Totò, grande comico, incomincia solo adesso a «fare dei film seri»
Attore fortunato che ha la virtù della modestia
Riconosce di avere sciupato il suo talento, per sfiducia nel successo cinematografico: «Credevo non potesse durare, e la faccenda è continuata per trent'anni » - Adesso farà «veramente» l'attore, ma senza abbandonare la comicità: «Sono nato comico, mi diverto a fare il "clown"» - Ora cambia stile, ma controlla le sue ambizioni: «Non diamoci un peso che non abbiamo» - Pur tenendo al suo titolo di principe, e portandolo con schietta dignità, egli esercita anzitutto su se stesso il suo tipico umorismo anti-eroico
(Dal nostro inviato speciale) Roma, marzo.
Visita a Totò: è immediata la simpatia per quest'uomo mite, straordinariamente garbato (per prima cosa ringrazia di aver pensato a lui) che a proposito dei suoi film dice: «Ne ho fatti tanti e brutti; quasi tutti brutti». Espresso il giudizio resta serio, impenetrabile, lo sguardo più lontano dietro le lenti affumicate, il celebre mento spinto da una parte come un oggetto autonomo, carico di una propria forza comica e interrogativa. Sono questi i silenzi surreali dei grandissimi comici, come Buster Keaton e Totò, che i critici più esigenti definiscono attore incomparabile anche se malamente impiegato nel cinema italiano per interpretare operette dozzinali, dirette da registi incapaci di cogliere la umanità diretta del personaggio.
Totò sa di aver sprecato il suo talento, ed offre una spiegazione paradossale: «Io non credevo che il mio personaggio potesse durare. Meglio, diciamo la mia qualità di mestierante. Mi ripetevo sempre: questo è l'ultimo film, è un episodio passeggero. E non badavo ai copioni, né alle sceneggiature. Non mi preoccupavo dei registi. Era sempre l'ultimo film senza importanza. Ma la faccenda è durata 30 anni».
Ancora un moto del mento, a sottolineare l'ironia e la disapprovazione per se stesso, e quel sospiro amaro con cui Totò introduce nei film i suoi brevi commenti o le sue sentenze. Poi, con voce severa: «A un certo punto ho detto basta, perbacco. Ed ora faccio anche i film seri». Si è convinto di essere un attore, mal a sua umiltà professionale non è scalfita: «Il nostro è un mestiere. Io credo che l'attore sia un venditore di fumo; non diamoci un peso che non abbiamo». E precisa subito che sì tratta di un'opinione personale, timoroso di offendere o coinvolgere i colleghi. E' un principe di antichissima nobiltà, ed ama che il titolo sia rispettato nei rapporti personali: si telefona al principe De Curtis, si va a casa del principe, non di Totò. Sembra ingenerosa la critica beffarda di questa sua debolezza, che ha radici nell'amore per la tradizione; si ha, dal colloquio, il senso di una serenità difesa dalle scosse dei tempi, e di un tradizionalismo bonario, da signore napoletano. La casa stessa ne è conferma: un appartamento ai Monti Parioli, arredato con dovizia ma non teatralmente lussuoso. La moquette gialla si insinua in ogni angolo, ed è la sola nota saliente; nel soggiorno campeggia un pianoforte a coda. Al centro una gabbia con due uccelli esotici.
«Non è vero che per far ridere l'italiano, bisogna riproporgli in forma grottesca le sue qualità peggiori. Io ho un grande rispetto per il pubblico; mi sembra che tutto stia nell'Incapacità di offrire dei copioni veramente spiritosi. Quando c'è lo spettacolo, e si ride, il pubblico corre. Si diverte il pubblico e mi diverto io». Aggiunge: «Io sono facile al riso», e confessa di divertirsi un mondo a interpretare le scene clownesche dei suoi film. Per questo motivo Totò ricorda con particola- re affetto Fifa e arena, una modesta parodia. Gli sono cari due o tre film: I soliti ignoti, in cui ebbe una limitata partecipazione (la straordinaria figura dell'esperto scassinatore a riposo), Guardie e ladri con Fabrizi, Totò cerca casa, Totò a colori. Le sue non sono distinzioni sottili, problematiche, ma affettuose. Il rapporto con Pasolini, che è stato suo regista in un film accentuatamente ideologico come Uccellacci e uccellini, si risolve in un giudizio umano, ancora da bonario signore sensibilissimo alle buone maniere e al rispetto reciproco: «Pasolini: uomo intelligente, molto corretto, ho fatto il mio lavoro benissimo».
Con Pasolini, Totò ha cominciato a preoccuparsi dei soggetti e delle sceneggiature, di quel che doveva dare, e si è calato spontaneamente nei panni dell'interprete, senza lasciare quelli del comico. «C'è poesia nei film di Pasolini, con un leggero umorismo»; e scuote su e giù il volto lungo, inarca la fronte, sospirando i tanti film fatti in trent'anni di attività disordinata. Il. suo lavoro più fresco è l'episodio La Terra vista dalla Luna, simile a una favola con contenuto ideologico e fondo comico-poetico, dominata dalla perfetta umanità di Totò: lo vedremo nel nuovo film di Nanni Loy. Il padre di famiglia.
«Ora sono attore sul serio, ma non abbandono la comicità. Ce l'ho dentro. Sono nato comico, per questo ho inventato un modo di camminare, una parlata, dai tempi di Totò in teatro. E ho bisogno della comicità degli altri: alla domenica mattina apro la radio per sentire Monica Vitti nella consueta scenetta. Mi fa morire dal ridere. Io non conosco questa signora, ma mi sembra ricca di comicità». Gli domando se almeno l'ha vista al cinema. «Non vado mai al cinema. Un tempo ero un assiduo, per i grandi comici; adoravo Charlot. L'ultimo film che ho visto è Luci della città, dopo non sono più entrato in una sala». La lontananza fisica dal cinema come spettacolo ha una ragione: Totò esige dal cinema l'inganno totale. Lo concepisce nel modo più elementare, come macchina dei prodigi: «Da quando ho visto nei teatri dì posa che basta una tinozza d'acqua per far vedere una tempesta io ho detto: " Il cinema non me la fa più ". E non ci sono più andato».
Totò ha preparato una serie di scenette che compariranno sui teleschermi per offrire un'antologia di sue interpretazioni. Dopo il ciclo di Sordi, vedremo le reazioni del pubblico a questa comicità assoluta (non legata all'autobiografia né alla satira) che spesso lotta con la banalità dell'espediente o del soggetto. Ricordo a Totò un suo napoletanissimo pernacchio all'indirizzo di un ufficiale tedesco, in un film di scarso peso, come I due marescialli. Ride, poi commenta con la sua voce bassa, tutto contento: «Diciamo che era volgarità simbolica, quel pernacchio. Ma l'ufficiale tedesco era così antipatico: che soddisfazione ci provai», e sembra pronto a ripeterlo, col suo umorismo antieroico che non scade nella viltà e che si alimenta soprattutto con la gioia di ridere e far ridere.
Mario Fazio, «La Stampa», 23 marzo 1967
Mario Fazio, «La Stampa», 23 marzo 1967 |