Uccellacci e Uccellini - La rassegna stampa
Uccellacci e uccellini, Totò secondo Pierpaolo Pasolini
Pier Paolo Pasolini: l'incontro con Totò
Totò e la censura
Totò al circo, ovvero Monsieur Corneau e l'aquila
Totò: i premi i riconoscimenti
L'intervista a Totò sul set del film Uccellacci e uccellini
La morale delle favole
Totò: caporali o aquile
Il principe de Curtis odia Totò
Totò, l'arte di far ridere
Totò, l'invenzione e l'improvvisazione
Totò, grande comico, incomincia solo adesso a «fare dei film seri»
Totò vent'anni dopo riabilitato dalle risate dei giovani
In TV la rivincita di Totò
Totò, il comico dalla faccia tragica
La scomparsa di Totò: siamo uomini o caporali?
Totò, vent'anni di cinema con il principe clown
Pierpaolo Pasolini: ecco il mio Totò
La maschera di Totò
Totò, il comico irripetibile
Il grande Totò muore ignorato dalla critica - «Il principe straccione»
I recensori accusano il colpo e si dividono: Enzo Biagi scrive che Totò “si trascina stanco e incosciente in una vicenda che non lo riguarda”; secondo Moravia, “nella parte del padre ci ha dato una delle sue migliori interpretazioni”, Grazzini dice che “riassume e affranca il film mutando un personaggio bislacco nella vivente idea dell’assurdo”, Tullio Kezich non riesce “a credere a un Totò eroe brechtiano: il suo universo sta da tutt’altra parte, il rapporto con Pasolini ci sembra deludente”
«[...] Pasolini ricorda spesso certe trovate di Chaplin (il costume di Totò, e la ragazzina vestita da angelo,che compare alle finestre della casa in costruzione, quelle danze improvvise e felici nella campagna deserta) e ha bene in mente certe immagini di Rossellini, dello sfortunato Giullare di Dio [...] Il resto è un miscuglio di elementi estranei che raramente si fondono [...] i vecchi lazzi di Totò, che non rinnova il suo repertorio, e che si trascina stanco e incosciente in una vicenda che non lo riguarda [...].»
Enzo Biagi, 1965
«Padre e figlio camminano in una Italia immaginaria e insieme estrema mente realistica. Incontrano un Corvo parlante che cerca di spiegare loro la vita secondo filosofia e razionalismo, ma anche narrando storie esemplari (come quella dei frati del Duecento). Infine, i due capitano a Roma, mescolandosi per un tratto con la folla che partecipa ai funerali di Palmiro Togliatti. Riprendono poi la strada, fanno l’amore con una giovane e fresca prostituta, e, sentendo i morsi dell’appetito, tirano il collo al Corvo, stanchi di tante chiacchiere, e se lo mangiano.»
Gian Piero dell'Acqua, 1965
«La costruzione di un’opera-apologo come Uccellacci uccellini porta alle estreme conseguenze la necessità dì quella chiarezza espressiva per cui i simboli debbono raggiungere, anche nella loro ipotesi di ambiguità, una dimensione – oggettiva o soggettiva – sempre significante. La forma prescelta porta avanti il discorso della tendenziale popolarità per cui l’opera filmica deve avere suggerito riflessioni, mediazioni, contenuti intellegibili. È una estensione dell’opera-saggio, del film cioè che al di fuori dagli schermi narrativi (o prevalentemente narrativi) propone piccole o grandi moralità, definisce lo sgomento di una generazione, annota, come nelle pagine diaristiche, quanto giorno dopo giorno si addensa nella nostra esperienza di uomini vivi, impiegati a cercare una dimensione razionale (anche istintivamente razionale), nei riordinare i fatti di cui siamo, in un modo o in un altro, testimoni.»
Edoardo Bruno, 1965
«Padre e figlio (Totò e Ninetto Davoli.) incontrano un Corvo filosofeggiante che farà la strada con loro e che spiega la vita secondo la sua ideologia (in crisi), raccontando apologhi (uno su un francescano del duecento che predica agli uccelli e converte sia i falchi sia i passeri, ma a parte, i falchi continuano a mangiare i passeri). Finiscono ai funerali di Togliatti, fanno l'amore con una bella prostituta, vengono picchiati dai padroni e picchiano i dipendenti, e infine tirano il collo al Corvo, affamati e stufi di chiacchiere.»
Georges Sadoul
«Antonio de Curtis e Pier Paolo Pasolini: è possibile immaginare due cineasti tanto diversi? Il primo è un comico, scatena la sua fantasia in piena libertà; il secondo è un intellettuale, la sua vita, le sue poesie, i suoi film sono atti politici. Il principe è un conservatore di spiccate simpatie monarchiche, il regista un uomo di sinistra pronto al duello dialettico con chiunque, anche con il partito di riferimento; l'arte di Totò si muove nel solco di una tradizione culturale, quella di PPP è spesso violenta opera di sperimentazione.»
Alberto Anile
«[...] Uccellacci e uccellini contiene alcune tra le cose più belle di Pasolini [...]. Quello che Pasolini non era riuscito a fare con Anna Magnani in Mamma Roma, cioè inserire il mondo dell'attore in quello del regista, qui gli è riuscito perfettamente con Totò che nella parte del padre ci ha dato una delle sue migliori interpretazioni [...].»
Alberto Moravia, 1965
«[...] Totò è straordinario: il film si giustificherebbe anche solo per la sua presenza, in un ruolo arduo, bilicato tra favola e realtà, e che consente al grande attore d'impegnare tutte le virtù della sua maturità [...].»
Alberico Sala, 1965
«[...] Totò è unico. Non vedo nessun altro nel cinema, l'italiano e l'altro, capace di reggere a quel modo, dico con quella fusione di pietà e di ridicolo, la mistica caricatura di Frate Ciccilo [...].»
Filippo Sacchi, «La Stampa», 1965
«[...] La grande trovata è di affidare a Totò il ruolo del frate Ciccillo [...] .»
Mario Verdone, 1965
Totò insegna a parlare all'aquila
Tre storie a sfondo moraleggiante sui rapporti fra gli uomini e gli uccelli
Nella periferia industrializzata di Roma, Pier Paolo Pasolini comincerà il 27 settembre le riprese del nuovo film da lui ideato, sceneggiato e diretto. Il suo curioso titolo, Uccellacci ed uccellini, rispecchia lo spirito della pellicola, che in tre episodi comici tratterà dei rapporti fra uomini e pennuti in forma fantastica ma in stile realistico. Naturalmente, gli episodi avranno un significato e sottofondo simbolico, ma narrativamente e figurativamente essi saranno realizzati al modo di gaffs, che vanno da Charlot a Jacques Tati.
Protagonista unico, Totò, In personaggi diversi per ogni storia, e la scelta stessa del protagonista dice quale carattere si vuol dare al film sullo schermo. Nella prima storia, Totò sarà u domatore di un grande circo, impegnato a comprendere il linguaggio degli animali e ad intrecciare con essi, nei limiti del possibile, un dialogo. Dopo i successi ottenuti con alcune bestie, dal cammello alla tigre, egli vuole insegnare a parlare e farsi rispondere dal più difficile interlocutore, la maestosa aquila. Clamorosamente, convocando i giornalisti, annuncia questo suo proposito, dicendosi certo del risultato. Ma, con la regina dei pennuti, i suoi sforzi si rivelano vani. Ossessionato e disperato, moltiplica I tentativi e, non riuscendo nel lo scopo, alla fine esplode gridando, fuori del gangheri all’animale: «Ma insomma, tu che fai?». Ed ecco, dal becco dell’aquila, colare finalmente una risposta: ma è una risposta assurda. Dinanzi al naufragio di ogni sua speranza di razionalizzare l'aquila, il domatore finisce per assimilarsi a lei, e parte volando verso il Gran Sasso.
Nel secondo episodio un vecchio frate, assistito da un giovane fraticello, continua a parlare agli uccelli come faceva San Francesco. Il compito è difficile per lui ma fermamente lo persegue: inginocchiato, incurante della gelida neve che lo copre o del sole che lo morde, nel volgere delle stagioni, trascorre anni a cercar d'intendere il linguaggio dei falchi e finalmente riesce nel suo intento. Ripete la lunga fatica con i passeri e consegue un altro risultato positivo. Ma a questo punto vede i falchi precipitarsi sui passeri e mangiarseli. Ricomincia così la sua paziente opera tenendo conto di questo problema che, per chi voglia vederlo nel significato attribuitogli dall'autore, può essere espresso nel fatto che le classi sociali sono singolarmente evangelizzate, ma debbono ancora essere evangelizzate nei rapporti fra loro.
Protagonista del terzo episodio è un uomo che cammina insieme con il figlio in un viaggio senza confini. Lungo questo cammino, ad un certo momento, essi incontrano un corvo, che certamente non ha bisogno di ammaestramenti per parlare. E’ un discorritore tenace, anzi, e instancabilmente parla ai due uomini con ima dialettica fra marxista e anarchica. Tanto lungo e insistente è il suo discorso che il padre strizza l’occhio al figlio, indicandogli con una smorfia la soluzione. Il corvo è ucciso e mangiato. Poi i due viandanti riprendono il loro cammino verso l’orizzonte. Il corvo vuol rappresentare, per Pasolini, il razionalismo ideologico degli anni Cinquanta, superato dal messaggio giovanneo e la fine del corvo rappresenta l’assimilazione crudele di alcune sue idee. L’umanità divora quel che deve divorare e procede avanti, verso quali traguardi nessuno sa. E' il mistero dell’uomo considerato nella immensità del tempo.
Al. Cer., «Corriere della Sera», 10 settembre 1965
Per Totò tre favole moderne di Pasolini
Sarà una pellicola a basso costo
Roma, 15 settembre
Totò ha appena finito di girare il film «La mandragola» (che Alberto Lattuada ha tratto dalla famosa commedia di Machiavelli) e subito ne comincia un altro. Questa volta si tratta di un film diretto da Pier Paolo Pasolini, in cui il comico napoletano farà tre parti: un domatore di aquile che tenta di addestrare con metodi rigidamente razionali l'uccello rapace e diventerà aquila lui stesso: un frate che Francesco di Assisi manda a convertire passeri e falchi; infine sarà alle prese con un corvo saccente che s'intromette nei discorsi fra lui e il figlio (i due mangeranno il corvo).
Il film s’intitolerà «Uccellacci e uccellini », sarà prodotto anche questa volta da Alfredo Bini e costerà molto poco. Si tratta di tre favole moderne.
«Corriere della Sera», 15 settembre 1965
Totò in tre episodi di Pasolini
Il regista tratterà in forma umoristica e umana gli strani, inesplicabili rapporti tra uomini e pennuti
«L'Unità», 18 settembre 1965
Primo «ciak» a Roma per il film di Pasolini
Roma, 18 ottobre.
Sono cominciate oggi le riprese del nuovo film ideato, sceneggiato e diretto da Pier Paolo Pasolini. Il suo titolo Uccellacci ed uccellini, rispecchia lo spirito della pellicola, che in tre episodi tratta i rapporti fra uomini e pennuti. Protagonista unico del film, come si è detto, è Totò. Nella prima storia, Totò è il domatore di un grande circo, impegnato a comprendere il linguaggio degli animali e ad intrecciare con essi, nei limiti del possibile, un dialogo. Dopo i successi ottenuti con alcune bestie, dal cammello alla tigre, egli vuole insegnare a parlare e farsi rispondere dal più difficile interlocutore, l'aquila. Clamorosamente, convocando i giornalisti, annuncia questo suo proposito, dicendosi certo dei risultato. Ma con la regina dei pennuti, i suoi sforzi si rivelano vani.
Nel secondo episodio un vecchio frate, assistito da un giovane fraticello, continua a parlare agli uccelli come faceva San Francesco. Protagonista del terzo episodio infine è un uomo che cammina insieme con
il figlio in un viaggio senza confini attraverso un'infinità di ambienti in situazioni tutte trattate comicamente. Lungo questo cammino, ad un certo momento, essi incontrano un corvo, che instancabilmente parla ai due uomini. Tanto lungo e insistente è il suo discorso che il padre strizza rocchio ai figlio, indicando con una smorfia la soluzione: il corvo è ucciso e mangiato.
«La Stampa», 19 ottobre 1965
Totò si ispira a Charlot per far parlare gli animali
ROMA, mercoledì sera.
Il produttore Alfredo Bini ha iniziato le riprese del nuovo film ideato, sceneggiato e diretto da Pier Paolo Pasolini, il titolo « Uccellacci ed uccellini », rispecchia lo spirito della pellicola, che in tre episodi comici tratterà dei rapporti fra uomini e pennuti in forma fantastica, ma in stile realistico. Gli episodi saranno realizzati al modo di «gags», come è nello stile di Charlot
Protagonista unico, Totò. I personaggi, diversi per ogni storia. Nella prima, Totò sarà il domatore di un grande circo, impegnato a comprendere il linguaggio degli animali e ad intrecciare con essi, nei limiti del possibile, un dialogo. Dopo i successi ottenuti con alcune bestie, dal cammello alla tigre, egli vuole insegnare a parlare e farsi rispondere dal più difficile interlocutore, la maestosa Aquila. Clamorosamente, convocando i giornalisti, annuncia questo suo proposito, dicendosi certo del risultato. Ma con la regina dei pennuti, i suoi sforzi si rivelano vani.
Nel secondo episodio un vecchio frate, assistito da un giovane fraticello, continua a parlare agli uccelli come faceva San Francesco. Il compito è difficile per lui, ma fermamente lo persegue: trascorre anni per cercare di capire il linguaggio dei falchi e finalmente vi riesce. Ripete la lunga fatica con i passeri e consegue un altro risultato positivo. Ma a questo punto vede i falchi precipitarsi sul passeri e mangiarseli.
A Protagonista del terzo episodio è un uomo che cammina insieme con il figlio in un viaggio senza confini attraverso un'infinità di ambienti in situazioni tutte trattate comicamente. Lungo questo cammino, ad un certo momento, essi incontrano un corvo, chi' parla ai due uomini. Tanto lungo e insistente è il suo discorso che il padre strizza l'occhio al fl elio, indicando con una smorfia In soluzione: il corvo è ucciso e mangiato.
n. s., «Stampa Sera», 20-21 ottobre 1965
Pasolini e Germi a Cannes
«Signore e signori» di Pietro Germi e «Uccellacci e uccellini» di Pier Paolo Pasolini sono i due film Italiani invitati dalla direzione del Festival di Cannes a partecipare in competizione alla ventesima edizione della Rassegna cinematografica francese. Quanto al film che rappresenterà ufficialmente il cinema italiano sembra che verrà designato «L'armata Brancaleone» di Mario Monicelli.
«L'Unità», 21 aprile 1966
Due film polacchi sono stati scelti per il «gala» di inaugurazione e per la serata conclusiva del Festival Internazionale cinematografico di Cannes. [...] I film italiani che parteciperanno alla manifestazione saranno proiettati nei seguenti giorno: 11 maggio: L'armata Brancaleone di Mario Monicelli; 13 maggio: Uccellacci e uccellini di Pier Paolo Pasolini; 18 maggio: Signore e signori di Pietro Germi.
«L'Unità», 29 aprile 1966
Il numero di stasera della rubrica degli spettacoli si apre con un servizio dedicato al Festival di Cannes cominciato da pochi giorni: in questo primo reportage, ovviamente, il panorama sarà ancora ristretto; comunque quest'anno la direzione della rassegna della Croisette — ricorrendo il ventennale della manifestazione — ha intenzione di fare le cose in grande: affiancare soprattutto, in polemica con il «rigorismo» veneziano, alla presentazione dei film una cornice mondana degna della vecchia tradizione divistica della Costa Azzurra. Sono cosi in programma, accanto a mostre retrospettive, «gallerie» monografiche e «tavole rotonde», corsi mascherati, molte «feste» e una massiccia partecipazione di attori e registi di fama internazionale. In ogni caso l'elenco dei film in concorso, anche se destinato a qualche cambiamento mentre scriviamo, si presenta piuttosto interessante. La cinematografia italiana dovrebbe essere presente con Signore e signori di Germi, Uccellacci e uccellini di Pasolini e tarmata Brancaleone di Monicelli.
L’Inghilterra si presenta con due film molto attesi, Modesty Blaise di Losey, le avventure di una James Bond in gonnella interpretate dalla nostra Monica Vitti, e Alfìe di Gilbert, che ha come protagonista Michael Caine, il simpatico agente segreto di Ipcress. Sotto i colori spagnoli è in lizza il Falstaff interpretato e diretto da Orson Welles, mentre verrà proiettato, sia pure fuori concorso, l'ultimo film di David Lean, Il dottor Zhivàgo interpretato da Julie Christie, Omar Sharif e Alee Guinness. La Polonia ha in concorso II faraone di Kawalerowicz, l’URSS Lenin in Polonia di Yutkevic, l’Inghilterra ancora sarà presente, pare, con l’ultimo film di Richardson (l’autore de II caro estinto), Mademoiselle interpretato da Jeanne Moreau; la Svezia partecipa con un film di Sjòberg, L'isola. Nel numero di stasera di «Anteprima», oltre al consueto notiziario cinematografico e teatrale, dovrebbe trovare posto un «incontro» particolarmente suggestivo ed emozionante fatto da Carlo Tuzzi in Inghilterra con Patricia Neal, la coraggiosa attrice per la cui vita a lungo si temette mentre era in attesa del quarto figlio.
«Radiocorriere TV», maggio 1966
«Uccellacci e uccellini», rassegna stampa
Pasolini continua a farci sorprese. Ora ha inventato il film «ideo-comico», che sarebbe l'umorismo applicato alla politica e alla sociologia, ovverosia l’impegno ideologico superato dalla favola; insomma, il cervello scavalcato dalla poesia. Per capirci meglio: Pasolini è un intellettuale scontento, che andando in là con gli anni sente l'Insufficienza degli schemi razionali della cultura di sinistra, e capisce come qualmente la storia proceda per vie ignote e misteriose, sulle quali però l'intelligenza del cuore incide più delle formule dottrinarie. Questa presa di coscienza è netta, ma poiché Pasolini diffida di se stesso (ancora qualche anno, e l’immoralista sarà tutto risucchiato nella sua matrice borghese), intanto ha prodotto una singolare figura di artista, il quale non vuole rinunziare alla speranza marxista ma nel contempo è corretto dall'esperienza sentimentale, e faticosamente cerca di rispondere al solito «quo vadis» sposando Cristo a Marx, passando se occorre attraverso il Croce.
Chiamato ad esprimere questo viluppo di stati d'animo e di stimoli intellettuali, ha avvertito che l’unico modo per cautelarsi dalle tentazioni di un pio storicismo era di ribaltare il suo sentimento d’amore, di pietà, di tolleranza universale in ironia punteggiata di sarcasmo verso il proprio ambiente: un «mea culpa» pronunciato con tono giocoso e scanzonato, cominciando dal titoli di testa che esorcizzano l'amarezza dell'autoritratto, ma dove è facile leggere cicatrici sempre aperte, dalle quali sgorgano umori contraddittori, non ancora decantati nell'ispirazione poetica.
