Tuttototò: la mia vita in dieci serate
Totò racconta: Perché mi sono arreso alla televisione. Il nostro più grande comico vi anticipa la serie di spettacoli con i quali gli italiani concluderanno ridendo il 1966. “Per voi saranno solo motivo di divertimento, per me sono brani di vita. Ecco cosa nascondono i miei personaggi”
Permettete che mi presenti? Sono il professor Severino Bolletta, coniugato, vaccinato, incensurato. Faccio l’inventore, invento tutto. Chi ha inventato le uova sode? Io. Chi il filo per tagliare il burro? Io. Chi lo stecchino infilato nell’oliva? Io, io, io. E adesso vado in Svezia perché Gustavo deve darmi il premio Nobel. E’ la mia ultima invenzione, la P.C.C.P. 18, la pipa con combustibile proprio, calibro 18 millimetri che è la misura media internazionale del dito indice. Una pipa che è una bellezza, a due piani con superattico: al primo piano si mette il tabacco e al secondo il fornello a spirito con lo stoppino. Così la pipa non si spegne mai, e volendo ci si può anche cuocere due uova al burro.
Diciotto millimetri la pipa, diciassette pollici il video: perché il professor Bolletta (figlio di tre padri, Michele Galdieri, Bruno Corbucci e Antonio De Curtis, che sono poi io) non è nato per il cinema, ma per la televisione. E con lui sono nati altri personaggi, a cominciare dal maestro Mardoccheo Stonatelli che ha una schifezza di moglie, mi l’ha sposata ugualmente in segno di omaggio al Cigno di Busseto. Si chiama Peppina.
Daniele D’Anza dirige Totò nello show in dieci puntate che il celebre comico sta preparando per la televisione. E’ la prima volta che Totò accetta di comparire in uno spettacolo per il piccolo schermo.
Perché poi la televisione? Perché mi sono arreso a un genere di spettacolo che ho sempre guardato con sospetto e che mi ha visto sempre di passaggio? Ogni volta dicevo di no perché quel rettangolino luminoso che ci fa entrare nelle case di tutti è un coltello a doppio taglio: può dare, quando va bene, una immediata popolarità, ma può anche tagliare le gambe. E a me, scusatemi, chi me lo fu fare di correre questo rischio? Avessi ancora venti o trent’anni, e dovessi cercarmi un mio pubblico sarebbe un’altra cosa.
Ritorno alle origini della mia lunga carriera
Ecco perché ho sempre risposto picche. Però questa volta era diverso, mi interessava il progetto e mi piace Daniele D’Anza come lavora. Poi ci sono altre ragioni, a cominciare da quella di un ritorno alle origini. Ci tengo in modo particolare perché chi non mi conosce o mi ha visto soltanto al cinema può credermi diverso da come sono. Mi vedrete per sei sere come gli spettatori mi hanno visto in teatro per tanti anni, con quegli stessi panni che mi cascavano ad dosso come se fossi stato un manichino e che mi sono serviti come «costume», un tight che mi andava largo, una bombetta due numeri sotto, pantaloni «a saltafossi» e una stringa da scarpe per cravatta.
oglio, insomma, dimostrare di essere diverso da come sono apparso in molti film, anche recenti (sapete quanti ne ho interpretati in tutto? La bazzecola di centosei). E dimostrare anche, se possibile, la validità di una «maschera», riportandovi indietro nel tempo fino al punto dal quale sono partito. Sarà un lungo viaggio a tappe, con molti panorami che i più giovani di voi scopriranno per la prima volta. E voglio dire subito che quei panorami saranno tutti evidentissimi. No, mai nessuna nebbia e anzi come illuminati dal mio sole di Napoli.
Perché, guardiamoci in faccia, oggi si deve fare ad ogni costo un umorismo impegnato, e l’attore comico per poco non stramazza sotto un bagaglio che più carico di intenzioni, di allusioni e di ammiccamenti non potrebbe essere. Così il pubblico, non di rado, ci resta male, e non ha ancora finito di interpretare il senso di una battuta (ridendo finalmente, se tutto va bene) che già deve ricominciare con la sottile analisi della battuta successiva. Proprio perché è capitato anche a me (l’ultima esperienza è recentissima), vi assicuro che questo bagno in una comicità più immediata, questo mio ritorno alle origini mi fa un immenso piacere.
