vis comica naturale... Ma non ho fatto niente... Sono un uomo sconfitto...» Curvo, come macerato dal rimorso, Totò parla delle sue inadeguatezza, della sua pigrizia. E il tono della voce si fa sempre più basso e più grave.
Pronunciata questa disperata ''autocritica", sta lì ad aspettare, tranquillo; e nel suo atteggiamento non c’è soltanto educazione e rispetto per il prossimo, ma anche una buona dose di curiosità e di scetticismo. (Ma perchè mi vorrà intervistare? Che cosa avrà da scoprire in me?). Nello stesso tempo è pronto però a parlare per ore di se stesso. «Lei non è, vedo, un ottimista?», domando. «Ottimista? Ma lei vuole scherzare?... » ribatte come risentito. «Io sono pessimista... Anzi pessimistissimo», dice sillabando. Attendo che se ne esca con la divertente tirata: «Ma come si permette? Lei non sa chi sono io?...» e via di seguito. E spero di vedere rinascere, miracolosamente, dalle ceneri del notturno Totò di poco prima, il buffo e scorbellato Totò che conosciamo. Ma questo Totò divertente è difficile stanarlo. Anche se si considerasse un attore completamente riuscito e definitivamente arrivato, nulla potrebbe scalfire il suo compatto pessimismo.
«Ha mai pensato chi siamo noi attori?», mi domanda. E, senza attendere risposta, chiede ancora: «Chi siamo?». E si avvicina per tentare di discernermi un po’ meglio tra le ombre della sua semicecità. «Chi si ricorda ormai più di Petrolini? Perchè darsi tante arie quando noi attori non siamo niente? Il popolo può fare a meno di noi... Possiamo dargli al massimo un’ora e mezzo di svago...». Non c’è successo che possa convincerlo del contrario, ma non c’è insuccesso che riesca ad indurlo all’abbandono. Solo il non far niente può minarne la fibra e logorarne la resistenza. «Sto male se non lavoro», dice mentre le sue mani palpano con trepidazione il tavolo in cerca della tazzina di caffè. Non è del guadagno, quanto del calore umano del set che Totò si sente spesso inconsolabilmente vedovo.
Senza lavoro diventa più melanconico, un po’ più solo, stanco, sfiduciato, svuotato di energia. Forse sospetta che abbia fatto il suo tempo e che stia per essere confinato. «Ognuno di noi ha un ciclo... Chiuso quello non c’è niente da fare... I cicli degli attori non si ripetono... E' quello che non vuol capire il fisco... Quelli delle tasse credono che gli attori siano sempre sulla cresta dell’onda...». Ma, appena appare in un film, Totò si accorge che il suo ciclo non è ancora concluso. Anche se è un filmaccio, il pubblico non riesce a sottrarsi al suo richiamo e finisce sempre per convincersi che per quanto brutti siano alcuni suoi film, la sua faccia è ancora il più efficace cartellone pubblicitario di cui il cinema italiano disponga, la sua comicità la più accessibile, la più contagiosa, e il suo mestiere il più scaltrito. Ed è sempre questa sua faccia che finisce per salvare i film.
Il pubblico italiano a furia di vederlo sopravvivere alla sua fralezza, si è abituato all’idea della sua longevità cinematografica. Ha una salute di fil di ferro, dicono; ma quando lavora, mentre molti intorno a lui cadono esausti, Totò resta fresco e sorridente. Ad Urbino dove ha vestito per "La mandragola" di Lattuada i panni di fra' Timoteo che convince Lucrezia (Rosanna Schiaffino) a sopperire alle deficienze coniugali del marito (Romolo Valli) ricorrendo ad un avvenente giovane, Callimaco (Philipe Leroy), tutti sono rimasti stupiti del contrasto tra la trasparenza di questo omino di cera e la sua refrattarietà alla stanchezza.
Totò ha sempre condotto un'esistenza dimessa, che smentisce le smanie di guadagno e di riconoscimenti che qualcuno gli ha prestato e gli presta. In realtà non ha ambizioni. «Non credo nei premi — mi dice guardandomi con le sue pupille perse dietro gli occhiali. — Una volta mi assegnarono una Grolla d’oro, ma mi fecero sapere che se non fossi andato a ritirarla, non me l’avrebbero data... Io non andai e la grolla non la presi... I premi non servono a nulla, cosi come non serve la pubblicità eccessiva...».
