Caro Totò: due giorni prima aveva girato la scena di un funerale
Negli ultimi giorni aveva detto: «Adesso che qualcuno s’è accorto che posso essere un grande attore, la salute non mi aiuta più». Quasi cieco, continuava a lavorare, col suo splendido talento e con l’umiltà di un principiante, ma ogni giorno cresceva dentro di lui la paura della morte... Quasi cieco, era tornato davanti alla macchina da presa per un nuovo film. «Io chiudo con un fallimento», disse a un amico negli ultimi tempi, deluso e rattristato per le «schifezze» che aveva dovuto interpretare durante uniti anni. Temeva di ammalarsi sul lavoro ed era terrorizzato dalle malattie polmonari: non si aspettava il colpo improvviso e fatale al cuore.
Roma, aprile
Quarantott'ore prima di morire, Totò segui con aria affranta un finto funerale. Era la prima scena di un nuovo film. L'occhio di vetro della macchina da presa fissava il suo volto, ma c'erano anche occhi umani che lo scrutavano preoccupati: quelli del regista e della troupe. Totò non stava bene. Stretto in uno dei soliti cenci a forma di giacca, che da anni erano la sua divisa di lavoro, marciava dietro il carro funebre recitando la parte del dolente, ma senza convinzione. Quando la scena finì, parve come svegliarsi, sollevato: infilò le mani sotto la giacchetta, esplorò col tatto la pelle per sentire, come al solito, se c'era sudore. Tirava vento di scirocco, la primavera era giunta di colpo, il sudore c'era.
Totò prese congedo dalla troupe - salutava sempre tutti alla fine del lavoro - e trotterellò incespicando nei fili elettrici fino alla sua Mercedes grigia. «E arrivalo il caldo», disse. L'autista lo aiutò a salire e chiuse la portiera. Il caldo, per Totò, era una tragedia. Non soltanto per il sole che lo costringeva a inforcare grossi occhiali a difesa degli occhi quasi ciechi, ma anche per il sudore, che si formava abbondante sotto le sue marsine scure e pesanti e Io consegnava poi fragile e indifeso alle correnti d'aria. L'incubo delle malattie gli era nato nel 1957, quando una broncopolmonite stava per mandarlo all’altro mondo e i medici lo salvarono con una violentissima somministrazione di antibiotici. E forse era stata proprio quella cura cosi radicale a provocargli l'emorragia retinica che doveva renderlo progressivamente cieco.
La Mercedes grigia si fermò davanti al portone di casa. L’autista, tenendolo delicatamente per un gomito, lo guidò su per la breve scalinata d'accesso, fino all'ascensore. Vi entrò anche lui, schiacciò premurosamente il pulsante del terzo piano e sali fino alle soglie del trono di Bisanzio. La cameriera aprì la porta, e nell’atto di porre piedi in casa sua l’attore comico Totò ridivenne il principe Antonio de Curtis Gagliardi Griffo Focas Comneno, ultimo erede della corona dell'Impero romano d’Oriente. Vi furono momenti d'attesa prima che ritornasse verso l’ingresso con gli ordini per il giorno dopo. Quando riapparve, teneva in mano un disco. Era l’incisione fonografica di alcune sue poesie, appena realizzata, e prendeva il titolo dal più importante dei brani contenuti nel disco, 'A livella. La livella, cioè la morte, che pareggia il nobile e il plebeo, il potente e lo spazzino.
«E arrivata la livella», disse Totò rigirandosi il disco tra le mani. «L'ho ascoltata. La poesia mi piace sempre, anche l'incisione è buona. Però... mannaggia... è ’a livella proprio ca nun me piace cchiù. Tieni, portatela via», e regalò il disco all'autista.
L’attore era nato a Napoli il 15 febbraio 1898. Negli ultimi giorni aveva detto: «Adesso che qualcuno s'è accorto che posso essere un grande attore, la salute non mi aiuta più». Quasi cieco, continuava a lavorare, col suo splendido talento e con l'umiltà di un principiante, ma ogni giorno cresceva dentro lui la paura della morte...
Verso sera decise di consultare un dottore. Non si sentiva bene, pareva che si trattasse di un disturbo gastrico: aveva cercato invano di mandar giù una minestrina. Dopo che il medico ebbe tatto i prelievi necessari a una serie di analisi urgenti, se ne andò a letto inquieto e trascorse la notte sul venerdì tra incubi e continui risvegli.
