Liliana de Curtis: la vita ha dato molte coltellate alla schiena di mio padre

Totò Liliana

Liliana de Curtis e la madre (che fu la prima moglie del grande comico recentemente scomparso) non avevano mai fatto confidenze sulla vita privata dell’attore, per non offenderne la suscettibilità. Da questa commossa rievocazione, Totò rivive negli aspetti più sconcertanti del suo carattere.

Roma, maggio

Si sa quasi tutto sul popolarissimo Totò, presentato ora per la prima volta ai telespettatori in una sequenza di telefilm e show, ma poco si conosce dell'uomo, Antonio de Curtis «principe bizantino», che volle avvolgere nel riserbo la sua vita privata. Franca Faldini, la seconda moglie, ce ne ha dato un ritratto inedito nell'intervista esclusiva che abbiamo pubblicato la scorsa settimana. Ora è la volta di Liliana, l’unica figlia dell’attore, e di Diana Rogliani, la prima moglie. Anch’esse non avevano mai fatto confidenze a un giornalista per non ferire la suscettibilità di Antonio de Curtis; solo dopo la sua morte escono dal silenzio accogliendo l’invito di Oggi.

Totò diede alla figlia il nome di Liliana in ricordo della bellissima cantante Liliana Castagnola, che nel ’30 si uccise per amore di lui e fu sepolta nella tomba della famiglia De Curtis a Napoli. La figlia dell'attore ha trentaquattro anni, è separata dal marito Gianni Buffardi e vive in un attico nel quartiere residenziale di Vigna Clara, dove ci siamo incontrati. Abitano con lei i figli, Salvatore Antonio, detto Antonello, quindici anni a luglio, e Diana, che sta per compierne dodici. Antonello ha una notevole somiglianza, molto commentata in famiglia, con Totò da giovane. Nel corso della sua accanita «battaglia araldica», Totò ottenne anche due successi per il nipote: la Repubblica di San Marino riconobbe al ragazzo il titolo di «conte di Ferrazzano», e un decreto del presidente della Repubblica italiana gli consentì di aggiungere al suo cognome quello di De Curtis.

1967 Diana de Curtis Liliana de Curtis L

Diana Rogliani Serena di San Giorgio sposò Totò a Roma nel ‘32, con rito civile poi confermato religiosamente. Nel ’39 i coniugi ottennero in Ungheria l’annullamento del matrimonio e la sentenza fu convalidata in Italia, sicché furono liberi di passare ad altre nozze civili. Diana diventò la moglie dell'avvocato Michele Tufaroli, ma anche questa seconda unione non fu fortunata. Liliana e la madre hanno mantenuto rapporti affettuosi, benché la famiglia si sia sfasciata. C'è di più: Diana e Antonio de Curtis erano tornati amici e si vedevano spesso, con opportuna discrezione, in casa della figlia.

Lei, signora Liliana, è riuscita a ricostruire in qualche modo l’armonia che i suoi genitori avevano spezzato molti anni fa. Vuol raccontarci i retroscena di questa vicenda familiare?

Non giudico mio padre e mia madre, benché io abbia molto sofferto per il loro disastro coniugale. In quel lontano '33 i miei genitori vivevano in un alberghetto romano di via della Vite; da alcuni anni papà era passato dall'avanspettacolo alla rivista, ma i suoi guadagni erano ancora saltuari e modesti sicché non poteva permettersi il lusso di una casa. Mia madre aveva paura di partorire in una camera d’albergo, ma papà non volle saperne di portarla in clinica. Respinse la richiesta per una vecchia superstizione napoletana e anche per una furiosa gelosia. Ebbe ragione lui: io venni alla luce normalmente nel maggio di quell'anno e Totò festeggiò l'evento comperando la sua prima macchina, una «Balilla» di seconda mano, su cui cominciò a scarrozzarmi mentre ero ancora in fasce. Avevo quaranta giorni quando iniziai a viaggiare con lui e mia madre nelle tournée in tutta Italia. Pareva che nulla al mondo potesse insidiare la nostra piccola famiglia.