In questa invincibile renitenza alla feluca e alle onorificenze il principe De Curtis sorprende. Il solo titolo cui tiene è quello che gli conferisce il suo blasone. E' un esempio raro, nella fauna cinematografica: un uomo tutto di dentro, misantropo, appartato, che nella vita privata non ha nulla di pittoresco, che fornisca pretesto ad aneddoti. «Non amo la confusione — mi dice — quando non lavoro scrivo qualche poesia... Una raccolta è già stata pubblicata... Oppure compongo qualche canzonetta... Non di quelle che "vanno” oggi... Io sono abbarbicato al bel canto... ». Le scrive, queste canzonette, di suo pugno, la testa per tralice quasi appiccicata ai molti foglietti, nel raggio visivo della pupilla meno stanca.
Non è a causa di questa vista scorciata che non va al cinema. Non ci va, spiega, perchè «non volendo si casca nell'imitazione». Non ha mai visto un film di Sordi, di Gassman o di Manfredi. «Può uno che ha fatto centoquattro film andare anche al cinematografo?». Riconosciamolo: dopo tanti film c'è da diventare, per reazione, allergici non solo all'immagine cinematografica ma anche alla semplice fotografia. Invece Totò guarda spesso la televisione; segue gli spettacoli musicali e le riviste e trova gli uni e le altre ''insopportabili”. «La televisione brucia l’attore che ha un nome... Può giovare a uno sconosciuto — sentenzia. E aggiunge: — Non c’è libertà alla nostra televisione... A "Studio uno” mi hanno tolto una battuta perchè ironizzavo sugli onorevoli... In Francia, in cui dicono ci sia la dittatura, i comici si divertono alle spalle di De Gaulle... L'Italia è un paese di gente permalosa...». Parla con tono professionale. «Se a un comico tolgono la possibilità di fare la satira che gli resta?». dice portando le due mani, chiuse con le dita a pigna, all’altezza del petto e volgendo gli occhi in alto. «Al film migliore che ho interpretato, 'Totò e Carolina”, hanno fatto ottantadue tagli... Hanno persino voluto la soppressione del nome del mio personaggio che si presentava dicendo: "Salvatore Caccavalla, agente dell’Urbe”...».
Su centoquattro film interpretati «di buoni — dice — ne ho fatti quattro». Gli altri cento sono zavorra sostiene «ma hanno fatto tanti soldi». «Così quando un film è una schifezza si chiama Totò e quello deve, povero disgraziato, salvare la baracca...», Per questi film che "fanno soldi” ha messo la sua salute di fil di ferro a una prova cui nemmeno il ferro poteva resistere. Il suo nome richiama ancora clienti, ma Totò si accorge ora che ha impiegato male il suo patrimonio di attore e vuol far presto a fare qualcosa di importante prima che si dissolva del tutto. La sua comicità nasce di forza propria, per una specie di magia. Anche le battute più fiacche che, messe nella bocca di un altro, potrebbero destare al massimo un sorriso, pronunciate da Totó provocano una esplosione di risate. Forse è vittima della facilità con cui riesce a far ridere. «Il pubblico è stato troppo buono con me — dice quasi rimproverandolo. La facilità è incompatibile con il lavoro dell'attore. — E' la gavetta, la fame che formano le ossa di un buon comico — spiega — oggi gli attori vogliono subito il successo e la ricchezza... Io, quando cominciai, feci la fame... Mio padre voleva che diventassi ufficiale di Marina, ed io scappai di casa... Se avessi seguito i consigli di mio padre un tedesco o un fascista o magari un partigiano mi avrebbe già ucciso in guerra...». Il pessimismo acquista in Totò un sapore voluttuoso. Qualunque cosa avrebbe fatto "sconfitte”, "fallimenti”, ”mortì” sarebbero fioriti sul suo cammino come margherite sotto la carezza del sole.
Maurizio Liverani, «Tempo», anno XXVII, n.39, 29 settembre 1965
Maurizio Liverani, «Tempo», anno XXVII, n.39, 29 settembre 1965 |