Ma all’alba dell’ultimo giorno della sua vita si sentiva meglio. Non doveva né lavorare né uscire, per fortuna. Poteva rimanersene in casa tutto il giorno con la moglie e ne fu felice. Per l'intera mattinata passeggiò in vestaglia per i noti sentieri della sua dimora, inforcando occhiali verdi e leggeri. Più che una casa, la sua era un universo intero, l’unico universo che appartenesse solamente ad Antonio de Curtis principe di Bisanzio e non al suo servo Totò. Là dentro le cose erano quelle che il principe aveva deciso che fossero: bei mobili francesi e veneziani, buoni quadri Ottocento, finissimi pezzi giapponesi, cinesi e di Capodimonte. E stavano nei punti precisi che il principe aveva loro assegnato, dopo che erano arrivati in casa grazie alle fatiche di Totò.
«Qui dentro», diceva spesso, «io sono quello che Totò, per colpa della sua mascella dirupata, non ha potuto essere nel mondo degli uomini: sono re, ammiraglio, sacerdote, magistrato». E pieno di questo sottile piacere passeggiava sicuro e silenzioso come un fantasma, sulla moquette dei corridoi e del salone. Lo seguivano i suoi barboncini, e il pappagallo Gennaro lo chiamava con un fischio, come sempre quando lo sentiva in casa: e il principe, puntuale, gli andava a rendere visita.
Il film che per primo rivelò al grande pubblico delle sale cinematografiche le qualità artistiche di Totò fu «San Giovanni decollato», tratto dall’omonima commedia di Nino Martoglio. Alla sceneggiatura di questa pellicola, diretta nel 1940 da Amleto Palermi, collaborò Achille Campanile. L’enorme immediato successo del film fu dovuto soprattutto alla finezza espressiva di Totò e alla sua imprevedibile estrosità mimica. Ci fu allora chi lo chiamò il Buster Keaton del cinema italiano, una scattante marionetta-uomo dalla mascella «deragliata», intrisa di patetici umori napoletani. Sapeva far ridere senza nemmeno aprir bocca.
La cameriera gli portò come al solito i giornali, che egli si accontentò di sfiorare con la mano. Più tardi glieli avrebbe letti Franca: lui, da solo, non ci provava neanche più. Se ne andò sul balcone e, chiudendo gli occhi, si lasciò riscaldare dal sole per molti minuti. La livella gli era uscita di mente e pareva lontanissima. A colazione, lo stomaco accettò qualche cosa e resse poi le sigarette, alle quali Totò non intendeva minimamente rinunciare. Ne faceva un vero abuso da almeno quarant'anni: fino a due pacchetti al giorno. E anche l’ultimo giorno ne fumò qualcuna.
Nel pomeriggio il medico fece sapere che le analisi non avevano rivelato nulla di sospetto, e allora lui si trastullò per qualche ora col registratore a nastro, tutto solo, rannicchiato in una poltrona del suo immenso soggiorno. Sul nastro erano incise le battute del suo prossimo film. Totò le riascoltava, le mandava a memoria, provava a dirle: non potendo più leggere, doveva arrangiarsi così. Ma non aveva un vero desiderio di lavorare: appunto, si trastullava. Sua moglie andò a tenergli compagnia. Parlarono a lungo tra loro, Totò era in vena di ricordi: i ricordi di un vecchio.
«Chiudo in fallimento, amico», aveva detto pochi giorni prima a uno dei pochissimi privilegiati che erano ammessi in casa sua. Si riferiva all'insieme della sua lunghissima carriera. «Centoquattordici film, di cui almeno cento una schifezza: adesso che qualcuno s’è accorto che posso essere un grande attore, la salute e le forze non m’aiutano più.» E tuttavia «il principe» faceva alzare «Totò» tutte le mattine alle sei, e lo mandava a lavorare in bombetta e marsina, con qualunque tempo, per dar da vivere all'erede del trono di Bisanzio, che malgrado la sua discendenza non aveva potuto studiare oltre le elementari, ed era cresciuto in povertà. Antonio de Curtis voleva che Totò, con le ultime energie, prima del sopraggiungere della livella, facesse qualcosa d'importante da lasciare dietro di sé, qualcosa di diverso dalla marionetta con la mascella sgangherata e gli arti snodabili. Per questo si era sobbarcato recentemente a fatiche immani, in balia di registi giovani, intellettuali, pignoli e mai contenti, con l’umiltà di un apprendista. Ed era riuscito a guadagnarsi un paio di riconoscimenti e di premi, finalmente. (Ricevendoli, si presentava alle autorità con una specie di saluto militare, da recluta intimidita; sembrava anche questo uno scherzo, ma il fatto è che salutava cosi perché le autorità non le vedeva più, erano ombre scure davanti ai suoi occhi malati.) Un paio di premi, mentre la sua avrebbe potuto essere la carriera di un Chaplin, se la produzione italiana non si fosse mostrata cosi pervicacemente ottusa.