Poi c’è un’altra faccenda, che quando faccio un film è come se fossi invitato a colazione. Sì, posso anche lasciare di questo e chiedere di quest’altro, ma volete mettere quando mangio a casa mia? E questa volta la lista l’ho scelta io, e voi siete tutti invitati. I piatti, oddio, mi sembrano buoni, tutta roba genuina, fatta in casa che non dovrebbe restarvi sullo stomaco. L’hanno già mangiata in tanti, dovrebbe ancora piacere.
Chi mi ha visto in teatro, in «Volumineide» e l’«Orlando curioso», in «Bada che ti mangio» e «Che ti sei messo in testa?», in «C’era una volta il mondo» e «Quando meno te l’aspetti», può esserne testimone. Certi sketches come quello del vagone letto e certe gags come quella del direttore d’orchestra che finisce con la marcia dei bersaglieri sono ormai rimasti nella storia della rivista e hanno scatenato entusiasmi che si ricordano ancora. Quando scrissi lo sketch del vagone letto non durava più di dieci minuti, ma alla fine arrivò a cinquanta, tra le gags che ci aggiungevo e le pause — via una sotto l’altra — per aspettare che il pubblico finisse di ridere.
In questa serie di farse televisive, che andranno tutte insieme con il titolo «Tutto Totò», ritroverete diverse cose di allora. Però si tratta di veri e propri telefilm, e non di spezzoni cuciti l’uno con l’altro: ecco, quindi, che uno sketch come quello del vagone letto doveva essere ambientato in una certa situazione. Così l’hanno messo nel «Premio Nobel», quando parto per la Svezia, e il discorso corre benissimo. La prima volta (era la fine del ’47 e la rivista si intitolava «C’era una volta il mondo»), recitavano con me Isa Barzizza e Mario Castellani, un bravo attore che è stato la mia «spalla» per tanti anni. Adesso, Castellani è rimasto e al posto della Barzizza ci sarà Sylva Koscina.
Questo per quanto riguarda i primi sei telefilm. Negli altri quattro, invece, non sarò più una «maschera», ma uno showman.
Mina e Celentano scherzeranno col mio Pinocchio
Ci troverete di tutto, dalle mie poesie e canzoni al Pinocchio di «Volumineide», con molti ospiti assai popolari come Mina e Celentano. Ebbene, che debbo dirvi? Se per voi questi telefilm costituiranno, come spero, un motivo di divertimento e — anche — il ricordo di qualche serata ormai lontana, per me invece vogliono dire molto di più. Perché è come sfogliare le pagine di un diario lungo cinquant’anni, e segnare qua e là — con la matita rossa — le date e i fatti più importanti.
Voi, ad esempio, mi sentite dire «Siamo uomini o caporali?» e vi mettete a ridere, ma io invece non rido e penso al tempo della «naja», quando appunto stavo a Livorno ed ebbi come graduato il famigerato «caporale per antonomasia», uno di quelli cioè che ti fanno odiare — per un numero imprecisato di generazioni — la vita e il regolamento militare. Ignorante e presuntuoso, trovava da ridire su tutto. Fu per questa ragione che mi prese un odio profondo nei confronti di quell’uomo così sicuro nel carro armato dei suoi galloni.
E fu da allora, anche, che presi a contrapporre gli uomini ai caporali: gli uomini, cioè le persone che sanno adoperare la loro autorità senza abusarne, ai caporali che — muniti di un’autorità immeritata e forti di una disciplina che impone l’obbedienza senza discussione — esercitano il loro potere con il dispotismo di un piccolo Ezzelino da Romano. E pensare che ero partito volontario e che, assegnato al 22° Fanteria, mi sembrava tutto bello. Invece le delusioni cominciarono quasi subito. Ci avevano distaccato a Pescia e il rancio era una schifezza, brodo che sembrava acqua e pasta che sembrava colla. Allora, un giorno, sapete cosa faccio? Gioco sull’equivoco. Sissignori, gioco.