Uccellacci e uccellini è appunto la confessione, sincera e confusa, di un momento di crisi successivo alla sconfitta, ma espresso in un tal cocktail di polemica culturale e di slanci lirici, e cosi vagamente risolto sul piano del racconto, che il film assume il carattere di un’agenda di fatti personali; certamente di grande interesse per l'intellighenzia che si diverte a riconoscere, fra gli interpreti. artisti e scrittori del bel mondo romano, poco più di un amabile gioco cabalistico per il grande pubblico,, costretto a dibattersi in una rete di simboli e di citazioni che vanno da Lukàcs a Giorgio Pasquali. [...] Con l’aiuto del libro che Pasolini ha dedicato al film si viene a sapere come sotto il velame sia da intendere che l’umanità nel suo procedere verso un orizzonte ignoto divora quel che deve divorare; in questo caso un certo razionalismo ideologico di tipo stalinista, ormai superato ma non tanto da non servire di nutrimento, ecc. ecc. E che il discorso degli anni Cinquanta è superato dal messaggio giovanneo.
Orbene. Impenetrabile ci più nello sterpeto delle metafore, Uccellacci e uccellini è uno scherzo surreale ( imparentato talvolta con Zavattini), un girotondo fittiziamente popolaresco, in realtà imo sfogo personale che rivela ancora una volta i guasti portati dal sovraccarico di cultura in una personalità artistica sempre notevole sul piano dell'immediatezza espressiva. Anche chi, e saranno i più, non riuscirà ad afferrare i nessi logici e i sottintesi del film (il commento musicale alterna canti della Resistenza a brani classici), sarà infatti colpito dal buffo delle situazioni, dal controcanto ironico di Ninetto, dalla precisione con cui il paesaggio — il romanico di Tuscania soprattutto — è chiamato a evocare un’atmosfera di grottesca magia (ma il vecchio difetto, il racconto bloccato da certi estetismi, la trasandatezza della recitazione in attori usati soltanto come isole decorative, Pasolini non l’ha perso).
E il resto lo fa Totò, che col suo impagabile istinto comico, servito da una mimica stavolta magistralmente controllata, riassume e affranca il film mutando un personaggio bislacco nella vivente idea dell’assurdo.
Giovanni Grazzini, «Corriere della Sera», 5 maggio 1966
Pasolini arriva a Cannes con Totò e i suoi uccellacci
Cannes, venerdì sera.
Alla ribalta del Festival, gli onori del primo toccano oggi a Pier Paolo Pasolini e a Totò, l'uno soggettista e regista di Uccellacci a uccellini, l'altro protagonista del film-fiaba. Egli interpreta un personaggio che, nella medesima vicenda, è collocato in due epoche diverse: dapprima ai nostri tempi, nell'aspetto d'un signore un po' bizzarro che, assieme con un giovane compagno (Ninetto Davoli, l'ultma scoperta di Pasolini), compie un viaggio, reso straordinario dalla comparsa di un corvo sapiente che gii rivolge la parola; poi, nel 1300, impersona un monaco al quale S. Francesco affida l'imprevedibile incarico di decifrare il linguaggio degli uccelli: i falchi rapaci e gli inoffensivi passerotti. Gli eventi che seguono sono fonte di inesauribili sorprese, Totò, personaggio di fiaba, dà la misura delle sue qualità di artista.
Questo film bizzarro e spassoso è, per confessione, dello stesso autore regista, difficile. Egli dice: «Non rassomiglia a nessuno degli altri miei film, per la sua formula, che è quella di una fiaba, con un significato nascosto». Quale? «I compiti attuali del marxismo, consistenti nell'accettare nuove realtà». Di qui le chiare allusioni alle parole di Papa Giovanni e a ciò che Paolo VI ha detto all'Onu sull'anelito di pace presente nel cuore di tutti gli uomini. [...]
Furio Fasolo, «Stampa Sera», 13-14 maggio 1966
Curiosa ma chiara parabola di Pasolini
«Uccellacci e uccellini» è stato accolto abbastanza bene • Nella giornata di ieri è stato presentato anche «L'isola» dello svedese Alf Sjoberg
Cannes, 13 maggio
«Ucceliacci e uccellini» di Pier Paolo Pasolini, che è già da un paio di giorni sugli schermi romani, ha raggiunto stasera quelli di Cannes, come secondo film della selezione italiana al Festival. Preceduto da notevole curiosità, a giudicare dalle reazioni del pubblico non l'ha, mandata delusa. Ed è senza dubbio un'opera diversa da quante, buone o cattive, Cannes ci va offrendo quest'anno. Un opera, inoltre, diversa anche dall'idea che uno potrebbe, essersene fatto a priori, pur se molto in linea con le altre di questo singolare artista che tutto e fuorché, in qualsiasi accezione della parola, laico.
Uccellacci e uccellini sono gli uomini, oggi come ieri, e forse come sempre. La civiltà non ha insegnato loro a smettere di divorarsi a vicenda, eternamente divisi in due categorie: persecutori e perseguitati, falchi e passerotti. La chiave di tutto il film è in una parabola che uno strano corvo parlante racconta a due viandanti. padre e figlio, impersonati da Ninetto Davoli; parabola in cui i viandanti stessi si ritrovano nel saio di umili fraticelli dugenteschi, ai quali San Francesco in persona ordina di continuare la predicazione agli uccelli. Fra' Totò. con l'aiuto di fra' Ni-netto. riesce a imparare sia il linguaggio dei passeri sia quello dei falchi. Evangelizza, con ardore serafico, entrambe le categorie. Ma ciò non impedisce ai falchi, ancorché evangelizzati, di continuare a cibarsi dei loro fratelli più piccoli. E ai due smarriti fraticelli San Francesco rivolge esortazioni assai simili a quelle pronunciate da Paolo VI di fronte all'assemblea delle Nazioni Unite.
Il film, si badi, non è ad episodi. La parabola francescana, pur essendone una parte sostanziale e forse, con il suo tono di fervida ingenuità quasi alla «Giullare di Dio» di Rossellini, anche la migliore, serve al regista per spiegare ciò che accade ai due riandanti nel corso della loro passeggiata dalla periferia di una grande città verso una meta ignota, simbolo del futuro. Accade loro di tutto, cosi come è nella vita. Incontri lieti e tristi, casuali e cercati. Il film si articola liberamente. alternando atmosfere a pagine diverse. Fra tante, due assumono particolare importanza: quella in cui vediamo Totò e Ninetto presentarsi a riscuotere l’affitto da una povera donna che quasi non ha più nemmeno gli occhi per piangere: e quella in cui sono invece essi stessi sottoposti a un trattamento analogo da parte di un padrone di casa duro e altezzoso. Chi oggi è falco, insomma. domani potrà anche esser passero. E se neanche questa considerazione riesce a far smettere agli uomini la loro abitudine alla violenza, la fratellanza umana è allora davvero un’utopia.
Tra falchi e passeri, il corvo.
Il nero volatile non si limita a narrare a Totò e Ninetto la suddetta parabola: li segue sul cammino, curiosamente zampettando su e giù, e con parlantina inesorabile fa loro la morale attraverso commenti. consigli, confessioni e massime che i due dapprima stanno ad ascoltare con curiosità ma poi trovano sempre più fastidiose. Di comune accordo, infine, gli tirano il collo e se lo mangiano arrosto.
Il corvo non li accompagnerà verso l'orizzonte cui essi si dirigono in un’ultima inquadra tura di molto chapliniano sapore (voluto, naturalmente). Ma chi era, loquace importuno, autodefinitosi «un intellettuale di sinistra di prima della morte di Palmiro Togliatti»? La risposta è facile. Si tratta di un «personaggio» autobiografico: Non certo per caso Pasolini gli ha dato una voce molto simile alla propria. Di esso il regista si serve per descrivere non senza gustosa ironia, la propria crisi di marxista La propria ricerca di nuove verità che forse credeva conquistate e invece ancora gli sfuggono. Vivace critica al «razionalismo ideologico, superato dal messaggio giovanneo». E se la fine del corvo rappresenta — son sue parole — «l'assimilazione crudele di alcune idee», forse simboleggia maliziosamente anche quel che Pasolini vede essere il proprio destino di uomo e di artista alla lunga incompreso.
Opera curiosa, quindi, «Uccellacci e uccellini», di difficile classificazione anche se non di difficile intelligibilità. Cinematograficamente, mi è parsa piuttosto disuguale, non tutta sul piano di alta poesia e di finezza espressiva che pur raggiunge in diversi punti. Omogenea, però, si, nel suo tono di favola filosofica, tra realismo e simbolismo, che le immagini in bianco e nero di Mario Bernardo e Tonino Delli Colli traducono con fervida semplicità, specie quando, in piena natura o in mezzo ai meravigliosi monumenti di Tuscania, il regista dimentica certe brutalità che non sempre a ragione gli son care e si abbandona ad un'ispirazione più delicata e raccolta. Lodevole, come contributo alla creazione di atmosfere, il commento musicale creato da Ennio Morricone. E davvero splendida l'interpretazione dell’umanissimo Totò, cui Ninetto dà agilmente la replica: un'interpretazione che degnamente corona una lunga e fruttifera carriera di attore. Ecco un altro autorevolissimo candidato al premio di venerdì prossimo. [...]
Guglielmo Biraghi, «Il Messaggero», 14 maggio 1966
Cannes, 13
Il cinema italiano ha polarizzato oggi l’attenzione dei partecipanti al ventesimo Festival Cinematografico di Cannes con due avvenimenti: il ritorno sulla Costa Azzurra di Sofia Loren che ha terminato di girare «La contessa di Hong Kong» di Charlie Chaplin a Londra e ha ripreso il suo posto di presidentessa della giuria, e la proiezione del film «Uccellacci e uccellini» di Pier Paolo Pasolini che ha ottenuto un eccezionale successo di pubblico e di critica.
Nei giorni scorsi erano corse voci secondo le quali Sofia Loren non sarebbe tornata a Cannes a causa dei suoi numerosi impegni di lavoro dato che, subito dopo la fine della lavorazione del film a Londra, avrebbe dovuto recarsi a New York per una esposizione in suo onore al Museo d’arte moderna; ella avrebbe quindi abbandonato il suo posto di pre-stessa della giuria. Sofia ha smentito le voci con il suo arrivo dapprima, e quindi con una dichiarazione per far sapere che la data fissata per la cerimonia americana è il 25 maggio, cinque giorni dopo cioè la fine del Festival.
Dopo una breve sosta in albergo, si è recata al palazzo del Cinema dove ha assistito alla presentazione del film italiano di Pasolini.
«Uccellacci e uccellini», che si avvale della interpretazione di Totò e di Nino Davoli, è già stato presentato sugli schermi cinematografi italiani. Durante la conferenza stampa che si è svolta subito dopo il film, Pier Paolo Pasolini, presentato da Roberto Rossellini, ha risposto alle domande dei giornalisti intervenuti in gran numero. Dapprima Pasolini ha precisato che non si tratta di un film di propaganda marxista e che i funerali di Togliatti inseriti nella pellicola rappresentano la fine di una epoca.
Il secondo film della giornata è stato lo svedese «L’isola» diretto da Alf Sjoberg ed interpretato da Per Myrberg e Bibi Andersson. L’opera è praticamente la sintesi della visione sociale del regista, della sua inquietudine e della sua esitazione dinanzi alla società moderna. Il tema centrale è l’incapacità degli esseri umani di comunicare fra loro.
Il ventesimo Festival di Cannes si sta ormai avviando alla conclusione. Restano ancora solo otto film in concorso ed uno fuori competizione, e ne sono già stati proiettati sedici.
Le pellicole per le quali vi era maggiore attesa sono già state giudicate dalla critica, dal pubblico e dalla giuria. Fra quelle che rimangono da vedere e per le quali vi è un particolare interesse vi sono la brasiliana «Matraga», l’italiana «Signore e signori», la sovietica «Lenin in Polonia» e la polacca «Il faraone». Un primo bilancio dei film presentati sinora indica quali candidati ai vari premi: il francese «Une femme et un homme», l’italiano «Uccellacci e uccellini», lo spagnolo «Falstaff», il danese «La fame».
«Il Piccolo», 14 maggio 1966
Con i nostri film "L’armata Brancaleone” - "Signore e signori” - “Uccellacci e uccellini” al Festival di Cannes.
Il nostro cinema è rappresentato al Festival di Cannes, che si sta svolgendo in questi giorni, da tre film: «L’armata Brancaleone » di Mario Monicelli, «Signore e signori » di Pietro Germi e «Uccellacci e uccellini » di Pier Paolo Pasolini. Tre pellicole molto diverse fra loro, ma che, tutte e tre, portano sullo schermo del festival francese un po’ d’Italia che ride (anzi, sorride) amaro, un’Italia con il suo dritto e rovescio, con le sue luci e le sue ombre. Osserviamoli un poco da vicino questi film.
Cominciamo da «L’armata Brancaleone » che è stato scelto dalla commissione selezionatrice italiana (gli altri due sono stati invitati dagli organizzatori del Festival), e che dovrebbe quindi rappresentare il meglio della nostra produzione degli ultimi mesi. Si svolge nel Medio Evo e racconta la storia di un gruppetto di straccioni che, al comando di un cavaliere (Brancaleone da Norcia, straccione egli pure), parte alla conquista di castelli, terreni ed onori, ma che, strada facendo, trova non pochi ostacoli ai suoi arditi sogni di gloria. I nostri eroi si trovano a patire molte pene e a subire molte sconfitte: la peste, i tornei, gli scontri con pirati saraceni e guerrieri bizantini, e riescono alla fine a sottrarsi a mala pena all'impiccagione, arruolandosi — modesti crociati — nella brigata di un allucinato monaco che li trascina in Terra Santa. Candidi e affamati, leali e un poco matti, truculenti e paurosi, gli eroi della spavalda armata Brancaleone, con le loro spassose avventure, ci suggeriscono un'amara conclusione: che in ogni epoca i poveracci patiscono le ingiustizie e gli insulti dei potenti e che è sempre pericoloso per chi è nullatenente aspirare a cospicue conquiste.
Il film di Pietro Germi «Signore e signori » è una storia all’italiana, ambientata in una città del Veneto, bigotta, ipocrita e maldicente. Si articola in tre episodi. Nel primo conosciamo i personaggi di tutte le vicende: professionisti con l'idea fissa del sesso, seduttori da strapazzo, arrampicatori, donne dedite ad un'unica occupazione, quella di piacere ad un uomo che non sia il proprio marito, e preoccupate solo di ciò che dirà la gente. In questo clima è possibile che un uomo si finga impotente per avere carta bianca nei corteggiamenti della moglie del proprio medico e amico. Quando il medico si accorge della tresca si preoccupa soprattutto di una cosa: che la gente non sappia nulla.
Nel secondo un povero diavolo, impiegato di banca, beone e sognatore, si innamora, ricambiato, di una patetica cassiera, imbevuta di fumetti. I due sono decisi 3 vivere insieme e far trionfare il loro amore pulito, ma l'uomo è sposato ed ha subito contro l'intera città; dal parroco al commissario di PS al direttore di banca, che lo riconducono, suo malgrado, in famiglia. Nel terzo episodio sono coinvolti sei personaggi molto in vista: il medico, il farmacista, un avvocato, un architetto, un commerciante, un industriale, i quali, in un solo pomeriggio, hanno un'avventura con la stessa ragazza, che si «passano » l’un l'altro come fosse un oggetto. La ragazza ha sedici anni. Il padre, un contadino ignorante, ma sensibile al fascino dei soldi, cerca di trarre vantaggio dall'«incidente» e denuncia i sei uomini. Le cose sembrano mettersi male per i sei seduttori quando la moglie di uno di questi, con una cospicua somma, convince il contadino a ritirare la querela e sobbarcarsi un processo per calunnia. E non importa se la donna nell'impresa ci "rimette le penne", su un giaciglio di paglia e fieno: la giustizia è gabbata, la reputazione è salva.
Il terzo film, quello di Pier Paolo Pasolini, «Uccellacci e uccellini », è una favola, come l'ha definita il suo autore, una favola senza una vera storia e con tre singolari personaggi: due vagabondi e un corvo parlante.
Le immagini poetiche di Pasolini
Ci sembra giusto soffermarci su questo film — il più interessante dei tre — poiché non è ancora apparso sui nostri schermi. La sua trama? Difficile da raccontare: un uomo (Totò) e il figlio (Ninetto) compiono un viaggio di cui non si conosce nè l’inizio nè la fine, ai margini di una periferia sconfinata, popolata da strani personaggi. Lungo il cammino, nel groviglio di piccole avventure, bizzarre, assurde, comiche. i due incontrano anche un corvo parlante che si unisce a loro per fare un tratto di strada insieme. L'insolito trio cammina sotto il sole ed il corvo cerca di far dire al padre e al figlio dove sono diretti, cosa fanno, come vivono e cosa pensano della vita: ma loro proprio non lo sanno! Il corvo cerca allora di illuminarli, spiegando la natura dei fatti nei quali si trovano implicati. E’ una fatica vana. Il corvo persiste: egli è un conversatore tenace e cerca di coinvolgere i due ignari individui nelle argomentazioni della sua stringente dialettica.
Ad un certo punto, per dare maggiore efficacia alle sue parole, racconta un'autentica storia che tratta di «Uccellacci e uccellini ». Ed allora Totò, nei panni di un vecchio frate, e Ninetto in quelli di un fraticello sfaticato, si trovano a vivere una avventura nell’anno 1200. San Francesco chiede loro di decifrare il linguaggio degli uccelli per poter predicare anche ad essi l’amore. Il compito è arduo ma il vecchio frate Totò lo svolge con ardore: incurante del passare delle stagioni, trascorre lungo tempo in ginocchio nella fiducia di riuscire ad intendere un giorno il linguaggio' dei falchi e dei passeri. Finalmente ci riesce. E quando possiede il segreto dei due linguaggi egli può finalmente parlare nelle rispettive lingue agli uccellacci e agli uccellini per convertirli all'amore. Ma i falchi, pur conquistati nell’amore, si precipitano sui piccoli passeri e li divorano. Come accade purtroppo nella vita di ogni giorno.
Terminata la rievocazione dell’anno 1200, i tre amici: corvo, Totò e Ninetto, proseguono nel loro cammino, assistono a piccoli fatti, vivono avventure comiche e tragiche che danno al corvo altri spunti per seguire la sua predicazione ideologica. Ma Totò e Ninetto ormai a malapena nascondono la noia, vogliono liberarsi dello scocciatore e d'un tratto lo afferrano, gli tirano il collo, lo arrostiscono e se lo mangiano. il corvo, ha spiegato l'autore, «è il razionalismo ideologico ormai superato dal messaggio di Giovanni XXIII; la fine del corvo — sempre secondo l'autore — rappresenta l'assimilazione crudele di alcune idee: l'umanità ingurgita quello che deve divorare e procede avanti verso altri traguardi ».