Invece a soli quattro anni fui chiusa in un collegio-nido: era esplosa la prima burrasca fra i miei genitori, che si erano separati di fatto. Il grande affetto che avevano per me li spinse a riunirsi, liberandomi dal collegio, ma i nostri guai erano appena cominciati. Nel '39, dopo una laboriosa manovra legale, il matrimonio fu annullato. Rimasto solo, papà riversò su me tutto il suo amore. Volle che abbandonassi la scuola pubblica e studiassi in casa, per avermi sempre accanto e assicurarmi un’educazione da... principessa reale. Grazie al cinema, un film dopo l'altro, non aveva più preoccupazioni finanziarie. Fui sommersa da un’ondata di insegnanti. Ero alle prese tutto il giorno con lezioni di lingue e danza classica, tennis, equitazione, pianoforte e balli moderni. Non imparavo quasi niente, detestavo la musica e i cavalli mi facevano una paura da morire. Mio padre non si arrendeva: «Sei apatica, perché ti manca la guida della mamma». Può sembrare assurdo, ma i miei genitori tornarono a vivere insieme per amor mio benché fossero coniugi annullati. Il ménage si sfasciò definitivamente nel '50.

Mi ero frattanto innamorata di Gianni Buffardi, un ragazzo diciottenne conosciuto a Capri. Presi una decisione fulminea: lo sposo e mi lascio alle spalle le disgrazie della mia famiglia. Papà era disperato: «Sei ancora una bambina», gridava, «una pazza precoce molto più pazza di me, ripeti l’errore mio portandolo a dimensioni madornali. Hai tanto tempo per una decisione ragionevole». «Proprio tu», gli rispondevo con crudeltà. «pretendi di guidarmi al matrimonio perfetto!». Nel '51, lo stesso anno in cui mia madre sposava l'avvocato Tufaroli, io celebravo impavida le nozze con Gianni ad Assisi. Mio padre rifiutò di assistere al rito. Ho pagato caro quel colpo di testa. Nemmeno la nascita di due figli è bastata a salvare la nostra unione, sciolta legalmente nel '64. Papà commentava: «Tu e io siamo legati non solo dal sangue, ma dalle comuni disgrazie». La vita ha dato molte coltellate nella schiena a mio padre; ho il rimorso di esser stata anch'io fra coloro che l'hanno fatto soffrire. Eppure gli ho voluto un bene immenso. Papà è stato il mio migliore amico. I nostri dialoghi correvano sul filo di un sottile umorismo napoletano, mi riconoscevo in lui persino nelle sfumature del carattere. Per merito suo ho ritrovato la volontà di vivere dopo il mio naufragio coniugale. Ora che ho perduto papà, c'è un gran vuoto in me.

Mentre l’aggressivo Totò scatenava l'ilarità popolare dal palcoscenico e dallo schermo, il deluso «principe bizantino» tentava di rifarsi una vita. Lei soffrì per la decisione di suo padre di sposarsi nuovamente?

Totò conobbe la signorina Franca Faldini poco dopo la sua rinuncia alla carriera di «star» americana, come lei stessa vi ha raccontato, e la sposò civilmente nel ’54. Confesso che restai sconcertata. Franca aveva poco più della mia età, poteva essergli figlia. Ma, frenando ogni impulso, evitai di contrastare la loro unione. Hanno vissuto insieme fino al tragico epilogo come coetanei.

Quali rapporti ha con la seconda vedova di suo padre?

Finché papà era vivo, i rapporti fra noi sono stati ottimi e anche intensi. Dopo la morte allucinante di mio padre, le prospettive sono ovviamente mutate. Anche se Franca e io non coltiveremo una relazione assidua, non ci mancheranno certo le occasioni per incontrarci.

Come ha potuto ottenere in questi ultimi anni il riavvicinamento dei suoi genitori? Lo psicanalista direbbe che s’è voluta liberare dal trauma che la condizionò sin dall'infanzia.

Ho soltanto interpretato e favorito il desiderio di entrambi. Ora ho almeno il conforto di ricordare che mio padre e mia madre si sono rivisti qui più volte. L’ultimo loro incontro avvenne pochi giorni prima della morte di papà.

Diana Rogliani, la moglie «annullata» di Totò, compare silenziosamente nel soggiorno di Liliana. Bruna, snella, ha un aspetto così giovanile da sembrare la sorella di sua figlia.