I primi successi nei teatrini della periferia
A Pescia, dico, chi ti conosce? Vado dal barbiere, mi faccio fare la tonsura come un sacerdote e corro in trattoria. Là ci stava un amico mio al quale avevo già raccontato tutto. «Buonasera reverendo — mi dice — si accomodi, si accomodi. Vedrà che qui si trova bene. Ho già pensato io a raccomandarla al padrone». Mangiai, Infatti, benissimo, e mi fecero anche uno sconto per riguardo al pastore d’anime. Andai avanti così per un pezzo, poi un giorno arrivò un cappellano militare (vero) e successe un quarantotto.
Come Dio volle, anche la «ferma» ebbe termine, e io potei finalmente avvicinarmi a quel teatro che, ancora ragazzo, mi aveva affascinato. In fondo, a pensarci bene, anche nell’avventura di Pescia c’era il gusto del recitare, del travestimento. La mia famiglia, intanto, si era trasferita a Roma, ma lasciate che vi racconti un episodio napoletano che mi sembra divertente.
E’ roba dell’altra guerra, con un caffè piuttosto malmesso ma sempre pieno di gente. Il cameriere li conosceva tutti uno per uno: acrobati e illusionisti, cantanti e ballerinette di fila. Qualcuno attardava la richiesta di un bicchiere d'acqua, e gli altri continuavano a discutere di impossibili scritture. Saltare i pasti, per quella gente, era diventato il fatto più naturale.
Nella sua fastosa casa romana, Totò con Franca Faldini, la quale ormai da anni è la sua affettuosa e discreta compagna. Per vivere accanto al Principe Antonio De Curtis, la Faldini ha rinunciato alla carriera cinematografica. Totò spiega in questo articolo perché, dopo dieci anni di insistenze, si è arreso alla TV: «Voglio dimostrare a chi è troppo giovane per ricordarmi in teatro, che sono molto diverso da come sono apparso in molti film anche recenti ».
Quel pomeriggio, a un tavolo sulla piazzetta, c’era perfino Peppino Villani. Si era seduto in disparte, ordinando un caffè lungo (lui, questo lusso poteva permetterselo). Perché don Peppino, nel varietà, era una specie di padreterno. Qualcuno si staccò dal gruppo e facendo finta di niente gli passò davanti con un lungo saluto: che avesse bisogno, per caso, di gente da scritturare?
Anch’io mi feci avanti: avevo già avuto qualche successo nelle sale di periferia e mi sentivo autorizzato a «trattare». Don Peppino mi sorrise. «In questi giorni sono libero: se volete una formazione sedetevi e cominciate a scrivere: Peppino Villani, settecento lire. Una cantante, centocinquanta. Un’attrazione, cento. Un primo e un secondo numero, ottanta lire. E venticinque per voi. Quanto fa in tutto?». «Mille e cinquantacinque lire». «Bene, datevi da fare e domani ci vediamo».
II giorno dopo, alla stessa ora. «Don Peppì, hanno detto che la formazione è bella assai, ma costa troppo».
«Questo è tutto? — risponde Villani. — E noi allora caliamo. Prendete un pezzo di carta: Peppino Villani, settecento lire. Cento alla cantante e settanta all’attrazione.
I due numeri, cinquantacinque. E voi... voi dovete contentarvi, ventitré lire. Giovanotto, ditemi il totale». «Novecentoquarantotto». «E chi volete che rifiuti un affare del genere?». «Speriamo bene, don Peppì».
Ventiquattr’ore più tardi.
«Don Peppì, che vi ho da dire? Sono tutti entusiasti, ma vogliono spendere di meno». «E va bene, noi caliamo ancora. Peppino Villani, settecento lire...». «Eh, no — scattai allora — se qui non calate voi, l’affare non si combina». E infatti l’affare andò a fetecchie.
La decisione di Totò di lavorare per la televisione ha anche un substrato polemico. «Oggi è di moda fare un umorismo impegnato — dice. — L’attore comico stramazza sotto un bagaglio di allusioni e oscure intenzioni».