Per più di trent’anni, Totò era stato gettato regolarmente in pasto a un pubblico affamato di allegria, insaziabile, sanguigno, che andava poi a caccia del suo volto anche fuori dei cinema e dei teatri, inseguendolo per via e negandogli un solo minuto di tranquillità e di pace. Per questo egli era diventato un solitario, per questo si chiudeva in casa. Alle amarezze sul piano artistico dovette anche aggiungere una serie di deludenti esperienze sul piano umano. Poi, negli ultimi quindici anni, dopo il matrimonio con Franca Faldini - molto riuscito nonostante i frizzi di qualcuno - l’equilibrio e la serenità erano tornati a regnare nella sua vita privata.
Un altro gustoso travestimento di Totò (a destra, in alto) nel film Totò diabolicus del 1962. Sopra: il comico in una scena di Uccellacci e uccellini, diretto da Pasolini e prodotto nel 1966. Per la sua interpretazione in questo film Totò ottenne la Palma d'oro al Festival di Cannes. Una delle ultime pellicole interpretate da Totò fu Rita la figlia americana, nella quale il popolare comico, diretto da Piero Vivarelli, recitò al fianco di Rita Pavone (a destra) e di Fabrizio Capucci. Pochi giorni or sono Totò aveva cominciato a girare le prime scene di un nuovo film, Il padre di famiglia, diretto da Nanni Loy.
Nel 1951 Totò e Aldo Fabrizi (a sinistra) furono i protagonisti di Guardie e ladri, diretto da Steno e Monicelli. Per questa sua memorabile interpretazione, ricca di genuini spunti comici e di un perfetto equilibrio umoristico, Totò ottenne un Nastro d'argento, primo riconoscimento ufficiale dei suoi meriti cinematografici. Nel 1953, diretto da Luigi Zampa, Totò fu il protagonista di La patente, uno degli episodi del film Questa è la vita. Egli interpretò il personaggio pirandelliano di Rosario Chiarchiaro (sotto), un napoletano superstizioso ossessionato dal malocchio. In (mollo stesso anno Totò girò anche il film Una di quelle.
Ma adesso era arrivata anche la livella. Alle ventuno di venerdì, Totò riuscì lentamente a consumare una minestra di semolino. Ma poco dopo disse: «Eppure non mi sento, proprio non mi sento bene». Ritornava inquieto, pareva intento ad ascoltarsi, a studiarsi. Altre volte qualcuno lo aveva visto così: quando gli era parso di percepire in casa un remoto scricchiolìo, e subito pensava ai ladri. Ma stavolta pareva tutto concentrato sul suo petto, come un orologiaio sul cronometro che perde colpi. E puntuale, atteso, accolto con una smorfia di odio, il dolore arrivò: come una fucilata, dritto sul cuore.
«Sto male, sto male», disse. Sudava e tremava. L’attacco lo aveva colto in piedi in un minuscolo corridoio, vicino al telefono. Franca e la cameriera lo trovarono appoggiato a uno stipite. Piano, pianissimo, il vecchio principe di Bisanzio fu sorretto fino alla sua stanza. Lì si adagiò sul letto, da solo. Era molto pallido, respirava con pena, ma nel suo sguardo c’era dell'incredulità. Temeva acutamente le malattie, ma quelle di cuore non se le aspettava. «Ho un cuore fortissimo», aveva sempre detto in giro, «ho lo stesso numero di pulsazioni che aveva Bartali ai suoi tempi d’oro». Tutte le sue speranze di lavorare ancora qualche anno, di «chiudere» da grande attore qual era. le aveva affidate proprio al cuore, perché già gli occhi lo avevano tradito, e dei polmoni non si fidava. Dunque, il cuore: quello lo tradiva, ora...
