Totò, il comico dalla faccia tragica
Con Totò è scomparso uno degli attori più amati dal pubblico e un uomo profondamente buono
Sapeva riassumere, con il candore e la forza incisiva dei grandi interpreti, il mistero della vita. Non rifiutò mai un’offerta di lavoro, convinto com’era che la carriera artistica è un lunghissimo, faticoso apprendistato: tutto serve, diceva. Mimo d’eccezione, lascia pagine di cinema indimenticabili
Roma, aprile
Caro vecchio Totò, addio per sempre: te ne sei andato all’improvviso, venerdì notte, a luci della ribalta smorzate, a schermi spenti. Come il Chaplin-Calvero di Limelight avrai pensato, in quella folgorazione dell'«ultima battuta»: «E poi sono morto tante volte...». Moltissimi in questi giorni hanno scritto di te, della tua vita, della tua maschera tragicomica, onorandoti e piangendo la tua scomparsa, la tua uscita di scena così discreta, senza lazzi, senza i fuochi pirotecnici descritti con le mani, con gli occhi, con gli zigomi puntuti: senza l’ammiccare trionfale a un’immaginaria gremitissima platea che accoglie con il rombo dei battimani il calare del sipario.
Ma io vorrei ricordare soprattutto, prima di tutto, una componente dell’animo umano di cui si parla poco in questi tempi e che era invece fondamentale del tuo carattere, del tuo essere uomo e attore insieme: la bontà. Hai detto una volta a un critico, con la modestia dei grandi, dei semplici, appena venata da quel riflesso di ironia che era la tua autocritica: «Beh, come uomo cerco di essere buono. Lo dico da me, ma è così, anche la vita che faccio lo dice. Non esco, sono casa e lavoro, lavoro e casa. Un po’ come un frate in borghese ».
Come tutti i professionisti seri dello spettacolo, Totò non amava l’esibizionismo: aveva raggiunto quella saggezza dell’uomo che coincide con la sapienza dell’attore. Un equilibrio che preserva dalle infatuazioni, dalle pose, dal costruire e sovrapporre sul proprio personaggio una mitologia mistificatoria. E perciò dava l’impressione, in ispecie in questi ultimi tempi, che veramente in lui si fosse stratificata quella serenità socratica che non appartiene all’uomo colto ma all'uomo in pace con se stesso, con il mondo che lo circonda. Di qui la comprensione, la tolleranza, la discrezione, il rispetto per le idee altrui, e l’amore profondo per la vita. Un amore che combaciava perfettamente con una specie di fanatismo per il proprio lavoro. Non in questi giorni, ma in passato, un po' tutti abbiamo rimproverato a Totò di essersi «sprecato», di avere accettato al cinema tutto o quasi tutto ciò che gli veniva offerto: i film in serie con Totò protagonista, attorniato da donnine in sottoveste, con i copioni scritti in due’ giorni, recitati poi a soggetto, con i filoni e filoncini sfruttati sino aH’inaridimento. Ma Totò non avrebbe potuto fare diversamente: era il suo modo concreto di manifestarsi, accettando il buono e il meno buono, puntuale ed esigente, meticoloso e con una resistenza fisica incredibile. Era il suo modo, borghese-mente ottocentesco — non romantico, non sregolato... — di concepire il lavoro dell’attore: qualcosa di duro e faticoso, da strappare con i denti giorno per giorno, in una sorta di immaginaria inarrestabile «tournée».
Questo senso professionale — nonostante l’araldica illustre, sua altezza reale Antonio De Curtis Gagliardi Ducas Comneno di Bisanzio — se l’era portato appresso dagli esordi, sin dalle prime «periodiche» a Napoli, allo Jovinelli e alla Sala Umberto di Roma, al Trianon di Milano, al Maffei di Torino: era il senso del comico girovago, che pesta e ingoia polvere di palcoscenico, che salta i pasti e che si corazza giorno per giorno contro gli umori instabili del pubblico, che accetta rassegnatamente il buono e il cattivo come il contadino si rassegna al buono e al cattivo tempo. Totò era convinto, possiamo dire sino alla morte (era nato il 15 febbraio del 1898), che la carriera di un attore è un lunghissimo ininterrotto apprendistato, un lavoro-calderone nel quale si butta dentro tutto, come in una fornace ardente, e poi tutto serve, tutto si ricompone, da quel magma viene fuori la vita, la certezza delle cose concrete, la vis comica, la tenacia e la persevererà, il modo di incatenare il pubblico, lo sberleffo e la smorfia tragica, ciò che piace ai critici e ciò che fa delirare il pubblico. E in quel calderone ci sono le gambe di Isa Bluette e il volto severo di Pasolini, la maschera di Anna Magnani, il mondo di Galdieri e quello di Eduardo, le «malefemmene» e Marotta, i giudizi di Zavattini e di Radice e quelli dell’ultimo scugnizzo napoletano...
