Facciamo visita a Totò
Il grande attore, che presto vedremo in un programma televisivo a puntate, sta serenamente percorrendo il viale del tramonto. Ormai ci vede poco, vive in solitudine nell’immenso appartamento di marmi e specchi insieme alla fedele compagna e a due barboncini. Non ha rimpianti: anzi, confessa di essersi finalmente affrancato dalla maschera che ha inventato quarant’anni fa per far ridere gli altri.
Roma, maggio
Si sale fino a Totò attraverso le maglie di uno sbrigativo ma inderogabile cerimoniale che prevede rapidi esami da parte del portiere, dell’autista, della cameriera. La fastosa residenza del principe è avvolta nell’ombra. L’occhio corre lungo una fila di sale e laggiù riesce a distinguere Totò, che inforca occhiali neri e se ne sta rannicchiato su una poltrona. Sembra piccolissimo. Il principe di Bisanzio si alza e viene incontro al visitatore con movimenti e passi sicuri, nei quali, tuttavia, c’è qualche cosa di impercettibilmente sbagliato. «Cosa volete da me?», dice Totò. «Io, come vedete, sono un pover’uomo, nient’altro che un pover’uomo».
Così si presenta un attore che in oltre quarant’anni di lavoro è riuscito non soltanto a diventare ricchissimo, ma a provocare un movimento finanziario che viene calcolato in una quarantina di miliardi a tutt’oggi. Quaranta miliardi che non sarebbero stati né prodotti né spesi se Totò non fosse divenuto uno dei pilastri dell’industria dello spettacolo.
Il vecchio Totò sta concludendo in bellezza la sua carriera: dopo le sue ultime interpretazioni cinematografiche (con Uccellacci e uccellini ha ottenuto una menzione d'onore al Festival di Cannes) si incomincia a parlare di lui come del Chaplin italiano. Sulle sue spalle un po’ curve pesano ben centosei film e una quindicina di grandi spettacoli di rivista. Ma lui dice sorridendo: «È niente, è niente, continuerei a lavorare per un altro secolo».
Ci accompagna in giro per la sua casa, «la casa del misantropo», come lui dice. È piena di bei mobili francesi e veneziani, di buoni quadri «Ottocento», di ottimi pezzi giapponesi e cinesi, di finissimi Capodimonte. Ma Totò non è in grado di mostrarci il proverbiale angolo intimo, il «pensatoio», che pure dovrebbe annidarsi in qualche piega di una dimora così dispersiva e fastosa. «Non ce l’ho», spiega senza imbarazzo Totò, «non ne ho mai sentito il bisogno, il mio angolino segreto è tutta questa casa». E chiarisce che lui, Antonio De Curtis, non aveva bisogno di una casa dove stare, quanto di un universo intero, tutto proprio, dove governare. Si è sentito estromesso dall’universo nel quale Totò e il resto dell’umanità facevano allegro bivacco insieme. «Qui dentro le cose sono quelle che io ho deciso che siano, e stanno nei punti precisi che io ho loro assegnato. Qui dentro io sono quello che Totò, per colpa della sua mascella dirupata, non è potuto essere nel mondo degli uomini: sono ammiraglio, sacerdote, magistrato. Ma che ne sa, lei, della lotta che c’è sempre stata fra Totò e Antonio De Curtis?».
Offre sigarette e se ne accende una. Anche in questi gesti così semplici c’è qualcosa di impercettibilmente sbagliato. «Io nacqui bellissimo», continua Totò, «ero uno dei bambini più belli del rione Sanità. Avevo capelli lunghi e ricci e mandavo in visibilio tutte le amiche di mia madre. Se vuole, le faccio vedere una fotografìa...». Va a frugare in un cassetto e non la trova. «Comunque», prosegue rassegnato. E spiega che poi, durante la crescita, si guastò. Sentì che le sue mascelle deragliavano l'una dall’altra. Davanti allo specchio osservava il conformarsi curioso delle proprie articolazioni. E si accorse che avrebbe avuto arti liberi e indipendenti, dissociati dal resto del corpo. Già da ragazzo le sue braccia e le sue gambe si comportavano come individui nell’individuo. Il suo collo snodabile era in grado di depositare la testa sulla punta d’una spalla. La faccia si delineava asimmetrica, astrusa, senza parentele. Per qualche suo fine misterioso, la natura si era messa a cancellare Antonino De Curtis e stava creando Totò.