Capì che la «livella»
era venuta
a prenderselo
Durante i pochi minuti che trascorsero fino all’arrivo del medico di famiglia e del cardiologo, Totò rimase immobile sul letto, riverso e paludato nella sua ricca vestaglia. Osservava con aria sgomenta, muovendo appena gli occhi, il drammatico viavai della moglie e della cameriera che, pallidissime, cercavano di prestargli qualche aiuto. «Come va? Dove ti la male? Senti freddo? Sudi ancora?». Totò rispondeva con una smorfia dolorosa, chiudeva gli occhi. Se era davvero il cuore (e sì, quella tremenda fucilata bruciava proprio nel punto giusto), forse aveva davanti a sé una triste vecchiaia di invalido. Avrebbe dato chissà quanto fastidio, ecco come finiscono le marionette che hanno troppo ballato.
La morte non gli venne in mente, nei primi istanti. Intorno a lui c’erano ancora sprazzi di vita normale. La televisione, dimenticata accesa, borbottava da lontano il dialogo di una commedia. I barboncini erano ancora in giro. Ma poi, quando i medici fecero portare una bombola d'ossigeno, l'atmosfera cupamente cambiò. La televisione fu spenta, i cagnolini rinchiusi, le luci tenute accese in tutta la casa svegliarono il pappagallo Gennaro, che cominciò a fischiare invano. Al telefono, riparata da molte porte chiuse perché il malato non si spaventasse, Franca Faldini avvertiva piangendo i familiari e gli amici più stretti.
Fu allora che Totò comprese, ed ebbe paura. Era lei, era la livella. Tanto l'aveva presa in giro, per anni e anni, su tutti i palcoscenici, che adesso lei era venuta a prenderselo. E il principe di Bisanzio fu pieno di quel cieco panico che l’aveva sempre invaso al pensiero della morte, di quel terrore che lo investiva non appena sentiva un po’ di febbre. La sera di venerdì calò su di lui un terrore cieco e pazzo, centuplicato dalla vista delle siringhe dei cardiotonici e della maschera dell’ossigeno. Totò tremava tutto, la Faldini lo supplicava di restare calmo, e lui, con gli occhi pieni di lacrime, «Che m' aggi’a calmà», ripeteva «che m'aggi'a calmà».
Attraverso la porta d'ingresso lasciata socchiusa s’infilavano in casa i parenti e gli amici. Cinque, sei persone in tutto, tra cui la liglia Liliana, il genero e la fedelissima «spalla» dell’attore, Mario Castellani. Restavano fuori dalla stanza per non allarmarlo troppo. Poi l'ossigeno e i cardiotonici fecero effetto, il respiro divenne meno affannoso, il sudore cessò. Totò parve addormentarsi, ma era solo un orribile dormiveglia, era il mostruoso torpore dello stato preagonico, durante il quale si decide se l’organismo supererà la crisi oppure no.
Napoli lo aspettava in lacrime
Il silenzio di Totò durò tre ore. Verso le due del mattino egli riaprì gli occhi. TI suo respiro era diventato un rantolo penoso. Ai lati, distrutte, sua moglie e sua figlia si tenevano le mani, e Totò poteva specchiarsi nella loro disperazione. La sofferenza era tanta che desiderava solamente morire. La sua paura della morte - una paura che lo accompagnava ogni giorno, che gli fu accanto per tutta l’esistenza - adesso se n'era andata. «Dottore, professore, lasciate perdere», mormorò a fior di labbra, «lasciate andare le cose come debbono andare». Bisbigliò poi qualcosa al medico di famiglia: avrebbe preferito morire a Napoli, era possibile, si poteva trasportarlo? Non si poteva. Ma lui volle un'altra garanzia: «Dovete portarmi a Napoli, dopo. A Napoli, dai miei». Era logico, nessuno avrebbe potuto pensare altrimenti, a Napoli la sua tomba era preparata da un pezzo. Ma lui voleva quella promessa, il principe di Bisanzio aveva impartito il suo ultimo ordine.