Una lira in più per tornare a casa in tram
Chi può immaginare, oggi, i teatri e quella gente di allora? Ad esempio, il Salone Elena di Roma, in piazza Risorgimento, dove feci la mia prima esperienza. Si chiamava «Salone», ma era una baracca di legno dove si recitavano soprattutto «La cieca di Sorrento» e «La sepolta viva», «L’ombra del disonore» e «Il capo della camorra». Ma io sapevo che da pochi giorni era stata scritturata la «Compagnia comica diretta da Umberto Capece» che faceva rivivere la maschera del Pulcinella napoletano. Fu Capece che mi consentì di passare «dall’altra parte». Non ero più lo spettatore Antonio De Curtis, ma Totò attore comico.
Ebbi subito successo e, quindici giorni dopo, la prima paga: due soldi al giorno. Questo mi incoraggiò, due settimane più tardi, a chiedere un piccolo aumento. Pioveva forte, quella sera, ed ero fradicio da capo a piedi.
«Signor Capece — gli dissi — mi basterebbe una lira per settimana: almeno i soldi per tornare a casa con il tram. Perché a piedi non ce la faccio più, andata e ritorno».
«Andate un po’ a far del bene alla gente!», brontolò Capece. E mi indicò la porta.
Prendendo il coraggio a due mani, anche per non dover ascoltare mia madre che mi rimproverava sempre di non essere diventato ufficiale di marina, decisi di presentarmi a don Peppe Jovinelll che era uno degli impresari più esigenti e più temuti di quel tempo. Peppe Jovinelli, a Roma, lo ricordano ancora oggi: una specie di gigante che, arrivato a Roma da un paese del napoletano, si era fermato in piazza Guglielmo Pepe ripulendola dalla giungla dei «bulli» e costruendovi, sessant’anni fa, un teatro cui diede il suo nome. Fu Jovinelli a lanciare Raffaele Viviani ed Ettore Petrolini, e a valorizzare attori come Armando Gill, Alfredo Bambi, Pasquariello e Gustavo De Marco.
Erano, appunto, le macchiette di De Marco che io conoscevo a memoria, soprattutto «Il bel Ciccillo» e «Il Paraguay». Le ripassai per bene davanti a uno specchio e mi presentai a Jovinelli. Non era il momento più opportuno perché aveva appena finito di scaraventare fuori del suo ufficio un attore che era arrivato tardi alle prove, tuttavia il colloquio fu abbastanza cordiale, molto più di quanto potessi sperare.
«Ah, siete napoletano?», chiese Jovinelli. «A me piacciono i napoletani. E, ditemi, siete anche bravo?». «Mah, dicono». «Dicono, dicono e chissà poi se è vero. Comunque, vi aspetto domani per le prove». Il giorno dell'esordio, mentre il pubblico batteva ancora le mani, don Peppe — contrariamente alle sue abitudini — si precipitò in palcoscenico. «Giovanotto, siete stato veramente bravo», mi disse stampandomi sulla schiena una pesante manata. La settimana dopo, Jovinelli mi «riconfermava» (come si dice nel gergo del teatro), mentre il mio successo veniva annunciato da nuovi striscioni dove il mio nome era scritto con caratteri alti mezzo metro. Mi sembrava di sognare.
Interpretando alla mia maniera le parodie vecchie e : nuove, con una buffa e disarticolata recitazione (più tardi mi presentarono, sui manifesti, come «l’uomo di gomma»), riuscii ad affermarmi in poco tempo. E, con l’avallo di Jovinelli, non ebbi difficoltà — allo scadere del contratto — a farmi scritturare prima all’Orfeo e quindi al Salone Margherita di Napoli, dove il successo prese proporzioni ancora maggiori. Tuttavia restava ancora un baluardo da espugnare, il più difficile, quel Teatro Sala Umberto di Roma che era appannaggio soltanto degli attori arrivatissimi.