Il film, nel suo arduo linguaggio carico di simbolismi, sarà difficilmente capito dal vasto pubblico. Pasolini ne spiega cosi i significati in una lettera agli amici e ai critici: «Mai ho assunto a tema di un film un tema esplicitamente così difficile. La crisi del marxismo, della Resistenza e degli anni Cinquanta — poeticamente quello anteriore alla morte di Togliatti — patita e vista da un marxista, dall’interno: niente affatto però disposto a credere che il marxismo sia finito (dice il corvo: "Non piango sulla fine delle mie idee, che certamente verrà qualcun altro a prendere la mia bandiera e portarla avanti! Piango su di me...”) ».
Crisi ideologica di un intellettuale, quindi, chè sarebbe forse arbitrario parlare di crisi di una società. E comunque si tratta di un tema complesso, difficile da tradurre in immagine e fare spettacolo. Pier Paolo Pasolini, infatti, non vi è sempre riuscito. Egli tuttavia ha realizzato un'opera coraggiosa, con accenti poetici e immagini suggestive. Poiché Pasolini è un poeta della macchina da presa. Pochi hanno saputo, come lui, accostarsi con tanto candore ai personaggi più umili (rappresentanti di un sottoproletariato istintivo, senza una vera coscienza) e raccontare con tanta umana partecipazione le loro vicende. Pasolini ama i suoi personaggi: ragazzi di vita, uomini e donne senza lavoro e senza fissa dimora, gente che agisce sotto la spinta di elementari necessità: vivere, mangiare, amarsi. Esseri infelici, diseredati ma inconsci della loro infelicità.
Un cinema in crisi
Come accoglierà questi personaggi il pubblico di Cannes, un pubblico mondano, misto, fatto di intellettuali e di commercianti, di avanguardisti e di snob? Come accoglierà i film italiani amari e ridanciani, comici e patetici?
Ma indipendentemente dall'accoglienza che riceveranno, questi film si prestano ad alcune considerazioni: essi sono il sintomo di una crisi che travaglia il nostro cinema, una crisi di idee, soprattutto. Gli eroi del film di Monicelli — simpatici, spassosi, ironici, ammonitori — sono troppo lontani da noi. dalla nostra vita di oggi perchè possiamo partecipare veramente alle loro avventure.
Nè ci convince fino in fondo il film di Germi che non ha la polemica drammaticità di «Sedotta e abbandonata», nè la forza ironica di «Divorzio all'italiana». Nato dalla intenzione di denunciare con forza la ipocrisia, la bigotteria, l'immoralità della borghesia veneta, ha finito per trasformarsi in racconto di avventure boccaccesche, viste con troppa complicità per suscita indignazione nel pubblico più sprovveduto.
E il film di Pasolini, il più nuovo dei tre, ci si presenta come un'opera non risolta in uno squilibrio tra ambizioni e risultati sul piano spettacolare e. probabilmente, destinata a restare oggetto di interesse e dibattito tra ristretti gruppi di amatori. Incapace cioè di raggiungere con la sua tematica — pure interessante— un pubblico molto vasto.
Del resto la produzione italiana di questa stagione, nel suo complesso. ha segnato una battuta di arresto. Lo stesso film di Bellocchio «I pugni in tasca », che ha fatto tanto scalpore e che ci ha rivelato un autentico ingegno della regia, va a scavare in un mondo che ha già avuto altri dissacratori, anche se non altrettanto impulsivi e veementi. I giovani di oggi hanno altri miti da demolire — oltre la famiglia o la madre.
Si ha l'impressione cioè che anche nei suoi risultati più felici il nostro cinema continui a ripetere temi e polemiche superati, in un momento in cui il cinema europeo — quello francese, inglese, cecoslovacco — va alla scoperta dei germogli di una realtà nuova, una realtà che, guarda caso, pare abbia come principali protagonisti le donne e i giovani, una schiera di individui in fermento, alla ricerca di modi nuovi di vivere, di una propria dimensione, di un proprio equilibrio, di una propria completezza, anche contro le convenzioni, le regole codificate.
Cinque anni fa proprio a Cannes, fu presentato il film di Antonioni «L'avventura»: fu un insuccesso clamoroso. Il regista e l’interprete, Monica Vitti, uscirono sconfitti e sconsolati dal palazzo del cinema, ma un mese dopo a Parigi la gente faceva la fila per andare a vedere quel film, che parlava di incomunicabilità, di alienazione dei sentimenti, che costringeva lo spettatore a prendere coscienza di una realtà non ancora confessata. Perchè, indipendentemente dalla sua fattura, un film oggi vale per ciò che di nuovo riesce a dire, per il suo apporto alla presa di coscienza dei problemi che si agitano in noi e intorno a noi, assolvendo così un'autentica funzione culturale. I tre film che presentiamo a Cannes, dolce-amarognoli, hanno qualcosa di nuovo da dire?
Maria Maffei, «Noi donne», anno XXI, n.20, 14 maggio 1966
Presentato a Cannes "Uccellacci e uccellini"
Esopo dà la mano a Marx nell'oscuro apologo di Pasolini
La pellicola è un miscuglio di falso realismo e falso intellettualismo, condotto con ritmo tedioso. Efficace l'interpretazione di Totò.
(Dal nostro inviato speciale)
Cannes, 13 maggio
Oggi, giornata ideologica. Al pomeriggio, Uccellacci e uccellini, un film in cui Pasolini, camuffato da frate francescano e da corvo, piange sulla morte di Togliatti e giura che tutto è finito, lui per primo. In serata un film svedese di Alt Sjoberg, L'Isola, in cui si dimostra che il socialismo non basta a impedire le guerre. Più che un film, a dire il vero, il predicozzo di Pasolini è una sorta di apologo oscuro e mal cucito in cui Fedro ed Esopo danno la mano a Carlo Marx e a un cristianesimo di equivoca ispirazione tra le marane e le borgate della periferia di Roma. L'apologo comincia con un padre e un figlio che camminano in strada. Dove vanno? Non si sa, non ce lo dicono, è inutile saperlo. Vanno. A un dato momento incontrano un corvo che si mette loro a parlare. Chi è? Anche questo è inutile saperlo anche se Pasolini si è affrettato a scrivere da qualche parte che il corvo in questione «rappresenta il razionalismo ideologico ormai superato dal messaggio di Giovanni XXIII»
Questo corvo anzi, questo «razionalismo ideologico», otre a parlare, discetta, predica, insegna e fra i suoi insegnamenti c'è anche un apologo nell'apologo, una storiella, cioè, di francescani ai tempi di San Francesco che, avendo avuto mandato di predicare gli uccelli, riuscirono nel loro intento (con molte fatiche) ma non vi riuscirono fino in fondo perché, dopo la loro vangelizzazione, i falchi impararono si a lodare il Signore, ma non smisero, per questo, di uccidere i passerotti. Esattamente come fanno anche quel padre e quel figlio che, buoni e bravi in casa loro, fuori, appena hanno occasione di far soperchierie a qualcuno, non si tirano indietro, ignorando, gli incauti, che, presto o tardi, toccherà a loro volta far da passerotti al primo incontro con altri falchi
Il corvo divorato
Padre e figlio ascoltano, si infastidiscono e alla fine ammazzano il corvo e lo mangiano. Perchè? Per farlo tacere, ridentemente come Pinocchio con grillo parlante, ma anche perche (commenta per scritto, Pasolini), «certe idee si assimilano sempre in forma crudele: l'umanità, cosi, divora quello che è destinata ad assimilare».
Tutto qui, con la sola paratesi medievalesca dell'apologo e un lungo brano di cinegiornale dedicato ai funerali di Togliatti presi, a quanto sembra ad emblema della fine di quel «razionalismo ideologico» nuovamente simbolizzato, giù in là, dalla morte del corvo.
E' quasi superfluo commentare questo pout-pourrri sia sul piano delle ideologie che hanno il pregio di essere più confuse del solito e più del solito in patente contraddizione tra loro (anche se ecciteranno gli ardori di qualche gesuita nouvelle vague e di qualche moralista vecchio stile), sia sul piano dello spettacolo cinematografico. Pasolini, con il cinema non ha mai avuto molto a che spartire: in Accattone però, c'erano delle idee e, qua e là, ce n’erano anche nel Vangelo secondo Matteo, ma cui la sola idea è quella di non averne volute avere (ameno sul piano del linguaggio filmico) e, francamente a noi proprio non basta. Certo, una pagina c'è che vale qualcosa: ed è quella della predica ai falconi, con la musica di violino di sfondo, ma a parte che Rossellini, con il suo Francesco giullare di Dio, aveva fatto di meglio, ci si può affidare ad una pagina sola per apprezzare un film? E soprattutto quando tutte altre sono miscuglio di falso realismo, di falso intellettualismo, di immagini o troppo sciatte o troppo pretenziose, appesantite da un ritmo statico, tedioso, insistito, reso anche più fastidioso dalle elucubrazioni del corvo, scandite da uno speaker con la voce querula e chioccia di un sacrestano incimurrito?
Spiace, cosi, di veder coinvolto in questa ibrida avventura un attore delle qualità di Totò, soprattutto dopo quella prova tanto convincente e di classe che ci ha dato di recente nella Mandragola; qui deve dar vita al personaggio del padre e, a un certo momento. anche a quello del vecchio francescano che predica agli uccelli: efficacissimo in entrambe le parti, ci è parso però più sapiente, più ispirato e più patetico nelle preghiere del frate che non nelle ovvie, dimesse ribalderie dell'uomo qualunque dei nostri giorni: espresse, queste, con modi troppo tradizionalmente caricaturali. [...]
Gian Luigi Rondi, «Il Tempo», 14 maggio 1966
Pasolini spiega il suo apologo
Le ideologie non muoiono, si aggiornano
Buon successo per Uccellacci e uccellini al Festival di Cannes: dopo la modesta figura fatta dal nostro concorrente ufficiale, il cinema italiano ha dimostrato quest’oggi dì avere ancora qualcosa da dire, qualche autore — come appunto Pier Paolo Pasolini — da esporre all’attenzione e alla discussione ad un livello internazionale. Peccato che, con il regista, con il produttore Alfredo Bini e con l'esordiente attore Ninetto Davoli non fosse qui, a ricevere la sua bella parte di applausi, il meraviglioso Totò, cui anche i più riservati nel giudizio complessivo non hanno risparmiato il loro aperto consenso.
Vivacissima, tra una proiezione e l'altra è stata la con conferenza stampa, che ha avuto un interprete fuori dell’ordinario in Roberto Rossellini, ammiratore di Uccellacci e uccellini, e a sua volta, uno dei maestri riconosciuti di Pasolini; per quest'ultimo, Francesco Giullare di Dio è un autentico capolavoro; e non c'è da stupirsi dunque, se si avverte traccia di quell'altro esempio nell'episodio centrale della nuova opera pasoliniana, forse il più liricamente ispirato ma, in generale, l'autore pensa - ed è anche questa una specie di omaggio non servile a Rossellini - che nella prima parte di Uccellacci uccellini vi sia una sorta di «decantazione rarefatta del Neorealismo». Altro omaggio, Pasolini ha voluto fare a Chaplin, chiaramente ”citato” nel personaggio di Totò.
Ideologia e linguaggio: questi i due punti più dibattuti nella conferenza stampa; e quelli, pure, sui quali maggiormente si accede il rovello dei critici. Vi è una certa contraddizione, ha notato qualcuno, tra la struttura dell’apologo, scelta dal regista, ed il contenuto; che non è moralistico, come nelle favole classiche, bensì, appunto, ideologico. Questo contrasto ha posto effettivamente a Pasolini questioni tecnico stilistiche non indifferenti; anche per avere gli voluto attingere, deliberatamente, toni e risultati di franca comicità (che le risate, da parte del pubblico, non hanno fatto difetto, sin dagli spiritosi ”titoli di testa cantati”). Così evidente che l'ambiguità della forma- legittima, come qualsiasi modo di rappresentazione, e congrua al momento dubitativo, interrogativo, che il film riflette- richiede da parte del pubblico un particolare sforzo interpretativo, una robusta disponibilità intellettuale.
Uccellacci e uccellini intende significare la fine delle ideologie? Piuttosto un loro aggiornamento (dice Pasolini, ed è anche questo il nostro parere), un loro svincolamento dal peso del passato: il corvo chiacchierone è saputo muore, mangiato dai due protagonisti, così come muore - biologicamente e storicamente - quanto di vecchio c'è nell'umanità; ma le idee che erano depositate nel suo corpo sopravvivono, e forse si trasmetteranno utilmente ai suoi divoratori, a questi emblemi del sottoproletariato del” terzo mondo”, di una vitalità dello stato di natura che attende di riscattarsi insieme di riscattare il mondo moderno. Il finale del film è volutamente sospeso tra disperazione e speranza, così come sempre sospesi tra il buio delle viscere e la luce della razionalità sono i temi e i personaggi di Pasolini.
Il «terzo mondo», i nuovi paesi continuano ad affascinarlo. Il suo prossimo cimento - lo conferma anche il produttore Bini - sarà una elaborazione cinematografica della Orestiade (ricordiamo, per inciso, che lo scrittore - regista curò una traduzione della trilogia di Eschilo, per Gassman, nel 1960), interpretata da soli attori negri. I problemi di una presa di coscienza della democrazia - che nutrirono la tragedia greca- si pongono infatti oggi, nella maniera drammatica a tutti nota, proprio nelle giovani nazioni, che accedono via via, con fatica e con dolore, alla libertà. [...]
Aggeo Savioli, «L'Unità», 14 maggio 1966
Pasolini, un marxista in crisi spirituale nel film presentato ieri al Festival di Cannes
Cannes, 13 maggio.
Uccellacci e uccellini, il film italiano «invitato» a Cannes e già in corso di programmazione a Roma e a Milano, ha nidificato oggi sullo schermo del Palais davanti a un folto pubblico che si - è divertito molto ai titoli di testa, presentati in maniera affatto nuova, e ha seguito il resto con interesse (specialmente Totò), applaudendo un paio di volte a schermo acceso. Di più, specie a un pubblico straniero, non si potrebbe onestamente chiedere, giacché Uccellacci e uccellini, sotto la sembianza del «divertimento» o addirittura della «comica» di buona memoria, è un film difficile, a più piani: consiste d'una filza di apologhi parabole fioretti, cuciti dalla presenza di Totò e del giovane Nino Davoli, interpreti fissi, in cui Pier Paolo Pasolini ha strizzato il suo cuore di marxista in crisi (in crisi per una più acuta esigenza cristiana) con la ferra ta dottrina, lo sfarzo dei rimandi e lo slancio lirico che tutti gli riconoscono.
Questo tono di confessione si coglie soprattutto nella sceneggiatura quale si può leggere, preceduta da un piccolo trattato di stilistica cinematografica, nel libro edito da Garzanti, e che è stata piuttosto compendiata (con sacrifìcio di cose buone) che non svolta dal film, il più franto, discontinuo e cifrato dei film pasoliniani, ma forse anche il più originale e il più suo. Tutto quello che accade in Uccellacci e uccellini, il vagabondare d'un padre e d'un fìglio per una strada delle borgate senza fine, è allegoria o metafora continuata, cominciando dalla strada stessa che rappresenta il progresso sociale senza, termine assegnato. E già dopo poche battute che danno il tono critico-surreale siamo preparati all'apparizione di un corvo parlante, figura di loquace marxista staliniano (con voce pertinentissima), che s'accompagna ai due viandanti in funzione di favolista sociale ma purtroppo anche di mentore, talché alla fine padre e figlio decidono di accopparlo (simbolo dell'umanità che procede divorando).
Quel corvo porta al film la cosa più bella: l'episodio dei due fraticelli francescani (gli stessi Totò e Ninetto), che ricevono dai Santo il mandato di convertire gli uccelli dopo averne imparato la lingua. Grazie a un lungo tempo di devozione il duplice miracolo si fa: prima coi falchi e poi coi passeri; ma quando i due se ne tornano al Santo per riferire della missione compiuta, ecco un falco piombare su un passero e divorarlo. Il senso è chiaro ai due fraticelli atterriti: l'evangelizzazione è riuscita quanto ai falchi tra loro e ai passeri tra loro, ma non, ahimè, tra l'una e l'altra famiglia di pennuti. Dunque è questa la legge del mondo. «Nient'affatto, — li conforta il Santo —, il mondo si può cambiare. Andate e ricominciate da capo».
E' tanta la grazia rustica di questo lungo inserto, percorso dalla miglior vena dello scrittore-regista, che con qualche fatica si riprende il cammino dei tre compari verso altre esperienze in cifra: la baruffa, per motivi igienici, col padrone del campo; lo sfratto intimato da Totò alia povera contadina (con quel bel tocco dell'affamato che mangia un nido), e l'immediata punizione che glie ne segue in casa d'un suo creditore, che lo fa azzannare dai cani; l'incontro col circo ambulante, la duplice ricreazione di padre e figlio con la bella prostituta Luna, e finalmente il sacrificio del corvo chiacchierone.
In questa seconda parte, dove pur cade, splendidamente utilizzato, l'inserto documentario dei funerali di Togliatti, confusamente accompagnati da pugni chiusi e segni di croce, il film si disunisce alquanto, e per conseguenza crescono, e vorrebbero essere spiegati, i sensi riposti, politici e sociologici. Qui si tocca e si sfiora un po' di tutto, dal messaggio giovanneo all'evoluzione del marxismo, dal diritto di proprietà al controllo delle nascite, alla prostituzione eccetera. E fioccano le citazioni più peregrine (anche il filologo Pasquali). Restringendoci alla prima lezione (quella da cui dipende la presa del film) si può ripetere quello che già si è detto per altri film del Nostro: anche in «Uccellacci e uccellini», o qui più che altrove, c'è un certo imbroglio tra ispirazione e ideologia, o addirittura un caos; anche qui sono i cedimenti del regista che mutua da altri (Chaplin, Rossellini, Fellini) o si distrae nell'estetismo dell'immagine improvvisata; ma viene poi sempre il momento che la mano del poeta si fa sentire (l'episodio dei fraticelli, la figura, tutta freschezza, di Ninetto, il baleno di quella Luna, la campagna bellissima, e un senso così propriamente italiano di tutto il rappresentato), e allora biso¬ gna tornare a convincersi che Pasolini è uno dei pochi veri registi di «rottura» nel senso che morde in qualcosa di superiore e di arcano rispetto al cinema tradizionale. Questo regista non è di quelli che tormentano gli attori illustri, li ospita graziosamente. E' stata una fortuna per lui imbattersi in un Totò, che pur lasciato a se stesso, ha saputo scegliersi la sua misura, così da riuscire nel medesimo tempo divertente alla sua maniera e a quella voluta dall'autore.