«Stante la situazione grave, che altro avrei potuto fare di me se non l’attore? Però a lei voglio raccontarla giusta, perché il mito è una cosa e la realtà è un’altra. Si è detto che incominciai a recitare di nascosto e che nei primi tempi ero costretto a nutrirmi con ottanta centesimi di pasta e fagioli. Questo non è vero. Io non ero per niente povero e avrei potuto accontentarmi di vegetare al solicello di Napoli ostentando il mio colletto sempre immacolato e le mie scarpe lucidissime. Mio padre viveva con una rendita modesta ma dignitosa. Ma la questione era un'altra: se fossi rimasto Antonio De Curtis la mia vita sarebbe stata zero. La gente mi voleva Totò». Perché il giovane De Curtis era una macchina per ridere travestita da uomo. La gente lo guardava e rideva sotto i baffi. Totò, che già aveva il complesso del figlio unico, e stentava a legare con i suoi compagni, per riuscire simpatico doveva umiliarsi ad assecondare l’allegria da lui stesso provocata. Quando salì per la prima volta sulle rozze tavole di un palcoscenico di quart’ordine, il giovane Totò, praticamente, veniva a patti con il suo destino.
«Per una trentina d’anni, da allora, ho dovuto tenere Antonino De Curtis schiacciato dentro di me, soffocando ogni cosa di lui, persino la vita privata. Mi sforzavo di essere Totò - la marionetta, la maschera - dentro e fuori il palcoscenico.
Nella vita e sulla scena sono stato sempre solo perché notavo che alla gente piaceva credere che in un mondo così arido e fetente si aggirasse davvero un tipo come Totò. Perciò non sono mai stato padrone di me stesso. Ma da molto tempo la situazione è rovesciata. Adesso sono di nuovo Antonio De Curtis, e mando tutte le mattine a lavorare il mio schiavo Totò.
La situazione si rovesciò dopo il 1950, quando Totò, grazie al suo boom cinematografico, si piazzava ai primissimi posti nella graduatoria dei contribuenti romani denunciando un reddito annuo spesso vicino ai cento milioni. Stava allora costruendo la sua casa-universo, aveva appena finito di lottare contro gli altri pretendenti al trono di Bisanzio, era sul punto di unire la sua esistenza a quella di una delle più belle ragazze romane del momento. Ma incominciò per lui un periodo molto difficile. Malignità, cattiverie, richieste di denaro da parte di finti parenti e scrocconi professionali, perfino ricatti.
Si buscò una broncopolmonite che stava per mandarlo all’altro mondo. «Qualche giornale scrisse che ero morto», racconta. «Per smentire la notizia dovetti indire una conferenza stampa e fornire quattro numeri per giocare al lotto.» I medici lo tirarono su con una violenta somministrazione di antibiotici. Forse fu proprio quella cura, così radicale, a procurargli qualche mese dopo (era il 1957) l’emorragia retinica che minacciò di renderlo completamente cieco. «Mesi infernali, le dico», spiega Totò. «Vivevo chiuso in una stanza nel buio più completo con quattro sanguisughe appiccicate al collo e nella testa una corsa continua di pensieri tenebrosi come scarafaggi.
«Ma adesso sto benissimo, meglio non potrei. Mi sento addosso trentacinque anni, invece di sessantacinque. Sono un salutista, vivo le mie giornate regolate come un orologio, mi alzo presto, mangio pochissimo e mi levo da tavola sempre con un po’ di appetito. Soprattutto cerco di stare attento alle correnti d’aria: sono terrorizzato all’idea di potermi buscare qualche altro malanno.