Quali reazioni ha avuto, signora Diana, nell'incontrare Antonio dopo tante tempeste? Rimorsi, rancori? Lei fu al suo fianco nei tempi difficili, poi è scivolata nell'ombra.

Rancori assolutamente no, per nessuno. Fu un bizzarro destino a tracciare per me e per lui strade diverse. Ma al di sopra delle nostre burrasche ho sempre seguito anche da lontano la straordinaria carriera di Totò con affettuosa ammirazione. Antonio ha apprezzato il mio atteggiamento discreto. Quando ci siamo rivisti, abbiamo ricordato insieme serenamente gli anni spinosi. Lui parlava con nostalgia delle sue origini artistiche, il favoloso avanspettacolo. Io rievocavo certe azzardate tournée con le compagnie di rivista, gli incerti esordi nel cinema, che d'un tratto gli aveva aperto le porte nel '34. Totò era fiero di esser venuto «dalla gavetta» : tutto serve, diceva, per capire il pubblico. Ero contenta che Antonio si fosse assicurato una nuova vita familiare con Franca Faldini e che trovasse qui, nella casa di nostra figlia, l’affetto e l’ammirazione dei nipoti.

Totò aveva il riso difficile nella vita privata, eppure mi è riuscito più volte di provocare la ilarità sua e dei ragazzi. Ricordavo, per esempio, un nostro viaggio avventuroso a Padova, durante una tournée. Eravamo arrivati di sera, e io, stanca morta, non vedevo l'ora di riposarmi: mi parve un angelo salvatore quel portiere che ci mise a disposizione l’unica stanza matrimoniale. Salimmo al primo piano ma Totò fece un balzo indietro, lanciando furiosi scongiuri: «A me», esclamò, «la camera numero tredici non me l'ha mai appioppata nessuno! Dietro front». In altri tre alberghi ci capitò di nuovo il numero tredici o, peggio ancora, il diciassette. Raggiungemmo in taxi un paesetto, dove grazie al cielo le stanze della locanda non erano numerate. Il raccontino suscitò una franca risata di Antonio: «Vivere con me», commentò, «non è mai stato facile».

Un’altra volta Totò si vide assegnare in treno la cabina letto numero sedici bis. «A me non mi fregano», disse secco, «Il sedici bisse è un diciassette con la maschera». Si limitò, comunque, a far svitare dalla porta la targhetta numerata. Se passava per strada un gatto nero, lui si lasciava precedere da altre cinque persone prima di proseguire.

«Così», borbottava, «la iettatura non cade tutta sulla mia capa». Evitava di toccare gli annunci di morte che ci arrivavano in casa; dovevamo aprirli noi, ma lui faceva regolarmente celebrare messe ad memoriam. Tutto ciò che era nero gli ripugnava. «Quando me ne vado all’altro mondo», diceva. «non mettete il lutto, per carità! Ho sempre amato tanto i colori, vestitevi magari in scarlatto». Invece portiamo il lutto; il conformismo ci evita i pettegolezzi della gente.

Totò era pieno di contraddizioni, come tutti gli artisti autentici. Affrontava il pubblico con un’irresistibile comicità di getto, frutto della sua straordinaria capacità di osservare il mondo. Ma in un salotto diventava un musone paralizzato dalla timidezza. Aveva bisogno di esser circondato dalla famiglia, ma talvolta si staccava bruscamente da tutti per «rompere l’assedio della schiavitù sociale». Era profondamente religioso, ma andava poco in chiesa. So che durante l’agonia trovò la forza di dire: «Ricordatevi che io sono cattolico apostolico romano».

(Riprendiamo la conversazione con Liliana de Curtis.)

Signora Liliana, suo padre le parlava di progetti per il futuro? Aveva fiducia di poter lavorare ancora a lungo?

Era deciso a ritirarsi da ogni attività nel giro di pochi anni, dopo qualche film ad alto livello, finalmente, e una tournée col teatro di prosa. «Ma devo sbrigarmi», mi confessava negli ultimi tempi, «perché io non camperò mica molto. Voglio finire i miei giorni in un convento per prepararmi all'aldilà. Qualcosa di buono ho fatto, ho cercato di aiutare il prossimo, ma sono stato anche un grande peccatore. Non ho mai resistito, per esempio, al fascino femminile. Però dovrò cucirmi nel saio un po’ di denaro, per pagarmi i medici e le ottanta sigarette al giorno. Il tribunale dell’aldilà, dico, mi metterà in conto anche il vizio del fumo?».