Della Svezia abbiamo visto On («L'isola»), diretto da Alf Sjòberg, per lunghi anni caposcuola del cinema svedese prima di Bergman. Si tratta di una vera isola dell'arcipelago scandinavo ma al tempo stesso d'un simbolo (oggi era la giornata) d'un moi.do conservatore e retrivo fatalmente condannato, nel dopoguerra, a disgregarsi In una situazione di colore ancora ottocentesco s'inseriscono problematiche moderne, e ce n'è per tutti: per il nobilotto che vorrebbe e non può comunicare, per la maestrina il cui zelo di progressista urta nella pigra consuetudine, per il pastore che ha perso la fede e la ricerca nell'alcool, per la signora contessa ancora trincerata nei pregiudizi di casta. Un cadavere ripescato (la guerra è appena finita), funge da catalizzatore per quelle coscienze avviluppate; da quel morto sconosciuto risorge, in ogni personaggio, un uomo nuovo, che nella solidarietà col prossimo, nell'accettazione laica e moderna della vita, trova la soluzione dei propri problemi. Il film, che ha fra gli interpreti Bibi Andersson, ha un innegabile decoro formale, ma nella sostanza del racconto si fa sentire glacialmente architettato e, pei troppi e non trascendentali dialoghi, pesantemente teatrale.
Leo Pestelli, «La Stampa», 14 maggio 1966
Il regista spiega il suo lavoro: «Ho voluto fare un'autocritica»
Cannes, 13 maggio.
Atto di contrizione e di resipiscenza: Pier Paolo Pasolini, poeta, romanziere, saggista, regista, intellettuale fra i più ascoltati dei nostri anni, ha spiegato in una conferenza stampa insolitamente affollata i sensi riposti del suo film Uccellacci e uccellini che quest'oggi è stato presentato a Cannes. Un film che ha per personaggi due uomini: Totò e, nei panni del figlio giovinetto, un oscuro Nino Davoli, che fa il falegname all'Acqua Bullicante (borgata non lontana da Roma).
C'è poi un terzo personaggio, ma questo appartenente al regno animale: un corvo. Un corvo die saltella, petulante, saccente, intorno ai due poveri diavoli di cui s'è detto, e che s'impanca a maestro e guida dei loro passi, e li segue, li stuzzica, li erudisce sul significato della vita e sul destino della società. Un corvo, insomma, di tipo filosofo; anzi, per esser più chiari, della specie che ebbe fortuna in Italia fino a non molti mesi fa. Si può dir che nell'uccellaccio di cui ho detto, Pasolini abbia voluto concentrare la saccenteria di tutta l'intellettualità di sinistra. A dirla in breve: il film finisce in coincidenza con la morte di Togliatti. Totò, in un raptus di saggezza popolana, decide di farla finita con il corvo scocciatore, e gli si avventa al collo per strozzarlo. Ma il corvo all'istante si disintegra: rimane, sul prato, qualche penna, il becco, le due zampe inerti. Che senso ha questo corvo di sinistra?
«E' un personaggio autobiografico», dice Pasolini. «Quel corvo sono io. E' per questo che, nel creare il film, ho faticato molto e ho perduto alcuni chili di peso». «Di quanto è dimagrito?», m'informo. «Di sette-otto chili», mi ragguaglia Pasolini. Occhiali scuri, ilare e amaro, il nostro scrittore-regista siede accanto': al produttore, Alfredo Bini, al padre nobile del neorealismo, Roberto Rossellini, e al comprimario del film. Nino Davoli, che però non parla.
«Ma lei, Rossellini, che fa, lì, seduto a quel tavolo ?», domanda un critico francese. Rossellini, assai conosciuto in Francia, è da qualche anno in disparte della vita del cinema E allora, dunque, perché s'è preso la briga di tenere a battesimo quest'operai Risponde Rossellini: «Be', si fa molta confusione, quando si parla di cinema nuovo. Il cinema deve rinnovarsi non solo nelle tecniche e nel linguaggio, ma anche nei contenuti Il film dell'amico Pasolini è un esempio di cinema nuovo proprio per le cose che dice!».
Sarà: ma in sala qualcuno protesta. Dice che il film non è affatto chiaro. Morto il corvo, qual è il suo testamento? «Il mio film finisce con un punto interrogativo» annuncia Pasolini. «E' ambiguo, perciò», sostiene una giovane intellettuale. «Anche l'ambiguità è una tecnica narrativa!». «Lo considera un progresso o un regresso questo strozzamento del corvo?». «Sempre un esame di coscienza è doloroso Molta gente non si vuole staccar dalle proprie ideologie perché ogni distacco produce dolore. Ma il mondo cambia cammina. I due poveri diavoli che appaiono nel film mangiano del corvo; quindi qualcosa in loro rimane Però, che il dubbio abbia preso consistenza è già un fatto positivo, un segno di miglioramento»
In conclusione, del Pasolini dei Ragazzi di vita non rimangono che queste poche penne sparse sul prato, questo becco nero. «E' così?», domando a Pasolini. «In un certo senso, è proprio così». E se ne va con Rossellini e con Nino Davoli a rispondere ad altre domande alla televisione. Nino Davoli ha la testa in gran confusione. Il balzo dall'Acqua Bullicante a Cannes è stato uno scossone, per lui. «Io nun m'immaginavo mai di poter fare un film con Totò, con Pasolini. Tutte 'ste cose, me capisce?». «No». «Tutte 'ste cose, insomma. Ma proprio nir me capisce?». «No». «Be, io faccio er falegname, mi spiego? Mio padre il muratore. Otto anni fa, quando venimmo dalla Calabria, proprio nun ce se pensava che io dovessi finire in cinematografo, in televisione, a Cannes. Me so' spiegato?».
«Perché ride?». «Embé. rido a pensare li miei amichi, quando me vedranno vestito da frate in questo film...». Ultime notizie sulla presidentessa. Sophia Loren, ritornata all'ovile dopo l'escursione professionale a Londra, è stata ricevuta oggi all'aeroporto da un corteo di «spider» 850 Fiat e l'a ripreso il suo posto accanto ai giurati, solennemente promettendo di non piantarli più in asso.
Sul fronte della mondanità s'annuncia la presenza di Geraldine Chaplin, Martine Carol, Agnès Spaak, Sylvia Casablanca; presenzieranno lunedì all'elezione di «Lady Cinema» e di «Lady Francia», che avrà per teatro delle operazioni lo yacht «Gancia», giù ancorato nella rada di Cannes.
Gigi Ghirotti, «La Stampa», 14 maggio 1966
Il copione di «Uccellacci» merita anche d'essere letto?
Pochi mesi fa, nel libro miscellaneo Ali dagli occhi azzurri Pier Paolo Pasolini pubblicò le sceneggiature dei suoi film «Accattone», «Mamma Roma», «La ricotta». E quelle pagine, comparendo mescolate ad altre di poesia e di narrativa, ci sembra che dessero la riprova di un talento eccezionale per varie ragioni: capace, fra l'altro, di mantenere una stessa dose di vitalità inquieta e aggressiva in impegni cosi diversi. Ora il Pasolini sceneggiatore-regista ha pubblicato anche il copione di Uccellacci e uccellini: il film presentato a Cannes, così intitolato dal secondo dei tre episodi! che lo compongono (editore Garzanti, Milano).
Questo nuovo volume è tutto cinematografico. Lo aprono quattro «scritti teorici e tecnici» dell'autore — che vi ragiona di problemi generali, sul «cinema di poesia», e di questa sua ultima fatica — e lo chiudono due interviste di G. Gambetti a A. Bini e a Totò, l'uno produttore e l'altro interprete dell'opera.
Crediamo che i lettori si interesseranno soprattutto di queste interviste conclusive trovando nelle parole del Bini un'umanissima visione «pratica» del personaggio: «C'è una certa tendenza, da parte di Pasolini, a trascrivere sopra le righe, a vedere le cose in funzione magari troppo intellettuale»; e appassionandosi a quelle amabilmente estrose di Totò, che mentre condanna con gran lucidezza la nostra cinematografìa d; genere comico, rivolge al Pasolini un implicito omaggio da non dimenticare: «Da noi è tutto parole, parole, parole con sceneggiatori da tre soldi i quali credono sia sufficiente buttar giù delle pagine».
f. g., «La Stampa», 14 maggio 1966
Cannes,14 maggio.
Ideologia, che passione! A questa insegna sono stati presentati, ieri, il secondo film italiano. Uccellacci e uccellini di Pier Paolo Pasolini, e L’isola, il film svedese di Alf Sjòberg. Il film di Pasolini (del quale abbiamo scritto a lungo dopo la prima milanese di dieci giorni fa) è stato accolto lepidamente dal pubblico. Abbastanza divisa la critica, che ha affollato la conferenza - stampa del regista italiano. Pasolini era assistito da Roberto Rossellini, che traduceva, chiariva, teneva su l'atmosfera con il suo prestigio e la sua amabilità. Le domande hanno interessato più che altro il terreno ideologico; scarsamente quello cinematografico.
Pasolini ha risposto abilmente a tutti e non è colpa sua se gli interrogativi non erano molto stimolanti. Val la pena, comunque, di registrare il senso di alcune risposte. Pasolini ha detto che San Francesco, nel suo, film rappresenta la Chiesa progressista; che Uccellacci ed uccellini è un’opera comica; che il finale è pessimistico. ma se i due hanno mangiato il corvo, cioè l'ideologia, in una qualche misura l'hanno assimilata; che per lui, dopo la morte di Togliatti, « che rappresenta la fine di un’epoca», non si «tratta di rifiutare un'idea, quanto di adattarla al nuovi tempi.
Assisteva alla conferenza-stampa anche un interprete del film, Ninetto Davoll. un ragazzotto dai capelli ricci, un po’ smarrito nel caldo del dibattito ideologico. Cosi fumava sigarette francesi, avvolgendosi di fumo. Non c'era Totò, purtroppo. [...]
Alberico Sala, «Corriere della Sera», 14 maggio 1966
Morto il corvo, viva il poeta
"Uccellacci e uccellini", il film diretto da Pasolini, è una favola con scene di alta poesia e di verità umana deturpato però dalla zavorra di un simbolismo nebuloso e puerile
«Uccellacci e uccellini», diciamolo subito, è quanto di meglio Pier Paolo Pasolini abbia realizzato finora. C’è dentro molto Fellini, un po’ del De Sica di «Miracolo a Milano», un po’ di Ingmar Bergman, un po’ di Chaplin, un po’ di Ridolini. Ma il poeta Pasolini questa volta sa investire con profitto ciò che il regista Pasolini (nullatenente o quasi) ha preso in prestito dai suddetti colleghi. E il film ha momenti di alta poesia: da dove, in altri momenti, precipita nella banalità (che è un gran brutto cadere, sicché alla fine il film arranca un po’ storpio e farfuglia un po’ balordo: peccato).
Si tratta di una favola, tutta roba simbolica, lo sapete. Ciccillo e suo figlio Ninetto (un sobrio Totò e il sorprendente Ninetto Davoli con l’argento vivo addosso) vanno girovagando assurdamente senza meta (il succo filosofico del film è questo: «Dove va l’umanità? Boh»), A loro si accompagna un corvo parlante (il tipico intellettuale di sinistra, quale è o è stato lo stesso Pasolini, schiavo del dogmatismo ideologico).
Strada facendo il corvo racconta la parabola di due fraticelli ai quali San Francesco affida il compito di conquistare a Dio i falchi e i passeri (il racconto si sviluppa poi per immagini e sono gli stessi Ciccillo e Ninetto, cioè Totò e Davoli, che nella trasposizione impersonano i due fraticelli). Frate Ciccillo, dopo essere rimasto in ginocchio, per voto, un anno intero, riesce a farsi capire dai falchi, parla con loro di Dio e li converte. Un altro anno in ginocchio e finalmente, non cinguettando, ma saltellando, riesce a comunicare coi passeri, li conquista al Signore. Missione compiuta: i due fraticelli se ne tornano in perfetta letizia. Ma ecco che un falco scende in picchiata su un passerotto e lo strazia. Singhiozzano i due fraticelli (che brano stupendo). E poi frate Ciccillo dirà a San Francesco: «I falchi li abbiamo conquistati al Signore. E anche ai passerotti, se è per questo, la legge del Signore sta bene. Ma è fra loro che i falchi e i passerotti si sgrugnano». E San Francesco manda di nuovo in missione i due fraticelli: cerchino di convincere i falchi e i passerotti a non sgrugnarsi fra loro.
Questo episodio preso a sé è un piccolo capolavoro perfetto (la ciliegina nel pudding, per dirla con Hemingway). Qui Totò è impareggiabile. Anche il linguaggio cinematografico acquista un ritmo originale (la sequenza dei quattro beceri che lanciano in aria il fraticello resterà esemplare nella storia del cinema).
Il resto del film è di qualità inferiore. A tratti un guizzo di estro lo tira su. Ma subito la zavorra del simbolismo nebuloso o puerile lo tira giù. La sequenza nella magione del creditore spietato è di una goffaggine quasi commovente. Né mai sapremo che senso abbia la lunga sequenza dei saltimbanchi e del parto. A un certo momento, in questo film che ha spesso un ritmo alla Ridoli-ni, è inserito un lungo documentario sui funerali di Togliatti, con Longo e Nenni che seguono il feretro. Una trovata audace, non c’è dubbio. Ma che vuol dire? Che con Togliatti è morta la fede cieca degli intellettuali di sinistra nel dogmatismo ideologico? Boh.
Il corvo, infatti, ammette subito dopo il proprio fallimento: non lo ascoltano più, non conta più nulla, è tagliato fuori dalla realtà del nostro tempo. A questo punto Ciccillo gli tira il collo e se lo mangia. E fa benissimo. Intendiamoci: non l’ansia di giustizia e di pace e di verità è morta o si vuole che muoia. Non gli ideali sono morti. E’ morto il cieco e rigido dogmatismo ideologico, al quale per anni fu sacrificato l’uomo. Ora anche Pasolini ha una gran voglia di gridare: muoia il corvo, purché l’uomo viva (la simpatia del regista è tutta per Ninetto e per Ciccillo, non per il corvo che trincia luoghi comuni ormai vuoti di significato). Lo equivalente del corvo pasoliniano lo aveva già impiccato Fellini in «Otto e mezzo».
Pier Paolo Pasolini, se è davvero morto il corvo sbilenco che era in lui, arriverà a toccare punte molto alte di poesia e di verità umana, vedrete.
Luigi Cavicchioli, «La Domenica del Corriere», 15 maggio 1966
Viene da Cannes il nuovo film di Pasolini con Totò
Mentre è ancora viva l’eco dei commenti di Cannes, ecco, in prima oggi anche a Torino, il film in bianco e nero Uccellacci e uccellini, al quale danno duplice lustro il protagonista Totò e regista Pier Paolo Pasolini. Uccellacci e uccellini in quest’apologo cinematografico che lo scrittore regista definisce ”ideocomico”, sono gli uomini, ai quali la civiltà non impedisce di divorarsi a vicenda: falchi e passeri, oppure, in altre parole, persecutori e perseguitati. La parabola è, da un corvo parlante, raccontata a due viandanti, padre e figlio, impersonati da Totò e Ninetto Davoli. Essa prende vita da estrose immagini, nelle quali, sotto il festoso aspetto delle antiche comiche finali, si sviluppa una storia che assume precisi significati sociali. Basti dire che il corvo sapiente si autodefinisce ”un marxista di prima della morte di Togliatti”.
«La Stampa», 20 maggio 1966
Cannes, 20 maggio.
Il Gran Premio del Festival cinematografico di Cannes è andato, diviso a pari merito, a Un uomo e una donna di Claude Lelouch (Francia) e a Signore e signori di Pietro Germi (Italia). Circa la prima attribuzione, come si poteva prevedere da chi conosce indole e struttura della rassegna di Cannes, l'una e l'altra particolarmente risentite in occasione del Ventennale, ha vinto il film lezioso, bissandosi, ma con minor fondamento critico, il caso avutosi due anni fa con I parapioggia di Cherbourg. Piacevole come una canzone morbidamente sussurrata nella mezza luce di un night, il film di Lelouch ha i suoi limiti nella sua stessa eleganza e fragilità; è un'operetta di suggestione tutta francese, con poteri d'insinuazione affatto sproporzionati alla modestia dei significati.
Meno prevedibile invece il semitrionfo del film italiano, che in patria non aveva trovato molti profeti. Non dispiaccia a Germi, per cui abbiamo molta stima, se diciamo che il riconoscimento al suo film, il meno felice dei suoi film, dà la misura della scarsa consistenza artistica della rassegna francese. Il successo del cinema italiano a Cannes si arrotonda con una « menzione speciale » a Totò, protagonista di Uccellacci e uccellini. [...] A una seracciata severa soltanto pochissimi film possono a nostro avviso tramandare il ricordo della Cannes 1966: Falstaff, Uccellacci e uccellini, I turba menti del giovane Torless. [...]
Leo Pestelli, «La Stampa», 21 maggio 1966
«Paese Sera», 21 maggio 1966
All'Italia e alla Francia la «palma d'oro» di Cannes
Cannes, 20 maggio.
Italia e Francia, Germi e Lelouch, Signore & signori e Un uomo e una donna, si sono divisi il «gran premio» del Festival di Cannes. Totò, interprete di Uccellacci e uccellini di Pasolini, ha ricevuto una menzione speciale. Migliore attore, lo svedese Per Oscarsson, protagonista del danese La fame di Henning Carlsen; migliore attrice Vanessa Redgrave. protagonista dell’inglese Morgan di Karel Reisz. Premio speciale della giuria all’inglese Alfie di Lewis Gilbert. Premio per la migliore regia a Lenin in Polonia di Serghei Yutkevich. Premio per l’opera prima a Inverno in fiamme del romeno Mlrcea Muresan, Premio per festeggiare il ventesimo anniversario del Festival a Orson Welles per «il suo contributo al cinema mondiale».
Una « troupe » di saltimbanchi non avrebbe saputo far meglio. Salvo il premio a Orson Welles, inventato col pretesto del compleanno del Festival per salvare la faccia, tutti gli altri sono il frutto d’una giuria in vena di scherzare. Signore & signori e Un uomo e una donna hanno momenti giulivi, costruiti con mestiere, però nel complesso sono film di scarso peso: Germi cl ha dato tanto di meglio, e Lelouch è spigliato, ma leggero e cuor contento. Un uomo e una donna piacerà alle affezionate lettrici della stampa rosa, non lascerà traccia nelle cineteche. Consideriamo un affronto a Totò la menzione speciale, solitamente destinata a esordienti o ad attori di fianco. [...]
Giovanni Grazzini, «Corriere della Sera», 21 maggio 1966
Sofia ha spezzato un bicchiere per far dare un premio a Totò
Cannes, 20 maggio.