«Anche la mia vista è buona, anzi ottima, perché continuano a dire che sono cieco? Confesso che lei, che mi sta davanti, la vedo poco, però a destra e a sinistra vedo tutto distintissimamente.» Le mani, mentre lui parla, intrecciano una danza continua e inarrestabile. Una va a visitare il cavallo del naso, dove poggiano occhiali verdescuro con stanghetta d’oro, mentre l’altra si poggia come una farfalla sul taschino che cela il fodero di quegli stessi occhiali. Poi ambedue trinciano in aria un gesto e vanno ad infilarsi nelle tasche laterali della giacca, timorose di non trovarvi altri occhiali più scuri, occhiali d’emergenza. La casa è piena di ombre, ma un colpo di vento potrebbe spalancare una finestra, o spostare una tenda e lasciare entrare il sole. Allora Totò dovrebbe fulmineamente inforcare occhiali più neri e pesanti. La luce ferisce i suoi occhi e gli procura una reale sofferenza fisica. Quando va a recitare sul set mette occhiali simili a quelli di un operaio saldatore. Durante le prove non osa toglierli, e allora è praticamente cieco. «Ciao, Pussy-cat», gorgoglia rivolto ad un’attrice alta e flessuosa che per lui dev’essere poco più che un’ombra.
Ed è sempre tanto bravo che lo stesso regista scoppia a ridere e si dimentica di fargli togliere le mani di tasca. Poi viene il momento del «pronti, azione» e Totò deve denudare i suoi occhi, e tenere le mani fuori dalle tasche. Allora si vede che è sulle spine e suda facilmente. E se c’è vento, e il sudore si gela sotto la marsina nera, Totò aggiunge preoccupazioni alla preoccupazione. «Presto, che diventa nervoso», mormorano i tecnici intorno a lui.
Finito il lavoro Totò rientra immediatamente nella sua casa immensa e rimette gli occhiali verdi, leggeri. Conosce i percorsi della sua dimora e non teme di sbagliare. Cammina moltissimo in casa. I barboncini lo seguono allegri e non vanno mai a sbattere contro i suoi piedi; il pappagallo Gennaro lo chiama col fischio ogni cinque minuti, e Totò puntualmente ogni cinque minuti va a rendergli visita.
Non sono mai entrato in un cinema a rivedere un mio film
Totò cammina, e passando accanto ai suoi libri allunga una mano a sfiorarne qualcuno. Gli portano i giornali e lui li accarezza. Verrà più tardi la sua Franca a leggerglieli, come fa amorosamente da quasi dieci anni. E nell’attesa lui passeggia ancora sulla moquette con le mani dietro la schiena, silenzioso come un fantasma. Il suo piede urta talvolta contro un portacenere perché c’è qualcuno, nella sua casa, che fa sempre cadere a terra i portacenere.
Improvvisamente si dirige verso una mensola di marmo pregiato e afferra il microfono di un registratore. Gli è balenata in mente una poesia. Un tempo le scriveva, ora si acquatta presso la mensola con la fronte rivolta verso la parete e le dice direttamente in un microfono. Per qualche minuto nel salone non si sente altro che un borbottio sospiroso e indistinto.
«...’A morte...», sta dicendo Totò, «...vita... ’stu sentimento... ’o sole...». Qualche volta, invece di una poesia, Totò deposita nel registratore l’aria di una sua nuova canzone. Così trascorrono le sue ore vuote da impegni di lavoro. «Sì, sono misantropo», ammette. «Ma del resto anche da bambino ero un tipo solitario. Il mio mondo era un vecchio palazzotto del rione Sanità, decaduto e fatiscente, pieno di angoli neri come la pece. E in uno di questi angoli bui mi ero costruito un altarino dove, con chicchere e pezzetti di legno, dicevo la Messa. Insomma, giocavo al prete, che è il gioco più solitario che ci sia.
«Poi c'era un altro gioco solitario che da ragazzo mi divertiva», continua Totò, «per il quale i compagni malvagi mi avevano soprannominato ’o spione. Mi divertiva pedinare da lontano qualche tipo umano interessante. Mi piaceva seguirlo per la strada, magari per chilometri, e vedere che cosa faceva, come si comportava, quali difetti e debolezze umane rivelava. Un gioco che poi si doveva rivelare utile per il mio lavoro. Ci vedevo bene allora, altro se ci vedevo.
«E sulla scena non sono forse stato sempre solo? Le mie recite, specie al tempo delle famose “macchiette", trasformavano il teatro in una specie di circo. Io mi concedevo regolarmente in pasto ad un pubblico affamato di allegria, insaziabile, sanguigno. Questa cosa mi ha sempre fatto paura. Forse per questo non sono mai stato capace di entrare in un cinematografo per rivedere un mio film.