Gli impresari non badavano a spese pur di assicurarsi i nomi più in vista. «Dovrò farne di anticamera prima di arrivarci», pensavo passando e ripassando davanti a quel teatro. Ma, per merito di un barbiere, la conquista fu assai più rapida del previsto. Il barbiere si chiamava Pasqualino ed era una specie di istituzione dell’ambiente teatrale.
Il «salone» di Pasqualino si trovava in via Frattina: a due passi, quindi, dal Teatro Sala Umberto che Cataldi e Cavaniglia gestivano in via della Mercede. Fu, appunto, in un pomeriggio di luglio che il cantante Gennarino De Pasquale mi portò da Pasqualino. «Artista?», chiese il barbiere. «Riconfermato da Jovinelli», rispose l’altro.
«A prescindere» sta dicendo Totò. Nel suo show televisivo, Totò vuol rivalutare la comicità immediata, classica. «Con l'umorismo impegnato — egli dice — il pubblico ci resta male perché non ha ancora finito di interpretare una battuta, che già deve analizzare faticosamente quella successiva».
I segreti di Totò compositore di canzonette
Quel «riconfermato», detto con tono di sussiego da Gennarino, valeva più di qualsiasi altro argomento. Se Jovinelli mi aveva rinnovato la scrittura, dovevo essere certamente un artista con la A maiuscola.
L’autorevole presentazione di Gennarino ebbe su Pasqualino un effetto immediato: fu l’«apriti Sesamo», che dico?, il talismano miracoloso per mezzo del quale il Teatro Sala Umberto non fu più una aspirazione, ma una realtà da toccarsi con mano. Pasqualino lavorò con abilissima diplomazia, strappando una mezza promessa a Cataldi e correndo subito dopo da Cavaniglia come se il contratto fosse già stato firmato. Così, ero appena stato liquidato da Jovinelli quando mi trovai — da un giorno all’altro — a debuttare al Teatro Sala Umberto. Fu un successo strepitoso.
Da quel momento, infatti, non fui più io a cercare lavoro, ma furono gli altri a cercare me. Ormai le grandi formazioni mi spettavano di diritto a cominciare dalla «Maresca numero due» dove fui il primo attore a fianco di Isa Bluette. Tra i successi più rilevanti di quel tempo c’è anche una commedia di Eduardo Scarpetta, «O balcone ’e Rusinella», che fu replicata per molte settimane al difficile teatro Nuovo di Napoli. Con me, lavorava Titina De Filippo.
Il resto appartiene al teatro di oggi, o quasi, a prescindere — dico — dal cinema. Anzi, qualcuno dice che Totò attore cinematografico ha finito con l'uccidere, poco a poco, Totò attore di rivista. Sono giusto trent’anni da quando ho incominciato: era, infatti, il ’36 quando ho interpretato il mio primo film, «Fermo con le mani». Da allora, i miei film si sono susseguiti a ritmo vorticoso. Non era difficile il caso che ne girassero due contemporaneamente, la qual cosa mi costringeva a spostarmi rapidamente — in macchina e già truccato — da un teatro di posa all’altro.
E adesso, se non vi dispiace, vogliamo parlare di Totò compositore? Da buon napoletano, perché è una cosa che abbiamo nel sangue. A Napoli, anche gli analfabeti sono in grado di improvvisare. Le poesie che preferisco le ho scritte nel mio dialetto e hanno un’ispirazione fondamentalmente triste che si ripete come un leit-motiv. Molte poesie, che io stesso ho musicato, hanno trovato la strada del successo: di queste, la più nota è «Malafemmena». Dovrei, ora, aggiungere qualcosa a proposito della mia vita privata, ma è un argomento che non desidero toccare. Dicono che sono troppo riservato, ma credo che un attore — quando esce da un palcoscenico o da un teatro di posa — debba appartenere soltanto a se stesso. Vedendomi sullo schermo o alla ribalta, la gente è portata a suppormi molto diverso da come sono nella realtà di tutti i giorni: un uomo semplice, credetemi, che concede ben poco a se stesso per divertire gli altri. E poco importa se, qualche volta, «gli altri» non capiscono.