L'affermazione di Signore & signori è stata accolta dal clan italiano con soddisfazione cordiale ma tranquilla: Germi, a differenza di taluni nostri regirti «impegnati», è un uomo senza claque. Egli, sia detto a vanto del suo stile, era partito ieri per Roma e davvero per Roma: altri nella sua condizione, subodorando un premio, avrebbero simulato un lungo viaggio, il ritorno, ma si sarebbero celati nei paraggi di Cannes, in attesa. E non si è dato il caso di chi non si è mosso fino all'ultimo dall'albergo sulla Croisette dove aveva preso dimora? Non cosi Germi: l'aereo della sera lo ha ricondotto a Nizza da Roma, giusto in tempo per ricevere, nel palazzo del Festival, gli applausi di rito (con molti dissensi) e il trofeo.[...] In quanto presidentessa è stata, ci assicurano, energica di fronte a qualche intoppo. Se non c'è stato bisogno di battersi per il film di Germi, la signora Ponti ha viceversa lottato, con generosità campanilistica, affinchè nella lista delle indicazioni non fosse dimenticato il nome di Totò. Certi giurati tenevano duro: Sofia, nella foga della perorazione se non addirittura in un piccolo accesso di stizza, ha (sembra) spezzato un bicchiere, non si sa se urtandolo o scagliandolo a terra. Si fa un gran parlare di questo bicchiere rotto, il segno della collera di un'altra Giunone. La dea non conferma e non smentisce. Ha vinto. come sempre (o quasi sempre) accade alla Giunone di Omero E’ scaturita dalla vittoria di Sofia la «menzione speciale» per: «il grande attore italiano Totò». Troppo poco? Certo: ma solo se si tengono d’occhio la carriera, la figura, la forza, l’alone magico di Totò.
Comunque, a parere dei maligni, il vero trionfo di Giunone-Sofla risiede in una circostanza negativa: nè Jeanne Aforeau nè Anna Karina sono state premiate, Ma noi, qui, riteniamo doveroso difendere la Loren-donna, della quale apprezziamo la lealtà. Non è verosimile che Sofia Loren abbia inteso in qualche modo ferire o deprimere le due attrici francesi: non è nel suo temperamento. Per quanto ci riguarda non ci crederemo mai. Perchè dovrebbe esistere un’invidia (o un astio) di Sofia Loren verso attrici tanto meno incensate di lei. due non-dive? E ancora (ecco una considerazione che riflette il punto di vista personale di chi firma queste note): Vanessa Redgrave, in Morgan, ha offerto una prova eccellente: questa palma, la sua, può anche apparire meritata.
Carlo Laurenzi, «Corriere della Sera», 21 maggio 1966
Il film italiano prescelto «per la sua qualità di satira sociale» Una citazione al «grande attore Totò» per «Uccellacci e uccellini»
Cannes, 20
II Gran Premio del Festival Cinematografico di Cannes è stato attribuito ex aequo a «Signore e signori» di Pietro Germi e al film francese «Un uomo e una donna» («Un homme et une femme») di Claude Lelouch.
Gli altri premi sono stati così attribuiti dalla giuria: Premio il migliore attore protagonista: allo svedese Per Oscars, protagonista del film danese «Le fame» («Sult») di Henning Carlsen. Una menzione speciale è stata decretata all’attore italiano Totò per il film «Uccellacci e uccellini» di Pasolini. Il premio per la migliore attrice protagonista è andato all'inglese Vanessa Redgrave, interprete di «Morgan, a Suitable case for Treatment». [...]
«Il Piccolo», 21 maggio 1966
Il film di Pasolini in "prima" a Torino
Bene accolto al Festival di Cannes, Uccellacci e uccellini di Pier Paolo Pasolini ha avuto sulle nostre colonne un'ampia recensione di Leo Pestelli. In quella nota critica si rilevava come, sotto la sembianza del «divertimento» o della «comica», l'ultima opera cinematografica di Pasolini risulti diffìcile, a più piani: una filza di parabole apologhi fioretti cuciti dalla presenza di Totò e del giovane Ninetto Davoli. un attore non professionista alla sua prima estemporanea e divertente prova di interprete.[...] I pregi poetici bilanciano le manchevolezze della pellicola la confusione in essa palese tra ispirazione e ideologia, le distrazioni del regista nell'estetismo delle immagini improvvisate, che tuttavia più volte si riuniscono e si consolidano in frammenti di buon cinema, grazie anche alla valida collaborazione di Tonino Delli Colli, direttore della fotografia in bianco e nero.
vice, «La Stampa», 21 maggio 1966
Poco cinema e molte donne a Cannes
Mentre ben poco di nuovo ha offerto la rassegna di film, il Festival è stato animato dai problemi sollevati dalle attrici vecchie, giovani e in erba.
Cannes, maggio
Cannes 1966 può essere ricordata come una grande battaglia fra donne. Nel salone dominato dai grandi occhi di Sofia Loren, non c’erano, infatti, quest’anno che regine dello schermo. C’erano le grandi francesi, Jeanne Moreau, Michèle Morgan, Anna Karina, Catherine Deneuve; non è mancata Monica Vitti, nè Rosanna Schiaffino. Non c’erano invece le stelle che cercano la consacrazione o quelle che tentano un debutto. Cannes 1966 ha segnato la fine della starlet.
Per la prima volta queste ragazze che si lasciavano docilmente scaraventare vestite in acqua o, seminude, in sala di proiezione, hanno disertato il loro festival prediletto. Siccome le attrici lavorano e le starlettes no, erano sempre le starlettes che animavano il Festival della Costa Azzurra : la Croisette, durante il festival, diventava solitamente una sorta di "borsa del sex-appeal”.
Nel 1951 diventò famosa, grazie a un bikini microscopico, Myriam Bruce che oggi, grazie a quel bikini, possiede uno yacht ancorato sul luogo del trionfo, cioè nella rada di Cannes. Nel 1954 Bella Darvhi guadagnò notorietà grazie a una spallina che si spezzò in un luogo deserto, ma accuratamente affollato di fotografi; successivamente fece qualche sforzo artistico nel cinema. Ora possiede un attico sulla Costa Azzurra e giuoca alla roulette. Tutta la spiaggia nel periodo del festival era una folla di piccole Ève, disperatamente discinte, disperatamente sorridenti, disperatamente mansuete davanti agli obbiettivi e alla luce del sole mediterraneo. Perfino i russi avevano i loro specialisti in tipi di bellezze da lanciare.
Non più impegnata alla trattazione dei piccoli valori, Cannes si è rivolta, quest’anno, alle grandi donne; cioè alle vere abitatrici del grande olimpo cinematografico.
A celebrare il ventesimo compleanno, il festival ha voluto infatti i grandi nomi per rendere omaggio, non foss’altro, ai numerosi "immortali” che sedevano nella giuria. Quest’anno le attrici agli albori sono sbocciate quiete, filosofeggianti ed erudite. Le debuttanti si sono dimostrate, in senso rigoroso, delle "brave ragazze”, docili, graziose, corrette e versatili. La categoria include, per esempio, Patrizia Valturri. Ligia al suo ruolo di ingenua, la soda "pollastra” del film di Germi, Signore e signori, rievocava con disappunto di aver perso ventimila lire alla roulette. Patrizia come nessuna delle debuttanti vuol essere paragonata a una "maggiorata fisica”. Una star in corso di fabbricazione vuole il più possibile discostarsi dall’esempio, del resto fortunatissimo, delle "grandi” del nostro cinema, che si sono fatte strada grazie al concorso di eloquentissime anatomie. I loro archetipi sono le Hepburn, non le Loren.
«La più sbagliata idea per una debuttante è quella che racchiude tutte le sue risorse nei limiti delle esibizioni fisiche », mi spiegava il manager della Minazzoli, una giovane che sembra non sia sprovvista di arte drammatica. Anche Patrizia Valturri non è priva di attitudini alla recitazione. A Cannes non la si è mai vista in costume da bagno. Disdegna le brigate. Improvvisamente bamboleggia, il che contrasta con i suoi grandi e seri occhi. Andrà lontano, immagino, proprio perchè è risentita, caparbia, chiusa, decisa a fare tutto da sè, a cominciare dalle sue pose di ragazza ipersensibile.
Il declino della stellina sprovveduta con la sua tenacia spesso senza speranza, appare moralisticamente confortante. Il cinema chiedeva loro molto più di quanto non desse. Insorge ora la domanda: come nasce oggi una stella? Niente di più facile che rispondere a questa domanda dal momento che lo star-system non ha più segreti e compie le sue operazioni sotto gli occhi di tutti. Dove una volta la genesi di una diva era per lo più ricostruita ”a posteriori” (dalla gallina all’uovo), per via di congetture più o meno fantastiche; oggi la si coglie sull’atto. come nella cruda luce di un laboratorio scientifico. Si veda il caso — in Francia — di Mireille Dare, della quale non sappiamo ancora se sarà una grande stella; ma sappiamo bene che nasce, sotto la spinta di una volontà collettiva che vuole che essa nasca.
Il cinema si è perfettamente uniformato al secolo della scienza e della tecnica. I divi oggi sono prefabbricati; il cinema tratta freddamente o respinge quello che sente non appartenergli o che appartiene. in senso troppo generale, al cinema della vita. Ora il modello è Julie Christie che nel volgere di due anni è arrivata ad occupare le prime posizioni nella graduatoria delle attrici più j popolari e che si è permessa di fare quello che neppure a Jeanne Moreau è ì concesso: disertare la serata, quella del Dottor Zivago, film del quale è la principale protagonista. Ha respinto tutti gli appelli non desiderando interrompere la sua vacanza ?in Grecia
Per non essere oscurate dal suo fulgore, molte attrici di recente fama hanno disdetto il viaggio a Cannes. Così Catherine Spaak e così Mireille Dare, la quale si è messa sulla scia di Brigitte Bardot di cui è pronta a prendere l’eredità. Mireille è apparsa ad Antibes, all’Eden Roc ma non ha toccato la Croisette. Molte attricette hanno invece ricevuto l’ordine di essere molto alla mano, prive dell’alone mitico che circonda con patente artificio, le grandi "veneri” della celluloide, e di fare sfoggio di cultura. Così Monique de Longeville dice di essere una lettrice di Ovidio e di trascorrere pomeriggi estatici ascoltando Mozart.
Evidentemente la creazione di una diva richiede, ora, la cultura; l’aspetto saliente della "maggiorata” è stato sempre l’ignoranza. Edgar Morin, il sociologo francese specializzato nello studio delia psicologia cinematografica, ha sostenuto a Cannes che l’inaccessibilità mitologica di alcune dive contemporanee è motivata dall’incoltura. Le stars, come Sofia Loren, Audrey Hepburn, si renderebbero inaccessibili e sublimi per nascondere la loro patente ignoranza. E’ un’ipotesi un po’ azzardata e paradossale, che non ci trova dei tutto d'accordo; ma è un fatto che le nuove leve del cinema, per tenere un comportamento esattamente contrario a quello delle grandi stars, si sforzano di apparire intelligenti e colte. Non aspirano a un prestigio immortale e si circondano di tutte le caratteristiche della donna moderna.
La star-pilota è Julie Christie che ha recitato Shakespeare, che cita Dylan Thomas, legge Salinger e disprezza la Sagan. Per diventare dive è dunque oggi più diffìcile; bisogna saper parlare di Bela Bartok («E’ pieno di un rigore che mi completa », ha detto Christiane Carrère) e avere un volto interessante. «Meglio un viso che sia un nido di rughe, — osservava a Cannes Catherine Deneuve, — che una faccia liscia come una palla di biliardo ». Mentre le i grandi dive in carica si preoccupano delle rughe e, all’occorrenza, si fanno tirare la pelle, le nuove qua-i si le invocano.
Maurizio Liverani, «Tempo», anno XXVIII, n.22, 1 giugno 1966
Sul fascicolo 7 (luglio 1966) della rivista del Centro Cattolico Cinematografico si possono leggere due articoli dedicati a Uccellacci e uccellini, di Renato Buzzonetti e Marcello Camillucci. Il film di Pasolini viene analizzato da un punto di vista estetico e morale con molta ampiezza e rigore. Scrive Buzzonetti: «La vita dell’uomo si svolge in una sorta di altalena di sconfitte e di miserie su cui domina l'insicurezza di una condizione priva di un sicuro punto di riferimento. Se un traguardo obbligatorio esiste, questo è dato solo dalla morte. Essa sigla il film in apertura ed in chiusura ed è sempre una morte fatta di vuoto, di desolazione, di speranze bruciate per sempre.
«Da questa tematica formulata su alcune idee sufficientemente messe a fuoco e su altre più slegate e incerte, Pasolini trae il suo discorso cinematografico. Questo discorso che rinvia ad un futuro estremamente vago ogni eventuale soluzione, è la testimonianza di una scelta intellettuale e di uno stato d’animo, in cui " il razionalismo ideologico è superato dal messaggio giovanneo " o, per dirla più chiaramente, il chiuso schematismo marxista ed una interpretazione del mondo articolata sotto appiattiti orizzonti terrestri tradiscono finalmente le loro zone di cedimento sotto la spinta di un rinnovato annuncio cristiano. Alla critica dei valori lasciati alle spalle succede soltanto la delusione che traspare da tutte le parole del corvo sapiente. Ma non è lecito affermare che l'ideale del cristianesimo francescano sia stato liquidato con la medesima desolazione che ha colpito il comunismo di Togliatti. A favore del primo milita lo invito di Francesco di tornare, senza concedersi tregua, ad annunciare alle creature quel messaggio di amore cristiano, che l’Uomo dagli occhi azzurri (Paolo VI) oggi riprende con voce coraggiosa ».
Marcello Camillucci dal canto suo scrive: «... Pasolini ha scritto un apologo, se non esopiano nel gusto di un La Fontaine sliricizzato e sociologizzato, con i suoi bravi uccellini ed uccellacci... l’apologo di un deluso dall’ideologia non approdato alla fede, ancorché ne stimi teoricamente i valori; l’ideologia è stata, in tutti questi anni del dopoguerra ” ersatz ” generoso e interlocutorio della fede ma ormai ha percorso una parabola sufficiente a trarne un consuntivo e questo chiarimento negativo. Essa prometteva di colmare il vuoto delle fedi ma l’ha solo illusoriamente eccitato, perché, esaurita la facile fase ” destruens ” non è riuscita a passare più che velleitariamente a quella ” construens ».
Non ci sembra esatta la contrapposizione ideologia-fede. Anche il cristianesimo deve essere considerato — dal pensiero laico — ideologia, lasciando intravvedere così una più corretta interpretazione della «fine dell’ideologia», avanzato dal film come richiamo alla storicizzazione di un momento particolare di maturazione del pensiero moderno.
v. v., «Rivista del cinematografo», settembre 1966
Domani a St Vincent le "Grolle" del cinema
St-Vincent, 30 giugno. (a. v.)
Sabato sera a St-Vincent si assegneranno le «Grolle d'oro» per il cinema italiano. La manifestazione si svolge per la quattordicesima volta e riunirà come sempre nel salone delle feste del Casinò molte tra le figure più rappresentative dello schermo europeo. I selezionati per la Grolla al regista sono cinque soltanto: Pietro Germi con Signore & Signori, Mario Monicelli con L'armata Brancaleone, Antonio Pìetrangeli con Io la conoscevo bene, Florestano Vancini con Le stagioni del nostro amore, Marco Vicario con Sette uomini d'oro. Concorrenti temibili sono stati eliminati: il Fellini di Giulietta degli spiriti, il Visconti di Vaghe stelle dell'Orsa, lo Zampa di Una questione d'onore: fra i cinque finalisti non è arrischiato prevedere che il vincitore sia scelto tra Monicelli e Pietrangeli, con qualche probabilità maggiore per il secondo.[...] Gli altri sono: Manfredi, Moschin, Volonté e il grande Totò pasoliniano di Uccellacci e uccellini. Appunto Totò potrà essere il più pericoloso rivale di Salerno nelle preferenze dei giudici. Uccellacci e uccellini dovrebbe assicurare ad Alfredo Bini la «Coppa valdostana d'oro» per chi si è più distinto nella realizzazione di film di valore artistico.
«La Stampa», 1 luglio 1966
«L'Unità», 21 settembre 1966
Assegnati i "Nastri d'argento" - L'Oscar del cinema italiano a Pontecorvo, Lisa Gastoni e Totò
Roma, 25 gennaio.
Gillo Pontecorvo per La battaglia di Algeri, l'attrice Lisa Gastoni per Svegliati e uccidi di Lizzani (dedicato alla vicenda del bandito Lutrlng) e Totò per «Uccellacci e uccellini» di Pasolini sono stati considerati rispettivamente il migliore regista e i migliori interpreti maschile e femminile dell'anno per il cinema italiano. Hanno vinto il «nastro d'argento» dei giornalisti cinematografici, assegnato al termine di un referendum al quale hanno preso parte 191 soci del sindacato.
La battaglia di Algeri ha ottenuto altri due «nastri»: quello per il miglior produttore, ad Antonio Musu, e quello per la migliore fotografia in bianco e nero, a Marcello Gatti. Due altri film hanno avuto tre «nastri» ciascuno. Signore e signori, di Germi, ha vinto i premi per la migliore sceneggiatura, di Age, Scarpelli, Germi e Vincenzoni; e per i migliori interpreti non protagonisti, maschile e femminile; Gastone Moschin e Olga Villi. L'armata Brancaleone di Monicelli quelli per la musica, di Cario Rustichelli; per la fotografia, di Carlo di Palma, e per i costumi, di Gherardi. Uccellacci e uccellini ha fatto vincere un secondo «nastro» a Pier Paolo Pasolini, giudicato l'autore del migliore soggetto, originale. Un ultimo «nastro» è andato a La Bibbia: quello per la scenografia tds di Mario Chiari. Il premio per il migliore film straniero è stato assegnato a Un uomo, una donna, di Leiouch.[...]
«La Stampa», 26 gennaio 1967
Lo spoglio delle schede del secondo referendum per i «Nastri d'argento 1967» fra i soci del Sindacato nazionale dei giornalisti cinematografici italiani ha dato, su 191 votanti, i seguenti risultati definitivi: [...] migliore attore protagonista: Totò per Uccellacci e uccellini; [...] La battaglia di Algeri ha superato Uccellacci e uccellini, suo diretto rivale nella finalissima per il «nastro» più prestigioso: quello al regista. Pontecorvo, dunque, ha battuto Pasolini sul filo d'arrivo. Nulla da eccepire. In una annata particolarmente nera per il cinema italiano, erano i due film che distanziavamo di diverse lunghezze tutti gli altri. Gli altri. anzi, sono stati fin troppo largamente nominati nei premi successivi. [...] Ma che la sceneggiatura a otto mani di Signore e signori, cosparsa di battute volgari e pesanti, sia stata preferita a quella pasoliniana per Uccellacci e uccellini, così ricca di tensione ideologica e poetica è - diciamolo francamente - un brutto segno di bruttissimi tempi. [...] Con queste considerazioni non vogliamo affatto sminuire le affermazioni ottenute dagli autori della Battaglia di Algeri o da Pasolini, né quelle di attori come Totò e Gastone Moschin che sono meritatissime. [...]