«Sono solo anche su questo grosso libro», prosegue afferrando l'elenco storico della nobiltà italiana, «e non avrò discendenti maschi.» E i suoi polpastrelli corrono sulle costole del volume fino a trovare la fettuccia rossa che segna da quindici anni la pagina che lo interessa. Totò addita con un gesto vago qualcosa in quella pagina. E il suo stemma nobiliare.
Se il destino non lo avesse costretto ad annullarsi tanto a lungo nella marionetta di Totò, forse Antonio De Curtis non avrebbe mai intrapreso le pratiche necessarie a farsi riconoscere come altezza imperiale e legittimo erede al trono di Bisanzio. Suo nonno ricorreva alle vecchie e polverose pergamene giacenti in solaio soltanto per accendersi di quando in quando la pipa. Suo padre ricordava confusamente che tra i De Curtis, in passato, dovevano esserci stati dei nobili, ma non se ne dava pensiero. Lo stesso Totò sostiene di non aver mai avuto complessi di colpa nei confronti dei genitori per il fallo di essersi messo ad esercitare un’«arte vile». Ma il giorno in cui il suo portinaio, anziché salutarlo civilmente, gli sghignazzò sul viso perché la sera precedente era stato a vederlo in teatro, De Curtis si sentì ribollire il sangue. Il suo desiderio di riprendere il sopravvento su Totò risale ad allora.
Incominciò a sfogliare albi di araldica e antichi documenti di famiglia sopravvissuti alla pipa del nonno. D'accordo: non aveva mai avuto un’esistenza sua, perché le maschere, si sa, vengono al mondo con l’unico scopo di far ridere o piangere la gente.
Anche per colpa della marionetta Totò, invadente e onnipresente, la sua vita privata era stata irta di dispiaceri: dal suicidio di una donna che l’aveva intravisto, amato e subito smarrito nel '29, al primo matrimonio, terminato con un annullamento nel '39. Ed ecco la possibilità di riscattare solennemente Antonio De Curtis nei confronti del suo tiranno Totò. Le pratiche durarono dal 1941 al 1945, dopo di che Totò fu letteralmente sopraffatto da Antonio Focas Flavio Ducas Comneno di Bisanzio De Curtis Gagliardi.
«Perché l'ho voluto?», si chiede l’attore, e resta pensoso per qualche istante. Forse vent'anni fa avrebbe saputo rispondere con più prontezza. Alla fine dice: «L’ho fatto perché ai nonni e ai trisavoli bisogna portare rispetto, e il minimo del rispetto consiste nel non dimenticarli.»
Richiude il pesante volume e va a rimetterlo a posto. Dopo di lui, le stirpi bizantine dovranno cercarsi un nuovo legittimo erede al trono. «Ricordi», dice Totò ritornando a sedersi su una delle sue grandi poltrone. «Ricordi a bizzeffe, quanti ne vuole, e di tutti i tipi. Ma non rimpianti, nessun rimpianto, a prescindere.»
Si toglie gli occhiali, poi aggrotta la fronte e se li rimette. Una sagoma, quella della cameriera, è apparsa contro luce nel vano di una porta, e Totò è trasalito leggermente. Le sue piccole paure, già proverbiali, si sono fatte più concrete da qualche tempo. Quando è solo in casa è ossessionato dall’idea dei ladri. «Se il ladro arriva», ha confessato una volta, «io sparo subito, senza nemmeno dire “chi va là”.
«Cercherò di lavorare ancora molto. Per me il lavoro è vita e allegria», conclude Totò. Anche in queste sue ultime parole c’è qualcosa di impercettibilmente sbagliato. Il vecchio grandissimo attore sta concludendo la sua recita con battute di circostanza. In realtà ogni ora, ogni minuto che Totò dedica al lavoro, esponendosi alle luci artifi ciali o alla luce solare, non fanno che peggiorare le condizioni dei suoi occhi. Ma non può smettere di lavorare. È più forte di lui.
E se il misantropo, nella sua grande casa, confida a qualcuno le sue pene, bisogna che stia molto attento a non commuoversi, perché i medici dicono che i suoi occhi non sopportano il pianto. Mentre ridiamo ancora tutti alle disavventure della maschera Totò, il gentiluomo che essa nasconde cammina in punta di piedi verso la notte.
Pietro Zullino, «Epoca», anno XXVII, n.818, 29 maggio 1966
Pietro Zullino, «Epoca», anno XXVII, n.818, 29 maggio 1966 |