Totò non pensò mai di sfruttare la sua popolarità a fini politici?

Ci avevo pensato io, convinta che mio padre possedesse un magnetismo irresistibile. Talvolta lo incitai a presentarsi candidato a Napoli nelle elezioni. Lui scuoteva la testa: «Figlia mia, sono già un impiegato del cinema e tu pretendi che mi impieghi pure nella politica, che mi attrae ancora meno».

Suo padre aveva girato centonove film, facendo affluire nelle tasche dei produttori una cinquantina di miliardi. Salvava qualcosa, a livello d’arte, in quel torrente di celluloide?

Ricordava volentieri soltanto Yvonne la nuit, Guardie e ladri, Il comandante, L’oro di Napoli, I soliti ignoti, Arrangiatevi, La Mandragola, Uccellacci e uccellini e gli episodi da lui interpretati nelle Streghe e in Capriccio italiano. Riferendosi agli ultimi tre film, diretti da Pasolini. Totò diceva: «Lui si che ha finalmente capito che io sono una maschera classica, non una marionetta meccanica».

Lei accennava poco fa a uno strano magnetismo di suo padre. Vuol spiegarsi meglio?

In famiglia chiamavamo scherzosamente Totò «lo stregone». Aveva una forza misteriosa negli occhi e nelle mani. Riusciva a spingere una persona senza toccarla, ci liberava dal mal di testa in un attimo accostando le mani alla nostra fronte. Lui stesso non sapeva spiegarsi l’origine di questo suo potere. Quasi se ne vergognava: «Trascino il pubblico per forza di magia», diceva, «che merito ho?».

Gli occhi: sono stati il più grosso tormento di Totò, ci ha raccontato la vedova Franca Faldini. Suo padre le parlava dell’ossessione della cecità?

Si sforzava di non farmene partecipe, ma gli argini cadevano nei momenti di depressione. Franca vi ha fatto la cronistoria della corioretinite emorragica, che colpì mio padre nel '57, ma devo aggiungere che Totò aveva perso la vista dall’occhio sinistro fin dal ’39. per un distacco di retina. Due interventi chirurgici non poterono porvi rimedio. La verità è che Totò fu costretto a lavorare con un occhio solo per quasi trent’anni.

Suo padre si fece riconoscere dai tribunali una filastrocca di titoli araldici, altezza imperiale, discendente dagli imperatori di Costantinopoli, conte palatino, cavaliere del Sacro Romano Impero e via dicendo, come si legge nel Libro d’oro dell’aristocrazia. Ma poi raccontava di aver promosso barone un suo cane lupo e visconte il barboncino Peppe. Totò teneva davvero molto al rango principesco?

Papà aveva questa debolezza dei titoli e ne aveva rivendicato i diritti con tenacia, ma in sostanza era un uomo del popolo: non frequentava l'aristocrazia, stava bene fra la gente comune, gli «spiccioli della società» come diceva. Era di natura umile, si lucidava le scarpe da solo per «non abusare della servitù», la faceva sedere alla sua tavola nelle feste, evitava di rimproverare ballerine e comparse della sua troupe; tanta tolleranza scatenò più volte la babilonia nelle compagnie.

Diceva Totò: «È ridicolo tenersi sopra gli altri, tanto ci aspetta ’a livella». Alludeva alla morte, come nel titolo del suo libro di poesie dialettali. Negli ultimi tempi ripeteva pacatamente i versi di ’O schiattamuorto, il becchino:

Ormai per me il trapasso è ’na pazziella; è ’nu passaggio dal sonoro al muto.
E quanno s'è stutata ’a lampetella
significa ca ll’opera è fernuta
e ’o primm’ attore s’è ghiuto a cuccà»
.

Ormai per me il trapasso è un gioco - è un passaggio dal sonoro al muto. - E quando si è spenta la lampadina - significa che l’opera è finita - e il primo attore è andato a dormire.

Ezio Saini, «Oggi», anno XXIII, n.20, 18 maggio 1967


Il Piccolo
Ezio Saini, «Oggi», anno XXIII, n.20, 18 maggio 1967