Caro vecchio Totò, ricordo l'ultimo incontro, abbastanza lungo, che abbiamo avuto. Era una giornata gelida di Roma, vetrata dalla tramontana: lavoravi negli stabilimenti De Paolis, con Pier Paolo Pasolini, e il film era quello che ancora una volta avrebbe consacrato il tuo talento di attore grandissimo, Uccellacci e uccellini (uno splendido premio per te a Cannes, un altro nastro d’argento dopo qualche mese). Eri schivo nell’aria infreddolita, gli occhi celati dagli occhiali neri che ti toglievi soltanto quando cominciavi a «girare»: quegli occhi che avevi roteato e continuavi a roteare per milioni di persone, ma solo tu sapevi quanto si spegnessero giorno per giorno, martoriati dalla luce dei riflettori. Mi dicesti:
«Un comico deve sapere fare di tutto, e se no che comico è? Ogni tanto mi saltate addosso, non fare questo, non fare quello, fai solo i film con Fellini, con De Sica, con Pasolini, con Monicelli, lascia stare i filmetti girati in pochi giorni... eh no, signori, uno ha bisogno di sentire il meccanismo che ha dentro funzionargli sempre, ha bisogno di imparare, di continuare a vivere, perché noi viviamo solo per questo: tac, si accende un riflettore, tac, si accendono le luci della ribalta. Noi attori viviamo solo per questo, e non bisogna fare troppe distinzioni. Per me l'impegno è sempre stato quello di fare allo stesso modo un personaggio importante, che sentivo forte e importante, e una macchietta: di farli con la stessa intensità. Perché io, poi, in fondo sono uno di quegli attori che improvvisa sempre... io improvviso anche quando voi critici credete che tutto era scritto, parola per parola, sul copione. Guai se non mi abbandonassi all'istinto, mi sentirei un burattino, un uomo finito, un guitto da mettere in un ripostiglio, insieme con gli arnesi del trovarobato».
Questo era Totò, in superficie: ma quanta dedizione e quanti sforzi e quanta concentrazione per arrivare a quello che lui chiamava l’istinto e che altro non era se non il talento raffinato in lunghissimi anni, limato in tanti personaggi apparentemente secondari, travasato in tante interpretazioni memorabili: dai manichini da opere dei pupi e da commedia dell’arte, a certe sue folgorazioni teatrali metafisiche, da moderna poetica dell’assurdo; da quello scatenarsi irrefrenabile in contorsioni che a taluno potevano sembrare espressionistiche alla virulenza poetica di alcuni sanguigni personaggi ereditati o mediati da Petrolini. «Sono un comico dalla faccia tragica», ripeteva spesso: era cioè attore completo, proprio perché riassumeva, con il candore e la forza incisiva dei grandi, il mistero della vita. Nel cinema, certo, questa sua polivalenza di stupendo simbolo di una esistenza gualcita, calpestata, straniata dagli uomini e dagli eventi, e che all’improvviso ridivampa, con uno scatto veemente di vitalità, avrebbe potuto rivelarsi con maggiore frequenza. Ma di tutto ciò non si può addossare la colpa a Totò ma alla gente del cinema, incapace di comprendere sino in fondo la versatilità e la profondità di un superbo mimo, così ricco di estri e di accorata umanità. Restano tuttavia alcune pagine di cinema indimenticabili, da Napoli milionaria a Guardie e ladri, da Dov’è la libertà? a Totò e i re di Roma, da L'oro di Napoli a Totò e Carolina, da I soliti ignoti, da Arrangiatevi! a Uccellacci e uccellini: quasi simbolicamente, con questo ultimo film, sembra chiudersi in quel finale chapliniano la parabola di un grande comico nell’accezione completa del termine. Aveva finito da poco di registrare per la nostra televisione un'antologia del proprio mondo poetico, con la regìa di Daniele D'Anza: un suo andare a ritroso nel tempo, lui così pudico, così timoroso di autoincensarsi, di «fare il giubileo» di se stesso. Caro Totò, sarà un malinconico appuntamento quando ti rivedremo, ma sarà anche un modo per non averti perduto. «E poi sono morto tante volte...».
Il primo e ultimo disco di Totò
Aveva sempre diffidato delle registrazioni discografiche, perché riteneva che la mimica fosse parte essenziale del suo successo di attore, tanto che nulla del suo vastissimo repertorio era mai stato inciso. Ma, come aveva ceduto sul fronte televisivo (è noto che aveva preparata una serie di trasmissioni) così aveva fatto, dopo molto esitare, concessioni anche in campo discografico. E, proprio nei giorni scorsi, era uscito il suo primo disco, un 33 giri da 17 centimetri edito dalla « Cetra », che contiene due pezzi che furono presentati dall'attore scomparso a « Studio Uno »: la poesia 'A livella, di cui egli stesso è autore, ed una scenetta comica, Pasquale. Il tema di 'A livella è noto: tra due morti, un ricco marchese ed un povero spazzino, la morte ha fatto «a livella»; la presunzione del primo è diventata cenere di fronte alla grande giustiziera. E tocca allo spazzino far la morale al blasonato: «'A morte ’o ssaja ched'è?... è una livella. 'Nu re, 'nu magistrato, ’nu grand'ommo trasenno stu canciello ha fatt' ’o punto c'ha perzo tutto, 'a vita e pure ’o nomme: tu nun t'è fatto ancora chistu cunto?». La recitazione di Totò è volutamente scarna, ridotta all’osso e pure, attraverso le parole del dialetto, filtra una profonda commozione. Di assai diverso taglio la scenetta, in cui gli fa da «spalla» Castellani: qui siamo in pieno teatro dell'arte, con le battute ad incastro che danno libero sfogo alla risata. Manca la mimica, è vero, ma quasi non è avvertibile. Questo disco doveva essere soltanto il primo di una lunga serie che lo scrupolosissimo attore stava preparando e perfezionando con cura meticolosa nelle sale d'incisione della «Cetra»: il suo lavoro è stato troncato, ma esistono alcuni nastri già approvati che, con tutta probabilità, verranno pubblicati in futuro su un grande 33 giri.
Piero Pintus, «Radiocorriere TV», anno XLIV, n.17, 23-29 aprile 1967
Piero Pintus, «Radiocorriere TV», anno XLIV, n.17, 23-29 aprile 1967 |