U.C., «L'Unità», 26 gennaio 1967
Nastri d'argento 1967: assegnati i premi
Roma, 25 gennaio.
Lo spoglio delle schede del secondo referendum per i «Nastri d'argento 1967» fra i soci del sindacato nazionale dei giornalisti cinematografici italiani, ha dato, su 191 votanti, i seguenti risultati definitivi: Regista del miglior film: Gillo Pontecorvo per La battagliai di Algeri; miglior produttore: Antonio Musu per La battaglia di Algeri: miglior soggetto originale: Pier Paolo Pasolini per Uccellacci e uccellini; migliore sceneggiatura: Age, Scarpelli, Germi e Vincenzoni per Signore e Signori; migliore attrice protagonista: Lisa Gastoni per Svegliati e uccidi: migliore attore protagonista: Totò per Uccellacci e uccellini: migliore attrice non protagonista: Oiga Villi per Signore & Signori: migliore attore non protagonista: Gastone Moschin per Signore & Signori; migliore musica: Carlo Rustichelli per L'armata Branca-leone: migliore fotografia in bianco e nero: Marcello Gatti per La battaglia di Algeri: migliore fotografia a colorì: Carlo Di Palma per L'armata Brancaleone: migliore scenografia: Mario Chiari per La Bibbia: migliore costumista: Piero Gherardi, per L'armata Brancaleone: regista del miglior film straniero: Claude Lelouch per Un uomo, una donna.[...]
«Corriere della Sera», 26 gennaio 1967
Miglior soggetto originale: PIER PAOLO PASOLINI per «Uccellacci e uccellini»
Miglior attore protagonista: TOTO' per «Uccellacci e uccellini»
I premi saranno consegnati lunedi 30 gennaio al Teatro Comunale di Firenze nel corso di una manifestazione che comprenderà anche la proiezione in anteprima nazionale del film di Charlie Chaplin La contessa di Hong Kong. La segreteria del sindacato precisa che alla manifestazione saranno ammessi soltanto gli invitati. Verranno raccolte offerte il cui ricavato sarà a totale beneficio del comitato per il restauro delle opere d’arte danneggiate dall'alluvione.
«Corriere dell'Informazione», 26-27 gennaio 1967
L'ultimo film di Chaplin stasera per i "Nastri d'argento"
Firenze, lunedì mattina.
I «nastri d'argento» saranno consegnati al Comunale di Firenze, in una manifestazione di beneficenza per gli alluvionati. Nel corso della serata sarà proiettato, in anteprima per l'Italia, La contessa di Hong Kong, l'ultimo film di Cliarlie Chaplin, con Sophia Loren e Marion Brando. Quanto ai premiati, Gillo Pontecorvo per La battaglia di Algeri, l'attrice Lisa Gastoni per Svegliati e uccidi di Lizzani (dedicato alla vicenda del bandito Lutring) e Totò per Uccellacci e uccellini di Pasolini sono stati considerati rispettivamente il migliore regista e i migliori interpreti maschile e femminile dell'anno per il cinema italiano. Hanno vinto il «nastro d'argento » dei giornalisti cinematografici, assegnato al termine di un referendum al quale hanno preso parte 191 soci dei sindacato. [...]
«Stampa Sera», 30 gennaio 1967
(Dal nostro inviato speciale) Firenze, 30 gennaio.
Le feroci stroncature, con cui il nuovo film di Charles Chaplin era stato accolto a Londra, avevano fatto temere che la presentazione in anteprima nazionale della Contessa di Hong Kong in occasione della consegna dei «Nastri d'argento» del cinema italiano, potesse addirittura, stonare con il carattere della cerimonia, che non è soltanto mondano, e tanto meno lo sarebbe stato qui a Firenze ancora dolente per incolpi deli alluvione, ma soprattutto culturale. Il diavolo non è mai cosi brutto come lo si dipinge: se La contessa di Hong Kong non è quel capolavoro proclamato dal suo irascibile autore, è un film di tutto rispetto e, si rassicuri lo spettatore comune, non è difficile prevedere che piacerà al pubblico. Come appunto si proponeva. [...] Prima si è svolta la consegna dei «Nastri d’argento» che ogni anno tutti i soci del Sindacato giornalisti cinematografici attribuiscono ai migliori film con una duplice votazione e che costituiscono il riconoscimento più importante e più attendibile per il cinema nazionale.
Assenti soltanto, per cause di forza maggiore, Gastone Moschin, «nastro» per il migliore attore non protagonista con Signore e signori, e lo scenografo Mario Chiari, premiato per La Bibbia, sono saliti sul palcoscenico Gillo Pontecorvo e Antonio Musu, regista e produttore della Battaglia di Algeri, Lisa Castoni, migliore attrice protagonista con Svegliati e uccidi, l'intramontabile Totò, migliore attore protagonista con Ucccllacci e uccellini.
Paolo Pasolini, premiato lo stesso film, Olga Villi attrice non protagonista in Signore e signori insieme con gli sceneggiatori di questo film, gli operatori Marcello Gatti e Carlo Di Palma, premiati rispettivamente per La battaglia di Algeri e L’armata Brancaleone, e infine il musicista il costumista di questo film (Carlo Rustichelli e Piero Gherardi). [...].
Alberto Blandi, «La Stampa», 31 gennaio 1967
Consegnati i «Nastri» dell'annata di magra
Pontecorvo, Totò e Lisa Gastoni al vertice dei riconoscimenti In anteprima eccezionale «La contessa di Hong Kong» di Chaplin
Firenze, 30
Avevamo lasciato il «Comunale» di Firenze nei giorni della tragica alluvione di novembre: un mare di fango in platea, poltrone sfasciate, gli strumenti sventrati. Lo abbiamo ritrovato questa sera, sfolgorante di luci, immerso in un’atmosfera lietamente festosa, fra attrici sorridenti e «toilettes» eleganti. La volontà di Firenze è grande quanto la sua sfortuna. Ha fatto perciò benissimo il sindacato dei giornalisti cinematografici italiani a scegliere il capoluogo toscano quale sede della tradizionale cerimonia di consegna dei massimi riconoscimenti della celluloide nostrana: i «nastri d’argento». Non è stato facile, quest’anno, scegliere i film da premiare. E non certo per l’imbarazzo della scelta fra due o più capolavori, bensì per la ragione opposta: la scarsità delle pellicole appena appena superiori al più mediocre livello artigianale. Non si trattava, come in anni più o meno recenti, di preferire «Rocco» alla «Dolce vita» o «Il Gattopardo» a «Otto e mezzo». I cinque film che si sono disputati quest’anno il massimo alloro sono: «La battaglia di Algeri» di Pontecorvo, «Uccellacci e uccellini» di Pasolini, «Signore e signori» di Germi, «Svegliati e uccidi» di Lizzani e «Le stagioni del nostro amore» di Vancini. Non c’è da star troppo allegri, com’è evidente. I vecchi «leoni», quando non hanno taciuto, sono crollati miseramente. I giovani non sempre hanno denti aguzzi e troppo spesso belano invece di ruggire. La prossima stagione scenderanno in lizza — cercando di distinguersi un po’ dalla pletora degli «horror», dei «western», dei «sexy» — nomi altisonanti: Visconti («Lo straniero») e Fellini («Mastoma»), Rosi («C’era una volta») e Zeffi-relli («La bisbetica domata»), Zurlind («Finzi-Contini») e Germi («A ciascuno il suo»), Bellocchio («La Cina è vicina») e Lattuada («Don Giovanni involontario»), Antonioni («Blow-up)» e forse Giorgio Strehler, al suo annunciato debutto; che le cose vadano un po’ meglio?
Comunque sia, non affliggiamo col nostro pessimismo la cronaca di una serata di premiazioni, che è sempre festosa. Pontecorvo l’ha giustamente spuntata sui suoi diretti rivali, cogliendo un ambito «bis» (Leone d’oro e «nastro») e facendo assegnare anche ad Antonio Musu il premio per il miglior produttore, che molti votanti avrebbero voluto andasse a Dino De Laurentiis per il supercolosso «La Bibbia». Plebiscitarie come mai gli anni scorsi le votazioni per i due migliori attori: Lisa Gastoni, bella, sensibile, intelligente rivelazione del film su Lutring e, l’intramontabile Totò, protagonista dell’apologo pasoliniano. I grossissimi nomi, Claudia e Sofia, Gina e Vima, Vittorio e Alberto, Marcello e Ugo, completamente ignorati: chi di loro ha prestato la propria attività all’estero, chi s’è fatto doppiare, chi infine avrebbe fatto meglio a concedersi una breve vacanza.
Indovinata anche la scelta del film da proiettare subito dopo la cerimonia: «La contessa di Hong Kong», ultima fatica di Charlie Chaplin, protagonisti Sofia Loren e Marion Brando. Stroncata quasi senza eccezioni a Londra, abbastanza maltrattata anche a Parigi, la commediola (in cui Chaplin usa per la prima volta il colore) ha incontrato questa sera accoglienze miglioiri, anche se non eccezionali. Il pubblico ha calorosamente applaudito, dando segni d'essersi divertito e d'aver apprezzato la garbata ironia della vicenda, il suo delicato sentimentalismo, la interpretazione degli attori principali (una Sofia Loren in gran forma, negli abiti da sera scollatissimi come nei buffi pigiama, un onesto Brando, un convincente Sidney Chaplin, due formidabili caratteristi come Patrick Cargill e Margaret Rutheford). Più discordi, com’era logico prevedere, le reazioni della critica. Attendendo l'uscita del film sugli schermi nazionali, abbiamo ritenuto interessante avvicinare tre inviati di altrettanti quotidiani nazionali, cogliendo le loro impressioni «a caldo», immediatamente dopo la proiezione riservata alla stampa.
Alberto Blandi («La Stampa» di Torino) ci ha dichiarato: «"La contessa di Hong Kong” non è certo il capolavoro di Chaplin come lui sostiene: ma è senza dubbio un film di tutto rispetto, che certo divertirà, come si proponeva. Ma soprattutto è in tutto un film di Chaplin, nello spirito e nella forma, anche se il suo autore vi compare appena, in una parti-cina inconsistente». Più cauto il parere di Sergio Frosali («La Nazione» di Firenze: «Sono piuttosto perplesso a una prima visione del film, perchè apparentemente si possono riconoscere molte tipiche componenti chapliniane : ma a ben considerare, c’è un grosso equivoco fra la "lettura” apparente del film, la sua chiave tematica e la forma attraverso la quale essa viene espressa». Dal canto suo, Dino Biondi («Il Resto del Carlino», Bologna) cosi s’è espresso: «Mi rendo conto che i "fanatici” di Chaplin possono non riconoscere l’unghiata del grande autore di "Lime-light". Ma fa veramente un grande piacere, in un’epoca dominata dall’imperante moda del cinema della violenza e del sesso, riscoprire una cinematografia dalla delicata vena poetica, garbata e pulita. Non a caso, questa sera viene premiato, quale miglior film straniero, "Un uomo, una donna”, pellicola di un giovane per molti aspetti analoga a quella del vecchio Charlot».
Il Sottosegretario al Turismo e Spettacolo, on. Sarti, ha premiato i vincitori. Tutti presenti, ad eccezione di Moschin (trattenuto in Jugoslavia dalle riprese di un film, di Mario Chiari, miglior scenografo («La Bibbia»), a New York per impegni di lavoro e di Claude Lelouch (miglior film non italiano: «Un uomo, una donna»). C’erano Pontecorvo, Mtisu, ia Gastoni, Totò, Olga ViUd (miglior attrice non protagonista, in «Signore e signori»), Pasolini (miglior soggetto originale), Marcello Gatti (fotografia in bianco e nero per «La battaglia di Algeri»), Carlo Di Palma (fotografia a colori per «L'armata Brancaleone»), Carlo Rustichelli (commento musicale per «L’armata Brancaleone»), Piero Gherardi (costumi de «L’armata Brancaleone). Teatro stracolmo. In un primo tempo si voleva fissare un prezzo d'ingresso, e devolvere il ricavato dell’incasso in beneficenza. Poi s’è preferito invece distribuire gratuitamente gli inviti. In platea e nel «foyeur» alcune graziose e gentili attrici (notate, fra le altre, Annabella Incontrerà, Gabriella Pallotta, Valeria Ciangottini e Luisa Rivelli) raccoglievano offerte per il fondo pro-alluvionati. Al termine della serata, il ricevimento nei sontuosi saloni del Circolo Borghese ha concluso in bellezza la manifestazione. In un anno di magra, il cinema italiano ha celebrato ugualmente la sua festa.
Giorgio Polacco, «Il Piccolo», 31 gennaio 1967
(Dal nostro inviato speciale) Firenze, 30 gennaio.
Anche il cinema, come già il teatro, ha consacrato la rinascita di Firenze. Tutti ricordano in quale commovente atmosfera si riapri, a poche settimane dall'alluvione, il teatro Comunale. Una analoga festa si è svolta stasera, nello stesso Comunale, a platea restaurata (ormai manca soltanto di rifare il pavimento), in occasione della consegna dei « Nastri d'argento ».[...] Poiché al contrario altri « Nastri » hanno raggiunto senza fallo il destinatario (quello a Pasolini per il soggetto, a Lisa Gastoni e Totò per gli attori protagonisti, a Moschin per l’attore non protagonista, a Rustichelli per la musica, a Marcello Gatti per la foto In bianco e nero, a Carlo Di Palma per la foto a colori, a Mario Chiari per la scenografia, a Piero Gherardl per i costumi), c’è da dedurre che un certo equivoco una certa confusione di idee, sussiste anche nel campo della stampa cinematografica. Può darsi, come d'altronde si ripete da anni, che i « Nastri » godrebbero di maggiore prestigio, e sarebbero ispirati a un metro più rigoroso, se ad assegnarli fossero soltanto coloro che professano la critica.
La cerimonia di stasera è stata molto simpatica. Il teatro Comunale, addobbato di garofani, era gremito. Dopo il saluto di Pietro Bianchi, presidente del sindacato, hanno parlato l’onorevole Sarti, sottosegretario allo spettacolo, e il sindaco di Firenze, Bargellini, che ha provocato un'alluvione di applausi. Lello Bersanl ha chiamato sul palcoscenico vincitori (tutti presenti, salvo Moschin, Chiari, Germi, Vincenzonl, Lelouch). Particolari e commosse ovazioni ha avuto il caro, vecchio Totò. Domenico Meccoli ha annunciato che il «Nastro d’argento » per il cortometraggio è stato conferito ad Ansano Glannarelll e Piero Nelli, autori di un Diario di bordo ambientato in un peschereccio oceanico. Miglior casa produttrice di cortometraggi è stata giudicata la Relac. Attestati di merito a Bruno Bozzetto. Franco Taviani. Giuseppe Ferrara, Mario Carbone e Ubaldo Morelli. Infine sono stati letti i risultati del concorso indetto dal sindacato giornalisti cinematografici fra cineamatori per un documentario sull'alluvione di Firenze. Su venticinque concorrenti, si è imposto Alfonso Aliboni, cui sono andate trecentomila lire. Un premio speciale di centomila lire ha vinto Gino Brandi. Segnalati Alberti e Mario Di Martino.[...]
Giovanni Grazzini, «Corriere della Sera», 31 gennaio 1967
Cinecittà sull'Arno - E' stata, soprattutto, la serata di Totò
Firenze, 31 gennaio.
Nastri d'argento sull’Arno, che da qualche mese di argento ha ben poco. Telecamere al Teatro Comunale, ancora un po' sottosopra per le conseguenze dell'alluvione (il cui incredibile livello è testimoniato da bianche targhette poco sotto i palchi) per la consegna degli «Oscar italiani». assegnati mediante rigoroso referendum dal Sindacato nazionale giornalisti cinematografici.
Pubblico foltissimo, elegante, impegnato, come sempre avviene in queste occasioni, nella caccia al volto noto. Cerimoniere, il solito Lello Bcrsani. Si è cominciato con un discorso del presidente del Sindacato giornalisti cinematografici. Pietro Bianchi, che ha volute sottolineare il significato della scelta della sede fiorentina; poi l'onorevole Sarti, sottosegretario allo Spettacolo, ha espresso parole di plauso per il cinema italiano. Bargellini, «sindaco storico», come lo ha definito Bersani, ha portato naturalmente il saluto di Firenze. E' quindi cominciata la sfilata dei premiati.
Gli applausi più vibranti sono andati a Totò, premiato per la sua interpretazione di Uccellacci e uccellini. E il principe (la questione del titolo è stata abilmente risolta dall'attore che all’intervistatore in difficoltà ha concesso l'uso del «tu»), pur abituato alle ovazioni, un po’ si è commosso.[...]
Laura Griffo, «Corriere dell'Informazione», 31 gennaio - 1 febbraio 1967
Nastri d'Argento: bis di Pontecorvo
Dei nastri d’argento ’65, assegnati a Firenze, nel restaurato Teatro Comunale, si dovrà dire innanzitutto che hanno costituito un avvenimento cinematografico di notevole portata. Non era successo gli anni precedenti e si è trattato dunque di un passo avanti. La festa del cinema italiano? A questo, veramente, non siamo ancora arrivati. Il cinema italiano è troppo diviso e occupato, non si sa a far che, per celebrare feste unitarie. Chi non è stato premiato, magari perché non aveva fatto film, si guarda bene dall’andare ad applaudire i colleghi; sembra ritenere un premio assegnato non a lui come una personale offesa, o almeno una grave scortesia. In occasione degli oscar americani, i premiati dell’anno precedente sono solici consegnare la statuetta d’oro ai nuovi vincenti, e cosi facendo valorizzano ulteriormente se stessi, testimoniano una continuità (che magari non esiste) di quel premio e del suo valore. In Italia abbiamo abitudini cinematografiche diverse, e peggiori.
L’avvenimento, però, c’è stato. Per la scelta di Firenze, intanto e poi, e soprattutto, per la proiezione del film di Chaplin, La contessa di Hong-Kong. Che si trattasse di un fatto di grande rilevanza artistica è risultata speranza infondata, ma l’interesse, ovviamente, non poteva mancare e non è andato 'nemmeno interamente deluso. Altri, e ampiamente, hanno riferito su questo. A noi spetta commentare i premi, i nastri, nastri magri, per ima annata magra, per un cinema stanco, impegnato, e talvolta vantaggiosamente, a far soldi attraverso strade che con la creazione cinematografica hanno solo vaghi punti di contatto.