Da quel momento in poi cercò soltanto gli occhi di Franca Faldini. Mentre i rantoli gli devastavano il petto, ebbe ancora la forza di dire qualcosa. «T'aggio voluto bbene», sospirò, «e si' stata tutt’o bbene mio». Nell’ultimo bisbiglio, negli ultimi sguardi, nel convulso stringersi delle mani e nel mescolarsi delle lacrime, l'uomo e la donna si scambiarono messaggi tremendi e definitivi, dai quali ogni altro essere poteva dirsi escluso. Tranne, forse, un piccolo essere lontano, sepolto da tanti anni sotto il marmo di un cimitero: Massimiliano, il figlio nato ma non vissuto.
Poi Toto scivolò nell'incoscienza, e alle tre e mezza di sabato spirò. La livella aveva furiosamente fatto il suo mestiere, senza risparmiare alla sua vittima neanche un po' di sofferenza. L’umorismo di Totò era stato spesso macabro e grottesco. Molte volte l’attore aveva recitato la parte del finto morto, con le mani in croce e il fazzoletto legato sotto il mento. Ed ecco, l’irridente finzione diventava realtà: Totò, la vecchia marionetta che negli ultimi tempi aveva piroettato per un pubblico che non vedeva più, si agitò ancora penosamente durante le operazioni di pietà che si riservano ai morti, poi giacque inerte ed esile su un letto troppo bianco e troppo grande.
Fu rivestito con una giacca blu dai bottoni d'oro, pantaloni grigi e calze nere. I piedi erano tenuti insieme da un vivace foulard. Tra le mani gli avevano messo un rosario e un mazzo di freschissimi boccioli di rosa. Intorno al letto, quattro candelabri di ottone. Quando spuntò l'alba, la finestra fu aperta, un venticello tiepido entrò a gonfiare le tende bianche.
Il gentiluomo che si nascondeva dietro la maschera di Totò era uscito in punta dei piedi dalla scena, zitto e solo, senza infastidire nessuno. I produttori, i registi, gli attori e le attrici con o senza figli segreti dormivano ancora della grossa. La notizia della morte di Totò li avrebbe sorpresi più tardi, al risveglio. Molti si sarebbero vestiti in fretta per correre a casa del morto a dire la propria davanti ai microfoni. Erano stati tutti amici di Totò, gli avevano voluto tanto bene, tutti quanti. E lui, steso nel grande letto bianco, avrebbe certamente confermato col silenzio ogni loro dichiarazione»
Ma assai prima dei pezzi grossi arrivarono i pezzi piccoli. Alle sette del mattino sul portone di casa de Curtis cera già una piccola folla. Cerano donnette salite dai quartieri bassi, operai diretti al lavoro, garzoni, tranvieri, spazzini.
C'erano studenti e panettieri, straccivendoli, vecchi pensionati e comparse di Cinecittà con le scarpe consumate. La radio e un misterioso tam-tam avevano avvertito tutti i veri amici di Totò, e molti volevano dargli l'ultimo saluto. Col passare delle ore, la schiera dei pezzi piccoli s'ingrossò, divenne folla, processione bisbigliarne. Nessuno di questi poveretti sapeva fare coerenti discorsi critici, e col legare Totò con la commedia dell’arte o con le antiche atellane. Nell'umile commemorazione che si faceva lì, sul marciapiedi, ricorrevano soltanto grezzi frammenti di racconto: «Ha pagato l'ospedale per mia madre», «Ero affamato e mi ha messo ventimila lire in mano», «Mi ha preso un avvocato, mi ha fatto uscire da Regina Coeli».
Così trascorsero sabato e domenica. Lunedi mattina Totò uscì per sempre da casa sua, chiuso in una bara. Toccò una chiesa, attraversò Roma, infilò l’autostrada e arrivò a Napoli, «dai suoi». Li lo aspettava un mare di gente in lacrime. Un immenso esercito gli andò dietro, lo aspettò lungo le strade e gli regalò lacrime in cambio di tanti sorrisi. Napoli si inchinava a Totò, milioni di altri, a centinaia di chilometri di distanza, imitavano Napoli. E tutti hanno capito che cosa veramente intendeva Totò quando insisteva in quella stranezza di farsi chiamare «principe». Tutti abbiamo capito quanti sudditi avesse ancora il suo impero di Bisanzio.
Pietro Zullino, «Epoca», anno XVIII, n.865, 23 aprile 1967
Pietro Zullino, «Epoca», anno XVIII, n.865, 23 aprile 1967 |