La morale delle favole
«Al mondo tutti gli uomini sono concorrenti... L'ho detta una schifezza!». E Totò scuote la testa. Si ricomincia. «Motore». «Partito» risponde il fonico. Si ode un lungo trillo di campanello. Totò riprende a dire la battuta. Ma ha come una improvvisa amnesia e si interrompe. «Eppure la so» piagnucola. Nel teatro numero 8 degli stabilimenti De Paolis si gira in questi giorni l’ultimo film del poeta-regista Pier Paolo Pasolini.
Tra gli autori nuovi rivelatisi in campo cinematografico dopo il 1960 è certamente uno dei più originali e interessanti. Il suo esordio avvenne clamorosamente con Accattone, un film ricco di poesia e di umanità, in cui la parabola vitale di un giovane sottoproletario romano acquistava una dolorosa dimensione tragica. Poi venne Mamma Roma, scritto per Anna Magnani. Recentemente l'attrice ha dichiarato: «Non capisco... Pasolini ha scritto il film per me, ma considera gli attori solo come strumenti da usare o materia da plasmare». In effetti è stata l'opera meno riuscita del regista, non risolta. Poi è venuto il breve episodio di «La ricotta» inserito nel film Rogopag. Ed è la cosa forse più esemplare di Pasolini. E' la storia della fame di una comparsa, durante le riprese di un polpettone biblico. Il cestino della produzione lo passa alla famiglia e lui viene in possesso di una ricotta con cui si ingozza e muore sulla croce, di indigestione; era uno dei due ladroni del Calvario. Mentre prepara un film da girare nei paesi africani di nuova indipendenza, Pasolini legge per caso il Vangelo secondo Matteo. Nasce così il film omonimo che ha ricevuto un premio speciale a Venezia e il Nastro d'argento dei critici cinematografici.
«Tutta la tendenza dell'ultimo cinema, da Rossellini eletto a Socrate, alla nouvelle vague, alla produzione di questi anni, di questi mesi, è verso un cinema di poesia... Il cinema di poesia — come si presenta a qualche anno dalla sua nascita — ha dunque in comune la caratteristica di produrre film dalla doppia natura. Il film che si vede e si accepisce normalmente è una soggettiva libera indiretta... Sotto tale film scorre l'altro film — quello che l'autore avrebbe fatto anche senza il pretesto della mimesis visiva del suo protagonista: un film totalmente e liberamente di carattere espressivo-espressionistico... Il cinema di poesia è in realtà, dunque, profondamente fondato sull'esercizio di stile come ispirazione, nella maggior parte dei casi, sinceramente poetica...».
«Quali sono le caratteristiche tecniche di questo nuovo linguaggio poetico, per chi si esprime con la macchina da presa?».
«Ecco, per esempio, l'alternarsi di obiettivi diversi, un 25 o un 300 sulla stessa faccia, lo sperpero dello zoom, coi suoi obiettivi altissimi, che stanno addosso alle cose dilatandole come pani troppo lievitati, i controluce continui e fintamente casuali con i loro barbagli in macchina, vacillanti movimenti di macchina a mano le carrellate esasperate, i montaggi sbagliati per ragioni espressive, gli attacchi irritanti, le immobilità interminabili su una stessa immagine, ecc., tutto questo codice tecnico è nato quasi per insofferenza alle regole, per un bisogno di libertà irregolare e provocatoria, per un diversamente autentico o delizioso gusto per l’anarchia : ma è divenuto subito canone, patrimonio linguistico e prosodico, che interessa contemporaneamente tutte le cinematografie mondiali... Insomma, alla grande massima dei cineasti saggi, in vigore fina ai primi anni sessanta: “Non far mai sentire la macchina!'', è successa la massima contraria».
Per il momento comunque Pasolini si attiene all'esempio dei classici. Gira con la macchina fissa inquadrature con personaggi quasi immobili.
E' riprodotta l'arena di un circo. Un grande telone bianco la delimita tutta intorno. Da uno spiraglio si intravede un fondale azzurro con cupolone e tetti di Roma antica. Dall'alto piove una illuminazione diffusa: enormi lampade sono sospese, immerse in tinozze di garza. Le «padelle» sono pure ricoperte da un sottile velo bianco. Così vuole Delli Colli, l'operatore che ha diretto la fotografia di tutti i film di Pasolini.
Totò, protagonista del film, con Pier Paolo Pasolini in una pausa della lavorazione. Nella foto sotto: l'attore con il produttore Alfredo Bini e con il corvo che è al centro di una delle tre favole del film.
Un grande attore
Una enorme testa di cavallo giace a terra. Sembra un avanzo di carro carnevalesco viareggino. Accanto è coricata una grande ruota. Ci sonò un paio di gabbie di varie fogge e misure e un baule ricoperto di velluto rosso. Il campanello trilla; il ciak batte. La voce del ciacchista annuncia l'inquadratura. Si gira speditamente.