Non c’era molto da scegliere e quindi non c’era molto da sbagliare. Giovani registi da segnalare, com’era accaduto l’anno precedente con Bellocchio, non ce n’erano. C’era da confermare, invece, un verdetto discusso, quello veneziano. E Firenze lo ha fatto assegnando a La battaglia di Algeri il nastro per il miglior film. E’ una decisione giusta che premia una opera salda, di buona ispirazione e di egregia fattura. Né il Blasetti di lo, io, io... e gli altri, né il Pasolini di Uccellacci e uccellini potevano contendere il passo al film di Pontecorvo. Più misterioso e discutibile il secondo premio assegnato ad Algeri, quello del miglior produttore. Bravo, sicuramente, Antonio Musu a condurre in porto ima impresa così ampia in un campo cinematografico, quello algerino, vergine o quasi, ma non si poteva, a nostro avviso, dimenticare, che quel film è stato realizzato oltremare e con quasi assoluta prevalenza di capitali stranieri. Altro produttore, De Laurentiis, utilizzando anch’esso capitali stranieri, li fece affluire in Italia, per La Bibbia, e diede con essi lavoro a maestranze italiane. Se i nastri devono difendere non solo le glorie del nostro cinema, ma anche il suo lavoro (almeno nel caso del premio al miglior produttore) i giornalisti italiani potevano, e anzi dovevano tener presente questo criterio, e premiare il produttore di un film realizzato in Italia. Tra l’altro, evidentemente, l’ampiezza di impegno della Bibbia e i suoi lodevoli risultati avrebbero giustificato pienamente la scelta.
Attori protagonisti: un volto nuovo e un volto popolarissimo: quello di Lisa Gastoni per Svegliati e uccidi, quello di Totò per Uccellacci e uccellini. Valga il primo come augurio e incoraggiamento, ma non, per ora, come consacrazione di una grande attrice, valga il secondo come testimonianza d’affetto di stima e di riconoscenza a un attore che onora il cinema italiano e che, quando gli si presenta l’occasione, è sempre pronto a dimostrarsi giovane, ad affrontare ruoli nuovi e impegnativi, a correre dei rischi, e a superarli. In un cinema prevalentemente occupato a copiare se stesso, o il cinema altrui, la figura di Totò è non solo quella di un grande attore ma anche quella di un valoroso esempio.
Più ovviamente, e modestamente, per gli attori non protagonisti. Modesta la prestazione della Villi e appena un gradino più su quella di Moschin, premiati ambedue per Signore e signori, il film di Germi che ha ottenuto anche il premio per la migliore sceneggiatura. Non è il suo film migliore, testimonia, nell’occasione, il talento più che lo spirito creativo, ma è comunque, e in un campo non ampio, un’opera di tutto rispetto. Il premio per il miglior soggetto è andato a Pierpaolo Pasolini, per Uccellacci e uccellini. Dispiace, certo, che non sia andato a Blasetti, a tutt’oggi una delle figure più significative del nostro cinema, ma conforta d’altro canto che un nastro (e due con quello di Totò) vadano a sottolineare la presenza di un film discusso e discutibile, ma che si eleva nettamente dalla media del nostro cinema per il suo dibattere problemi ideologici e spirituali troppo spesso, o quasi sempre, assenti nei panorama del film italiano.
Nastri per i costumi, musica e fotografia a colori sono andati a L’armata Brancaleone, scenografia a La Bibbia (un po’ pochino e per i motivi già esposti). Fotografia in bianco e nero a Carlo di Palma per La battaglia di Algeri, e l’occasione era buona, invece, per inserire nella rosa dei premiati, e senza ingiustizie per quanto riguarda questo aspetto, Un uomo a metà di Vittorio De Seta.
Resta da parlare del miglior film straniero. E qui la sorpresa non è mancata. C’era il piccolo capolavoro di un maestro, Gioventù, amore e rabbia di Richardson, c’era un’opera fresca e acuta di Forman, Gli amori di una bionda, e un paese, la Cecoslovacchia che sembra aver sostituito sul piano dell’invenzione e della novità, il ruolo tenuto sul mercato internazionale dall’Italia per molti anni. Si è scelto invece, chissà perché, un’operina solo elegante, Un uomo, una donna, che già a Cannes aveva ottenuto un premio largamente superiore ai suoi meriti. I giornalisti italiani, dunque, accusati di arido intellettualismo, si commuovono davanti a una manierata storiellina d’amore. Denotando se non proprio capacità critica almeno una commovente ingenuità di sentimenti.
Questo il quadro; avrebbe potuto forse essere più attento, ma non molto diverso. La botte dà il vino che ha, e i nastri premiano i film che ci sono. Speriamo che l’anno prossimo ce ne siano di più e migliori.
P. V., «Rivista del Cinematografo», marzo 1967
I Globi d'oro a Germi, a Totò e a Lisa Gastoni
Il Globo d’oro per il 1966 ha premiato, nel corso di una serata di gala svoltasi al Cinema Fiamma, il regista-autore Pietro Germi e gli attori Totò e Lisa Gastoni. Serata elegante, organizzata dall’associ azione della stampa estera in Italia, sotto gli auspici dell'Associazione nazionale industrie cinematografiche e affini (Anica) e dell'Unitalia film, in collaborazione con l’ente premio «David di Donatello ».
L’iniziativa della manifestazione, dunque, è dovuta alla associazione della stampa estera che ha sempre mostrato un vivo e attento interesse per il cinema italiano. Il Globo d’oro venne creato nel 1960.
Da allora, ha avuto cinque edizioni, ma quest’anno si è triplicato, giacché il premio è stato assegnato non soltanto al film giudicato migliore del 1966, bensì anche al migliore interprete maschile e alla migliore interprete femminile dell'anno. Ecco, dunque, attraverso un referendum fra centodieci soci dell’associazione particolarmente interessati al cinema ed iscritti pertanto alle votazioni per l’attribuzione del premio, il Globo d’oro assegnato a Pietro Germi per Signore e signori, a Totò per la sua interpretazione in Uccellacci e uccellini, a Lisa Gastoni per la sua interpretazione in Svegliati e uccidi.[...]
«Corriere della Sera», 21 marzo 1967
2002 - Les film de Pierpaolo Pasolini - Des oiseaux petit et grands |
Sulla scena il burattino in frac
“Uccellacci e uccellini” lo scrittore gli aveva affidato il ruolo di un personaggio innocente fuori dalla storia e dalla politica, strappandolo all'immagine di aggressiva volgarità alla quale l’aveva consegnato il cinema italiano degli anni cinquata senza capirne la bontà, l'estrema saggezza, il distacco dalle cose.
Pasolini, in molte sale cinematografiche si proiettano i vecchi film di Totò. Siamo di fronte a un recupero? Possiamo tentare una analisi di questo fenomeno?
« Il recupero dei film di Totò mi sembra puramente casuale, non ha altro senso se non quello di riproporre alla volgarità degli anni settanta la volgarità degli anni cinquanta. Sono sicuro che i film che ha fatto Totò durante gli anni cinquanta sono tutti orribili, squallidi e volgari. Non per colpa sua, perché in questo caso bisogna ipotizzare una distinzione assolutamente netta, precisa, tra autore del film ed attore. In quanto attore Totò si è autocreato ed è vissuto autonomamente ma i film che ha fatto sono oggettivamente brutti.
E allora che senso ha riproporli?
« Infatti: questo dimostra che sostanzialmente nulla è cambiato, ed anzi probabilmente quanto a volgarità e sotto-cultura gli anni settanta non hanno da invidiare agli anni cinquanta. Voglio dire, in realtà non c’è stato un caso Totò negli anni cinquanta. Negli anni cinquanta Totò è stato uno dei tanti prodotti, delle tante merci che si sono consumate quasi senza accorgersene. Non è stato un caso di cultura, perché negli anni cinquanta c’erano altri problemi, altri casi, molto più interessanti, più vivi, più reali, anche se, come tutte le cose umane, superati. Invece oggi, negli anni settanta Totò è una scoperta, una scoperta che ha carattere di una scoperta cosiddetta culturale. Per me non lo è, significa che negli anni settanta si sono scatenate delle forze, degli interessi che erano rimasti sopiti allora e che esplodono adesso ».
Nel suo film, « Uccellacci e uccellini », lei ha usato questo personaggio per quello che era, un piccolo borghese che non vede la storia che gli passa vicino...
« No, nel mio film ho scelto Totò per la sua natura doppia: da una parte c’è il sottoproletario napoletano e dall’altra c’è il puro e semplice clown, cioè un burattino snodato, l'uomo dei lazzi, degli sberleffi. Queste due caratteristiche insieme mi servivano a formare il mio personaggio ed è per questo che lo ho usato. Nel film non si presenta come piccolo borghese, ma si presenta come proletario, sottoproletario, lavoratore. E il suo non accorgersi della storia è il non accorgersi della storia dell’uomo innocente, non del piccolo borghese che non vuole accorgersene per i suoi miseri interessi personali e sociali ».
C’è stato un particolare apporto di Totò, oppure l'attore «è piegato a una sceneggiatura di ferro?
«E* difficile fare questa distinzione perché io uso attori e non attori ma, praticamente mi comporto con loro allo stesso modo. Cioè li prendo per quello che sono, non mi interessa loro abilità, se prendo un attore lo prendo per quello che è. Mettiamo Ninetto Davoli: non era attore quando ha cominciato a recitare con Totò, e l'ho preso per quello che lui era, non ne ho fatto un altro personaggio. La stessa cosa ho fatto per Totò. Naturalmente un attore porta in questa operazione la sua coscienza e quindi può essere usato proprio per la realtà che lui è. Molte volte non accetta, resiste, ma sostanzialmente il risultato finale espressivo non tiene conto degli apporti professionali dell'attore, ma di quello che lui è "anche" in quanto attore ».
Ma Totò uomo era forse un personaggio completamele diverso, prendiamo per esempio quella suo goffa ansia di nobiltà...
Ma no, quella sua ansia di nobiltà è molto ingenua! Quando io dico prendo una persona per quella che è, intendo soprattutto come uomo. Nel fondo di Totò c’era una dolcezza, un atteggiamento buono, e al limite qualuinquistico, ma di quel qualunquismo napoletano che non è qualunqulismo, bensì innocenza, distacco dalle cose, estrema saggezza, decrepita saggezza. Quindi, quando dico Totò nella sua realtà intendo dire nella sua realtà di uomo, ed aggiungo "anche” di attore».
Come mai, in « Uccellacci e uccellini », per trovare un antagonista ad un intellettuale di sinistra in crisi lei ha scelto proprio questo tipo di personaggio già codificato nel qualunquismo?
« La mia ambizione era proprio quella di strappare Totò dal codice, cioè di decodificarlo. Come era il codice attraverso cui uno poteva interpretare Totò allora? Era il codice del comportamento dell’infimo borghese italiano, dell'infima borghesìa portata alle sue estreme espressioni di volgarità e di aggressività. di inerzia, di disinteresse culturale. Totò. innocentemente, faceva tutto questo, vivendo parallelamente (attraverso quella dissociazione di cui parlavo prima) un altro personaggio che era al di fuori di tutto questo. Però il pubblico lo interpretava attraverso questo codice. Ed allora io per prima cosa ho cercato di passare un colpo di spugna su questo modo di interpretare Totò ed ho tolto tutta la sua cattiveria, tutta la sua aggressività, tutto il suo teppismo, tutto il suo fare sberleffi alle spalle degli altri. Questo è scomparso completamente dal mio Totò. Il mio Totò è quasi tenero, e indifeso come un implume, è sempre pieno di dolcezza, di povertà fisica, direi, non fa le boccacce dietro a nessuno. Sfotte leggermente qualcuno ma come qualche altro potrebbe sfottere lui. perché è nel modo di comportarsi popolare il desiderio di sfottere qualcuno... ma è una sfottitura leggera e mai volgare. Quindi come prima cosa ho cercato di decodificare Totò, avvicinandomi il più possibilmente alla sua vera natura che veniva fuori in quel modo strano che dicevo. Una volta fatto questo, l’ho opposto in quanto antagonista all’intellettuale marxista ma borghese. Ma è un antagonismo che non sta in Totò o nel corvo che fa l’intellettuale, sta nelle cose. Insomma ho opposto un personaggio innocente, fuori dall'interesse politico immediato, cioè fuori dalla storia, a chi invece fa della politica il suo vero e profondo interesse e vive in quella che lui crede essere la storia. Cioè ho opposto esistenza a cultura, innocenza a storia ».
Nelle prime cose di Totò qualcuno ha visto un certo legame con l’avanguardia, per esempio con il futurismo.
« L'avanguardia nasce sempre come un'élite battagliera, paradossale e scandalosa, ma poi la sua prima preoccupazione è quella di annettersi il più possibile epigoni e fonti. Il caso Totò mi sembra una di queste operazioni tipiche dell'avanguardia per allargare il proprio dominio territoriale. Si, si può dire che Totò, il sue modo di essere, di presentarsi, di esprimersi fisicamente, ha qualcosa di avanguardistico in senso lato e cioè ha se non altro l'estraniamento: si stacca dalle cose, dal mondo degli altri e costruisce questa specie di marionetta che nor ha quell’interezza umana tipici dell'arte classica, semmai è tipici dell’avanguardia ».
E l’uso del dialetto?
Il rapporto di Totò con il dia letto è molto realistico. Probabilmente decise fin dalle origini di non essere un attore dialettale napoletano. come per esempio Eduardo De Filippo, e i tipici attori dialettali. Ha voluto essere un attor dialettale di origine napoletano ma non strettamente napoletano.
E cioè la sua lingua è stata un specie di mimesi del dialetto del modo di parlare del meridionale emigrato in una città burocratica come Roma. E allora ecco gli inserti di lingua burocratica di lingua militaresca, dei vari gerghi del parlare comune, quello sportivo per esempio. Ma nell’uso che io ho fatto di Totò ho eliminato tutto questo. Ho eliminato parole dette tra virgolette, le citazioni burocratiche, militaresche e sportive, e gli ho dato un linguaggio che se non è il linguaggio corrente dialettale napoletano o romano è un misto dei due. E' una lingua che può parlare un emigrato meridionale che non vive più al sud da venti o trenta anni quindi ha perso le sue caratteristiche linguistiche mescolando con le nuove ».
«La Repubblica», 3 agosto 1976
«L'Unità», 6 ottobre 1984 - Ninetto Davoli
Inedito su «Uccellacci e uccellini» - Totò critico verso Pasolini
«L'impegno ammazza la comicità», parola di Totò. Per questo l’attore napoletano non si sarebbe piaciuto in «Uccellacci e uccellini», il film di Pasolini uscito nel ’66, poco prima della scomparsa del principe Antonio de Curtis, in arte Totò. Lo si viene a sapere solo ora, in un'appendice al suo diario semiserio del ’51, «Siamo uomini o caporali?», ripubblicato da Newton Compton con alcuni inediti a cura della figlia Liliana. «E’ un ottimo film, ma contiene un messaggio sociale e questo non mi va — si legge a proposito della pellicola di Pasolini nel capitolo «Il Totò pensiero» dove sono stati raccolti da Liliana De Curtis appunti e annotazioni del padre fra il ’55 e il ’67 —. L’impegno ammazza la comicità. Se una battuta ha un doppio o triplo significato perde la spontaneità. Il pubblico per capirla è costretto a riflettere e così non si diverte più».
Totò pentito di aver lavorato con Pasolini? Enzo Siciliano, lo scrittore amico del regista di Casarsa, di cui coltiva la memoria e l’eredità culturale, lo smentisce. «La vita stessa di Totò lo smentisce: continuò a lavorare con Pier Paolo in due piccoli gioielli, "La terra vista dalla luna” nel ’67 e "Che cosa sono le nuvole” uscito nel ’68. In quelle pagine di diario di cui non ero a conoscenza, ci può essere forse come in tutti i diari un momento di verità: è indubbio che un uomo come Totò potesse provare una certa allergia per la tensione intellettuale di Pasolini. Ma si rendeva anche conto che lavorando con lui avrebbe aggiunto spessore alla sua figura d’attore. E non si lasciarono».
Per «Uccellacci e uccellini» Totò vinse il Nastro d’Argento e inviò alla giuria un messaggio di ringraziamento che — si apprende dagli appunti finora sconosciuti — lui definì uno «sberleffo finale» ai suoi severi critici. Il premio viene così commentato: «Il 1966 è un anno storico, una pietra "emiliana” della mia carriera. Il Sindacato dei giornalisti cinematografici, molti dei quali probabilmente sono gli stessi che mi hanno denigrato per anni, mi assegna il Nastro d’Argento. Qualcuno arriva a definirmi un grande attore e io quasi non ci credo. Forse in un caso così clamoroso di pentimento tardivo bisognerebbe dire meglio tardi che mai, ma lasciamo correre».
A lasciar perdere invece gli appunti «segreti» invita Franca Faldini, compagna di Totò dall’inizio degli Anni 50: «Chi stava con lui sempre ero io, sarei al corrente di queste annotazioni. Lui in quegli anni dettò semmai qualche poesia al registratore. È ora di smetterla con questo uso dissennato che si sta facendo di Totò da parte della famiglia con cui peraltro non ho più avuto rapporti. Anche in tv Totò non è altro che è un riempitivo, un sottoprodotto, come è stato considerato sempre dai critici. E invece sarà lui, si è capito, a vincere il tempo».
Quanto alle riserve sulla collaborazione con Pasolini, «basti sapere che si davano del tu, e Antonio non ha mai permesso ad alcuno di trattarlo con confidenza — continua Franca Faldini —. Vinta la prima diffidenza, quel senso di inferiorità che lui nutriva sempre nei confronti della cultura, i loro rapporti furono di grande stima. E da parte di Totò di grande soddisfazione. "Finalmente mi sento compreso", diceva».
Claudia Provvedini, «Corriere della Sera», 10 dicembre 1993
Totò fu molto critico con Uccellacci e uccellini. L'impegno sociale di cui il film di Pier Paolo Pasolini era intriso non piacque all’attore napoletano, che lo interpretò assieme a Ninetto Davoli. Lo rivela un inedito iscritto del prìncipe Antonio de Curtis, in arte Totò, che appare nell’appendice al suo diario semiserio Siamo uomini o caporali? (Newton Compton Ed.), che fu stampato nel '51 con una limitata tiratura. La considerazione è pubblicata ora nel volume Il Totò pensiero che raccoglie un insieme di appunti e annotazioni (raccolti dalla figlia Liliana) scritti fra il '55 e il ’67, anno della morte del grande attore «È un ottimo film - scrive Totò riferendosi all’opera di di Pasolini -, ma contiene un messaggio sociale e questo non mi va. L'impegno ammazza la comicità. Se una battuta ha un doppio o triplo significato, perde di spontaneità. Il pubblico per capirla è costretto a riflettere, e cosi non si diverte più». Ma non è l’unica sorpresa che l'indimenticato interprete de L'oro di Napoli e di Guardie e ladri
ci riserva a proposito del film che gli valse il Nastro d’argento. Totò, apprendiamo dai suoi appunti, inviò alla giuria un messaggio di ringraziamento che lui stesso definì uno «sberleffo finale ai suoi giudici così severi. «Il 1966 è un anno storico, una pietra "emiliana” della mia carriera - scriveva ironicamente Totò -. Il sindacato dei giornalisti cinematografici, molti dei quali probabilmente sono gli stessi che mi hanno denigrato per anni, mi assegna il Nastro d’argento. Qualcuno arriva a definirmi un grande attore e io quasi non ci credo. Forse, in un caso cosi clamoroso di pentimento tardivo, bisognerebbe dire meglio tardi che mai... Ma lasciamo correre».