Ne volete un esempio? Abitavo in una bella casa di viale Parioli dove, tra gli inquilini, c’erano anche un cardinale e un ambasciatore. Ogni volta che m’incontrava, il portiere mi salutava con tanto di «eccellenza» facendomi profondissimi inchini. Poi, una sera, si fece coraggio. «So che lei — mi disse — è un attore molto applaudito. Mi piacerebbe sentirla, una volta». Gli procurai due posti per quella sera stessa. Il giorno dopo, incontrandomi, non soltanto non mi salutò, ma mi rise in faccia. Da allora, non fui più per lui una persona rispettabile, ma un «saltimbanco».
Ho sempre lavorato molto, e ancora oggi — nonostante i disturbi alla vista — non mi risparmio. Anche quando potevo servirmi di un Galdieri in piena forma, gli sketches più sostanziosi li elaboravo pazientemente fino al momento in cui li sentivo «su misura», come facevano del resto Viviani e Petrolini. Ricordo che a Firenze, dopo dieci giorni di esauriti, fui riconfermato con un aumento di paga da 75 a ben 200 lire.
Ero con la compagnia Maresca: una sera, il capocomico mi pregò di stare fermo quando non dovevo recitare perché il pubblico rideva e si distraeva a danno degli altri interpreti.
Da ragazzo mi chiamavano «’O spione»
La sera successiva, l’incontrai poco prima che si iniziasse lo spettacolo: «L’ avevo pregata — mi disse — di non "monopolizzare” il palcoscenico quando non è di scena. E’ vero che lei, ieri sera, non si muoveva, ma soltanto teoricamente: perché, anche stando fermo, era tutto un movimento. E il pubblico rideva più di prima. Quindi, faccia quello che le pare».
Più di una volta, camminando per la strada, mi sono sorpreso a seguire qualche tipo stravagante, osservandone minutamente i gesti e assimilandone il modo di camminare, di muoversi, di salutare e di gesticolare. Da ragazzo, mi chiamavano «’o spione». Se fossi uno studioso di psicanalisi, dovrei definire questa abitudine come «il complesso dei fratelli siamesi». Infatti, non appena noto un tipo che mi colpisce per alcune caratteristiche, mi sembra che un fluido mi leghi a lui, ragion per cui divento l’altra parte dell’individuo che osservo, costituendo — con lui — un’ideale coppia di gemelli.
Totò-marionetta, due generazioni di spettatori hanno applaudito in passerella. Nato a Napoli il 15 febbraio 1898, il principe Antonio De Curtis Gagliardi Ducas Comneno di Bisanzio, in arte Totò, iniziò la carriera teatrale nella sua città mezzo secolo fa. Debuttò nel cinema nel 1936 con «Fermo con le mani».
Da questa mia predisposizione all’osservazione sono nati i tipi del bigotto che prega convulsamente e che segue la processione con una candela in mano, dell’uomo che incontra per la prima volta una bella donna e la «passa» attentamente dai piedi fino al volto, del burocrate addetto ai timbri, del gagà di via Veneto e dì infiniti altri personaggi. E così il rifare il verso a modi di dire orma; invalsi nell’uso comune, come «a prescindere», «apoteosi» o «io sono un uomo di mondo». Dalla risata di Ermete Novelli al «pourquoi?» di Grock e al «t’è piaciuto» di Petrolini, questi motivi obbligatori costituiscono ormai una tradizione.
E così, credo di avervi detto tutto, meno la data di nascita. Sono nato un quindici febbraio, acquariano, porta buono. Ma l’anno, che importanza può avere? Un attore non lo deve sapere mai. L’importante è sentirsi giovani E io mi sento giovane e sempre pronto a tornare ancora una volta sul palcoscenico e a togliere dal «cassetto dei ricordi» quel piumetto che un bersagliere del «Terzo» mi gettò una sera dal loggione ai tempi di «Eravamo sette sorelle». Quel piumetto che diede vita alla mia più felice improvvisazione.
Totò
Antonio de Curtis, «La Settimana Incom Illustrata», anno XIX, n.18, 1 maggio 1966
Antonio de Curtis, «La Settimana Incom Illustrata», anno XIX, n.18, 1 maggio 1966 |