Totò è in scena insieme a Ninetto, un giovane biondo e ricciuto col viso ancora adolescente, ricoperto di acne. Il comico è vestito da domatore ma porta in testa un berretto del tipo di quelli dei generali dell'esercito francese. Ninetto è il suo aiutante. Mentre il domatore si rivolge a un'aquila che non vedo, Ninetto che dietro la schiena nasconde un fiore, lo offre vezzosamente a una ragazza dell'ipotetico pubblico.
«Stop». La scena va bene. «Principe, il suo caffè». E Totò con molta dignità beve.
Finalmente il cinema di categoria A, i registi famosi sembrano avere riscoperto questo grande comico. Dopo la felice eccezione costituita da Guardie e ladri, interpretato accanto a Fabrizi, Totò era tornato alla sua normale routine di pellicole di fattura 'volgare, in cui la sua maschera umana e la sua forza comica erano quasi sempre al servizio di testi mediocri c di lazzi da avanspettacolo. Recentemente ha preso parte alla Mandragola che Lattuada ha tratto da Machiavelli. Ora è la volta di Pasolini.
«E' un grande attore — dice il regista — preciso, perfetto. Ti mette in condizione di lavorare con uno strumento docilissimo. E' come suonare uno Stradivarius per un violinista».
Una grande aquila esce da una gabbia. Viene sistemata su un trespolo. Nuova inquadratura. Totò adesso è dietro la gabbia e urla una sequela di ingiurie all'aquila: «Disgraziata, infame, sottosviluppata...». Bene. Stop. Totò va verso Pasolini: «Qui una cosa la dovrebbe dire l'aquila: ma va' a mori ammazzato...».
Adesso è la volta di Ninetto. Con fare indolente si appoggia alla gabbia e al suo domatore disperato e furente dice: «Ma lassatela perde* messié Coumot, quella nun parla...». E Totò di rimando, fuori copione: «Ah no? Cacchio...». Il set ride. Si ripete.
Il corvo
Il titolo del film è Uccellini, uccellacci, (come ben sanno, del resto, i nostri lettori che per primi conobbero le intenzioni del regista che pubblicò il soggetto dei tre episodi nella sua rubrica dei «Dialoghi»). «E' un film ideo-comico — dice Pasolini — dove c'è una fusione di elementi comici su una struttura ideologica. Sono tre storie, tre favolette, sorta di apologhi moderai. Come le favole di Fedro o di La Fontaine. Nella prima esamino i rapporti tra la civiltà laica e il mondo della religione che oggi va individuato nelle organizzazioni sociali di tipo primordiale. Nella seconda favola affronto la nuova dialettica tra Chiesa e classi sociali, così come si è venuta configurando da papa Giovanni XXIII fino a Paolo VI, con il suo viaggio all'Onu e le parole che vi ha pronunciato, intrise di una terminologia nuova, che non esiterei a definire marxista. Infine c'è l'ultima favola; è la più complessa e ambigua e non so come spiegarla. Due operai incontrano un corvo, che sarebbe la coscienza ideologica, quella marxista ovviamente in quanto la più moderna e la più recepita dalle classi lavoratrici. Questo corvo parla, parla, e alla fine i due lo mangiano».
Ora sono in scena dei giornalisti venuti a intervistare il domatore Cournot-Totò. «Monsieur Cournot, che animale è questo?» chiede il giornalista. «Un bacherozzo» urla Ninetto alle spalle di Pasolini e ride divertito di aver messo in difficoltà la comparsa.
Una sequenza del terzo episodio che narra la storia di due operai e di un corvo parlante. Ma il corvo parla troppo: alla fine i due operai non troveranno altro modo che mangiarselo per farlo tacere
Fuori dal teatro si ode il tuono. Piove a rovesci. Il lavoro va avanti ordinato e rapido finché Pasolini non dà il finis. «Quante settimane ancora di lavorazione?». «Due. Oggi un film, per quanto si vogliano contenere le spese, non costa mai meno di cento milioni».
Si avvicina il direttore di produzione per sapere l'ordine del giorno per lunedì. Quindi è la volta di Sergio Citti, il bravo sceneggiatore che collabora quasi sempre con Pasolini, il suo lessico vivente di espressioni gergali.
«Allora, per il Millanta, a chi hai pensato?... C'erano quei ragazzi, quelli che dicevi tu...». Citti abbassa gli occhi e la voce: «So' tutti in galera».
Antonio Bertini, «Vie Nuove», anno XX, n.47, 25 novembre 1965
Antonio Bertini, «Vie Nuove», anno XX, n.47, 25 novembre 1965 |