In un altro degli appunti risponde a quanti lo avevano invitato ad abbandonare i panni del guitto per indossare quelli dell’attore impegnato. «Spesso mi sono sentito dire - scriveva - che dovrei fare l'attore drammatico, ma io non sono d'accordo. Rappresento la vita, che è un misto di comicità e di tragedia, e quindi non capisco perchè dovrei convertirmi da un genere all’altro. La vita non si sceglie, si accetta». Severissime anche altre annotazioni. «Nel mio pessimismo professionale influisce certo l'atteggiamento negativo dei critici, che mi hanno sempre stroncato. Non posso fare a meno di notare che questi signori si limitano a distruggere, mentre dovrebbero consigliare per il meglio noi attori. Io rispetto i critici, mentre loro non rispettano me».
E ancora un giudizio inedito: «I critici mi rimproverano perchè, secondo loro, faccio sempre le stesse cose. Non è vero. Sono passato dalla commedia dell'arte alla prosa, dal varietà al cinema, dalla poesia alla musica. Certo, rimango sempre Tolò, perché non sono io a comandare la mia faccia, ma la mia faccia a comandare me». Con amarezza Totò ammetteva poi di aver recitato a volte solo per guadagnare un po’ di soldi. «Ho girato diversi film mediocri, altri che erano veramente brutti, ma dopo tutta la miseria patita in gioventù, non potevo permettermi il lusso di rifiutare le proposte scadenti e restarmene inattivo». E infine rivela di aver avuto un desiderio rimasto nel cassetto: «Il mio sogno è girare un film muto, perchè il vero attore, come il vero innamorato, per esprimersi non ha bisogno di parole. Nessuna tentazione, comunque, di paragonarmi a quel genio di Charlie Chaplin».
«L'Unità», 10 dicembre 1993
Totò si vendica e rinnega «Uccellacci e uccellini»
Totò «rinnegò» il film «Uccellacci e uccellini»? L'ipotesi potrebbe far stramazzare uno storico del cinema, ed è tanto più sorprendente se pensiamo che, ad avanzarla, fu lo stesso attore in una inedita pagina di diario pubblicata in appendice al volume «Siamo uomini o caporali?», ristampato di recente dalla Newton Compton. Leggiamo: «"Uccellacci e uccellini" di Pier Paolo Pasolini è un ottimo film, ma contiene un messaggio sociale e questo non mi va. L'impegno ammazza la comicità. Se una battuta ha un doppio o triplo significato perde la spontaneità. Il pubblico per capirla è costretto a riflettere e così... non si diverte più».
Sembra il crollo di un monumento. Totò, che pure deve a Pasolini la sua rinascita artistica e a «Uccellacci» il primo Nastro d'argento, pare dunque prendere le distanze dal film. E sembra voler difendere con fierezza la comicità diretta, istintiva, «sporca». Lui che c'entrava con l'umorismo astratto di quel film? E soprattutto: che c'entrava con il «messaggio sociale»?
Giriamo i dubbi di Totò a Ninetto Davoli, che nel '66 gli fu compagno nella lavorazione del film. Ninetto urla: «No, ma no! Non è vero». Eppure è scritto. «Per Totò quel film era una fatica, lo considerava insolito, ma non lo ha mai rinnegato, anzi». E in che consisteva il suo disagio? «Forse non si sentiva abbastanza libero, gli mancava lo spunto per fare il comico come voleva lui. Ma era una sua scelta. Pasolini gli chiedeva sempre di fare Totò, e lui rifiutava. Trattava Pasolini con molto rispetto. Credo che, al di là dei bellissimi risultati, per lui sia stata una grande esperienza. E poi ci divertivamo. Se quel set fosse Totò, un grande del cinema stata una sofferenza, Totò si sarebbe comportato in modo diverso».
Come si comportava? «Scherzava, mi raccontava storielline divertenti». E allora, come considera quell'appunto? «Forse lo ha scritto in un momento di malinconia, prima che cominciasse il film. Certo è che deve molto a "Uccellacci". Per la prima volta fu considerato un grande attore».
Anche la figlia di Totò, Liliana De Curtis, minimizza lo sfogo. «Non va preso alla lettera», dice. Ma è possibile che quella frase sia stata soltanto il frutto di un malumore passeggero? «In parte è giustificata. Mio padre riteneva che, a causa del messaggio politico, la sua comicità ne avrebbe risentito. Quando ricevette il Nastro d'argento pensò per un attimo che i critici lodassero lui per lodare il film. Prima di allora i critici non lo amavano: per loro contavano soltanto i film impegnati. E mio padre ne soffriva». E' così vero che Totò scrisse: «Qualcuno arriva a definirmi un grande attore e io quasi non ci credo. Forse in un caso così clamoroso di pentimento tardivo bisognerebbe dire meglio tardi che mai, ma lasciamo correre».
La signora De Curtis aggiunge che se Totò avesse avuto un dubbio anche minuscolo su Pasolini non avrebbe continuato a lavorare con lui. «Era affascinato da Pasolini, l'unico regista che sia riuscito a dirigerlo. "Uccellacci" non fu un trauma. Totò poteva fare qualunque cosa. Aveva già girato film tragici. Pensiamo a "Guardie e ladri" e a "Dov'è la liberta?". Con Pasolini fece addirittura tre film. E c'era il progetto di farne un quarto. Purtroppo morì prima».
Osvaldo Guerrieri, «La Stampa», 18 dicembre 1993
1.20 UCCELLACCI E UCCELLINI - Regia di Pier Paolo Pasolini, con Totò, Ninetto Davoli, Femi Benussi. Italia (1966) 88 minuti. - RETEQUATTRO
Fantasioso apologo umoristico sul ruolo dell'intellettuale e sulla trasformazione del proletariato. Totò (il padre) e Ninetto (il figlio) sono incaricati di sfrattare la povera gente che non paga l'affitto: per strada li segue un corvo parlante, sedicente intellettuale marxista, che sembra convincere il suo limitato pubblico con la saggezza delle sue parole.
Una tardiva, splendida possibilità che Pasolini offrì al grandissimo Totò.
«L'Unità», 22 novembre 1999
Totò diventa un'aquila nei sette minuti inediti di «Uccellacci e uccellini»
In attesa dell'omaggio a Volontà, morto nel '94, va in onda domani alle 19.50 su Sky Classic il quinto documentario della serie Sky-Cinecittà: Lei non sa chi è Totò! regia di Katia Ippaso e Marco Ferrari. Con l'appoggio degli eredi de Curtis e del Fondo Pasolini che ha concesso i 7 minuti muti, inediti, mai montati, conservati da Laura Betti, dell'episodio del Circo di Uccellacci e uccellini, il film di Pasolini dove i titoli di testa erano cantati da Modugno. In questa parte Totò domatore si trasformerà in aquila: lo commenta con affetto il Ninetto Davoli di oggi. Non ci sono anniversari, è un ricordo variopinto e interessante del talento di un artista riscoperto in parte postumo e che anche gli americani ci invidiano.
Uniti nella lode filosofi come Cacciali, critici d’arte come Bonito Oliva («è il Socrate della società contemporanea»), letterati come Asor Rosa. La figlia Iiliana de Curtis affronta la privacy del Principe «sciupafemmine», la sua «doppia» vita tra famiglia e lavoro, l'accanita ricerca sull'araldica. E ci sono le belle, sincere parole dei colleghi: da Ben Gazzara, suo partner in Risale di gioia, allo scrittore Enzo Moscato, da Lucio Dalla (che arriva a paragonarlo a Tarzan e Rock Hudson) a Ernesto Mahieux e a Mike Bongiorno che, ai tempi di Totò lascia o raddoppia? confessa che rimase intimidito dal suo carattere schivo, quasi altezzoso. Fino all'appassionata arringa di Renzo Arbore che lo definisce «patrimonio dell' umanità perché ha nullificato tutto il palcoscenico napoletano» e difende la sua libertà comica non d'autore, ricordando cosa raccontava Nanni Loy: «Totò diceva che partiva sempre dalla fame, il comico non può avere la pancia piena».
Totò parlava spesso della miseria frequentata di persona: «Un comico deve aver fatto la guerra con la vita e conoscere la fame, il freddo, il dolore e la solitudine». E poi via con il comico in Tv che bacia Mina, i duetti con Poppino («noio volevon savuar»), la scena del vagone letto con l'on. Trombetta. Un identikit di 55 minuti in cui il clown del Rione Sanità si imparenta conia commedia dell'arte, la Fame Atavica delle maschere, mentre lo paragonano a Chaplin e a Picasso nell'astrattezza deviata del suo profilo surreale. A Napoli, Totò è oggi considerato quasi un santo (fu Fellini il primo a perorare questa causa per meriti di buon umore) capace di far miracoli. E' invece inaspettata la passione di Murray Abraham, ex Salieri di Amadeus: «Per far conoscere l'umanità di Totò mi piacerebbe fare un film americano con Scorsese e Al Pacino nel ruolo di Totò: siamo tutti orgogliosamente italo americani». Tutti lo vogliono, lo cercano, lo amano, si scopre che forse è eterno. Ha ragione la figlia: «Lui è qui, è sempre con noi, con tutti».
Maurizio Porro, «Corriere della Sera», 22 novembre 2004
Totò, Pasolini e la luna prostituta
CINEMA E LIBRI In «I burattini filosofi», Marco Buzzacchi rilegge il rapporto tra il grande comico e il grande regista che lo volle in tre suoi film. Ne esce il ritratto di un sogno pasoliniano dedicato alla famiglia e alle sue dolcezze mentre la famiglia esplodeva
Dice l’autore: Pasolini usa Totò e Ninetto Davoli e anche la Mangano per costruire una sua bislacca formula di famiglia»
Per il regista, anche Otello e Jago, dietro le quinte sono in Totò un padre amorevole e in Ninetto un figlio buono e incantato...
Nel quarantennale della scomparsa del grande Totò, esce un libro che riporta in copertina una curiosa immagine del principe della risata. Si tratta di un Totò-burattino, vestito di un abito violaceo e con la faccia colorata di verde. Il volume, scritto da Marco Bazzocchi, si intitola I burattini filosofi (Bruno Mondadori, pp. 186, euro 24,00). Ma non è un libro su Totò, bensì su Pier Paolo Pasolini. Perché l'immagine di cui dicevamo è un fotogramma di Che cosa sono le nuvole?, l'episodio diretto da Pasolini in un celebre film collettivo, Caprìccio all'italiana. Quella partecipazione cinematografica, inizio 1967, fu l'ultimo lavoro di Totò, che scomparirà ad aprile.
La collaborazione tra Totò e Pasolini, tuttavia, non era nuova. Pasolini fece ricorso a Totò in tre film: Uccellacci e uccellini (1965), La terra vista dalla luna (1967), e, appunto, Che cosa sono le nuvole? A parte il primo, gli altri due sono film brevi, cioè episodi di film collettivi. «Ma - spiega Bazzocchi - tra questi tre momenti c'è una grande coerenza. In tutti questi film circola un'aria di famiglia, anzi direi che si tratta proprio di un' aria legata alla famiglia. Pasolini, cioè, usa Totò e Ninetto, e nel caso del secondo corto anche Silvana Mangano, proprio per ricostruire una sua particolare, surreale, bislacca famiglia. Totò e Ninetto sono infatti un padre e un figlio nel primo e nel secondo film, mentre nel terzo recitano come burattini in un teatro che ricorda quello di Pinocchio». Bazzocchi analizza questo terzo corto al centro del suo libro in un capitolo che dà il titolo all'intero volume. «Che cosa sono le nuvole? - aggiunge - mi ha sempre attirato per più ragioni. Innanzitutto, proprio perché anche se si tratta di un famoso testo teatrale di Shakespeare - roteilo -, Pasolini riesce a maneggiarlo intimamente e modifica il rapporto tra Jago e Otello alla radice: sulla scena sono il carnefice e la vittima della tradizione, l'uomo ingenuo e l'uomo malvagio, il geloso e il traditore; fuori dalla scena invece Totò si trasforma in un maestro amorevole che vuole spiegare a Ninetto i segreti dell'esistenza. Diventa insomma una specie di Socrate premuroso, non solo un maestro, ma proprio un padre». E Ninetto ascolta le sue parole a bocca aperta proprio come farebbe un figlio nei confronti del padre, o almeno come avrebbe fatto un figlio d'altri tempi nei confronti di un padre d'altri tempi.
La cosa che sconcerta di più è che siamo nella primavera del 1967, e un anno dopo scoppia la contestazione studentesca, insomma il '68. La famiglia va in crisi, e va in crisi soprattutto il molo paterno. Tanto che Pasolini girerà Teorema, il film sulla distruzione della famiglia, anzi il film dove un figlio misterioso e divino seduce tutti i membri di una famiglia borghese e li porta alla rovina. «In un anno - afferma Bazzocchi - si consuma uno dei rivolgimenti maggiori dell'opera di Pasolini. E Totò è l'ultima immagine di padre-maestro-pensatore. Insomma quello che Pasolini aveva voluto essere da giovane, o forse quello che avrebbe chiesto al suo stesso padre».
Dalla collaborazione tra Totò e Pasolini, entrambi trassero alcune cose importanti. Dice Bazzocchi: «Dal lavoro con Totò venne fuori un Pasolini completamente nuovo e ancor oggi straordinario. In Uccellacci e uccellini Pasolini scopre la leggerezza della rappresentazione, tutto il film è dominato dalla presenza della luna, ed è una luna materna e protettiva, quella madre che nel film non si vede mai. C'è poi un particolare divertente: alla fine del film sia il padre che il figlio hanno un rapporto sessuale veloce in mezzo alle stoppie di un campo assolato con una prostituta che si chiama Luna. È una strana versione di incesto, non edipico, antifreudiano, molto prima che Pasolini pensasse alla sua versione della tragedia greca. Anche nel film sui burattini c'è qualcosa di simile, cioè un allontanamento delle donne dal rapporto tra padre e figlio. Esattamente il contrario di quello che era successo nella vita di Pasolini, che era fuggito a Roma con la madre abbandonando il padre solo a Casarsa. Credo che Totò abbia contribuito a scatenare in Pasolini qualcosa di imprevedibile, un addolcimento nei confronti della figura di un uomo adulto che prima Pasolini aveva sempre rifiutato».
E anche Totò vive questa esperienza per lui nuova di attore «serio» come un'esperienza particolarmente significativa. In altre parole, il Totò dei tre film di Pasolini è un Totò completamente diverso da quello dei film comici che conosciamo. Certo, una base di comicità rimane, così come rimane il richiamo figurativo a Charlot (la bombetta per esempio, il cammino sulla grande strada bianca). «Ma Pasolini - dice Bazzocchi - ha tirato fuori da Totò un elemento di dolcezza e di saggezza stralunata che prima non c'era, qualcosa che fa pensare al teatro di Beckett, anche se credo che Pasolini non lo conoscesse in questo momento. Nel corto La terra vista dalla luna Totò a un certo punto fa un lungo discorso in cima a una casa, contro il delo azzurro dove passano le nuvole. Lì, in quell'elemento aereo e leggero, vedo qualcosa di eccezionale sia per Pasolini che per Totò stesso».
Roberto Carnero, «L'Unità», 20 luglio 2007
Riferimenti e bibliografie:
Sintesi delle notizie estrapolate dagli archivi storici dei seguenti quotidiani e periodici:
- Al. Cer., «Corriere della Sera», 10 settembre 1965
- «Corriere della Sera», 15 settembre 1965
- «L'Unità», 18 settembre 1965
- «La Stampa», 19 ottobre 1965
- n. s., «Stampa Sera», 20-21 ottobre 1965
- «L'Unità», 21 aprile 1966
- «L'Unità», 29 aprile 1966
- «Radiocorriere TV», maggio 1966
- Giovanni Grazzini, «Corriere della Sera», 5 maggio 1966
- Furio Fasolo, «Stampa Sera», 13-14 maggio 1966
- Guglielmo Biraghi, «Il Messaggero», 14 maggio 1966
- «Il Piccolo», 14 maggio 1966
- Maria Maffei, «Noi donne», anno XXI, n.20, 14 maggio 1966
- Gian Luigi Rondi, «Il Tempo», 14 maggio 1966
- Aggeo Savioli, «L'Unità», 14 maggio 1966
- Leo Pestelli, «La Stampa», 14 maggio 1966
- Gigi Ghirotti, «La Stampa», 14 maggio 1966
- f. g., «La Stampa», 14 maggio 1966
- Alberico Sala, «Corriere della Sera», 14 maggio 1966
- Luigi Cavicchioli, «La Domenica del Corriere», 15 maggio 1966
- «La Stampa», 20 maggio 1966
- Leo Pestelli, «La Stampa», 21 maggio 1966
- «Paese Sera», 21 maggio 1966
- Giovanni Grazzini, «Corriere della Sera», 21 maggio 1966
- Carlo Laurenzi, «Corriere della Sera», 21 maggio 1966
- «Il Piccolo», 21 maggio 1966
- Vice, «La Stampa», 21 maggio 1966
- Maurizio Liverani, «Tempo», anno XXVIII, n.22, 1 giugno 1966
- v. v., «Rivista del cinematografo», settembre 1966
- «La Stampa», 1 luglio 1966
- «L'Unità», 21 settembre 1966
- «La Stampa», 26 gennaio 1967
- U.C., «L'Unità», 26 gennaio 1967
- «Corriere della Sera», 26 gennaio 1967
- «Corriere dell'Informazione», 26-27 gennaio 1967
- «Stampa Sera», 30 gennaio 1967
- Alberto Blandi, «La Stampa», 31 gennaio 1967
- Giorgio Polacco, «Il Piccolo», 31 gennaio 1967
- Giovanni Grazzini, «Corriere della Sera», 31 gennaio 1967
- Laura Griffo, «Corriere dell'Informazione», 31 gennaio - 1 febbraio 1967
- P. V., «Rivista del Cinematografo», marzo 1967
- «Corriere della Sera», 21 marzo 1967
- «La Repubblica», 3 agosto 1976
- «L'Unità», 6 ottobre 1984 - Ninetto Davoli
- Claudia Provvedini, «Corriere della Sera», 10 dicembre 1993
- «L'Unità», 10 dicembre 1993
- Osvaldo Guerrieri, «La Stampa», 18 dicembre 1993
- «L'Unità», 22 novembre 1999
- Roberto Carnero, «L'Unità», 20 luglio 2007