Totò, il comico irripetibile
Di Totò — scomparso il 16 aprile scorso ancora in piena attività (stava girando le prime scene de Il padre di famiglia di Nanni Loy, che furono poi rigirate con Tognazzi) — si può ben dire che fu irripetibile. Il suo stile, come si sa, si era formato sulle tavole del “café-chantant” sul modello di Gustavo De Marco: aveva dunque dei precedenti. «De Marco», scrive Rodolfo De Angelis nella sua «Storia del cafe-chantant» (Milano, Il Balcone, 1946), «su musiche galoppanti, diceva tiritere che era un bene il pubblico non arrivasse a capirne il senso, tanto erano insulse, ma era un pretesto per fargli fare salti e slogature di irresistibile effetto; un’autentica marionetta senza fili abbandonata a se stessi». Agli inizi, la carriera di Totò si sviluppa all’ombra del suo predecessore, il quale era definito in gergo “comico-zumpo” (comico saltatore, dalla “zompata”) per le sue abilità acrobatiche, oltre che per la perfetta imitazione del pupo. (Luciano Ramo: «Storia del varietà», Milano, Garzanti, 1956).
Tuttavia, che Totò avesse già una personalità sua è provato dal fatto che un altro esordiente, Nino Taranto, prima di creare le proprie macchiette, fece per qualche tempo l’imitazione del comico suo concittadino. In ogni caso, con il nostro il tipo del comico-marionetta (a cui egli era particolarmente versato anche per il caratteristico mento lungo e snodabile) passa dalla modesta e ristretta cerchia del “cafe-chantant” al palcoscenico della grande rivista, a partire dal 1928 quando Achille Maresca lo scrittura nella propria compagnia come “comico grottesco” (le riviste, fra le prime con le quali sorge il genere in Italia, sono di Ripp e Bel Ami e si intitolano «Madama Follia» e «Mille e una donna», stella femminile Angela Ippaviz). È un'attività che lo porterà sempre più in alto nel giro della popolarità, pur se gli spettacoli non usciranno dal mestiere e dalla convenzione. Dal 1928 al 1950, quando si ritira dal palcoscenico per dedicarsi interamente al cinema (salvo un episodico ritorno nel 1956-57), Totò affida a Michele Galdieri, figlio del poeta napoletano Rocco, l’incarico di confezionargli dei copioni facili, pretesto per il libero dispiegarsi delle sue energie e delle sue straordinarie doti di improvvisatore su pochi motivi mimici che gli servivano di spunto o canovaccio.
Vecchio lupo di teatro, l’attore non rese mai come sulle tavole del palcoscenico: il pubblico lo stimolava infatti ad una continua invenzione, a quelle aggiunte e varianti al copione che allungavano a dismisura, quando era in vena, la durata dei suoi “sketches” come quello, rivisto di recente anche in televisione, del vagone letto. Dunque: grande uomo di mestiere, “summa” di quanto una lunga tradizione del varietà minore aveva saputo portare a perfezione. Ma fu solo questo? Certo, il nome di Totò rimane legato a dozzine di riviste presto viste e dimenticate, a decine e decine di film sgangherati e idioti. Ciò testimonia semmai della eccessiva modestia dell’uomo Antonio De Curtis, pronto, sì, a battagliare per anni in sede giudiziaria per ottenere, come ottenne, il riconoscimento di una discendenza imperiale e il titolo di principe, ma in verità semplice, umile, e, nel caso, incapace di dire di no a qualsiasi proposta gli venisse fatta. Così, il talento irripetibile rischiò di farsi soffocare dalla “routine” di quanti ne sfruttavano l’artigianato tranquillo senza saperlo pungolare ad una più meditata espressione di autentica arte.
Per fortuna, fra oltre cento film che allinea la sua carriera, molti sono più che dignitosi, alcuni, grazie a registi e sceneggiatori di cartello, meritano addirittura di essere situati sul piano impegnativo della creazione artistica. II “quid” che elevava Totò sopra i “comici-marionetta” che potevano averlo preceduto o che lo seguirono (c’è la sua controfigura, Dino Valdi, che si è costruito una carriera nel varietà sulla pura ripetizione, abile come quella di un Noschese, del suo maestro) era la forza con cui sotto la “maschera” sapeva far emergere l’uomo, legato alla condizione autentica della povera gente napoletana. L’arte di “arrangiarsi” anziché modo equivoco di vivere diveniva in certi suoi personaggi denuncia sofferta delle costrizioni a cui spinge la miseria, e questo con un realismo comico che non scadeva mai (a differenza di altri comici napoletani) a sentimentalismo, ma restava virile. La sua carriera cinematografica inizia nel ’37 con un film di Zambuto, ma è solo due anni più tardi, con Animali pazzi di Bragaglia, che incontra il primo dei molti scrittori di ingegno che contribuiranno sullo schermo a liberarlo dalle scorie e a valorizzarlo: Achille Campanile, uno dei lievi, surreali umoristi della famosa generazione degli anni ’30 e ’40. Nel '40 un regista di firma, Palermi, lo affianca a Titina De Filippo per San Giovanni Decollato, la nota commedia siciliana di Martoglio volta in dialetto partenopeo e primo veicolo, così, di un vero “personaggio” in una autentica cornice popolare, lontano dalla cartapesta del varietà.
Purtroppo, la crescente popolarità dell’attore fa morire sul nascere la maturazione artistica che questi film promettevano: la produzione si getta su di lui facendogli sfornare troppi film in pochi anni, girati alla meglio, con sceneggiature da quattro soldi e puntando, dal dopoguerra in poi, dopo il successo di Fifa e arena del ’48 (con cui prese il via per parecchio tempo la coppia Totò-Isa Barzizza) anche ad un erotismo da avanspettacolo e ad una comicità ricca di volgari doppi sensi. Cinque film nel ’49, sette nel ’50, cinque nel '51, quattro nel '52, sei nel ’53, la media annuale rimane sempre alta e la zavorra è molta, arrivando allo scadimento dei quattro pessimi film diretti da Mastrocinque nel all’insegna di una incuria scandalosa. Ma pur negli anni del successo più clamoroso c’è qualcuno che pensa ad un Totò maggiormente creativo: ecco la svolta di Yvonne la nuit (1949), dove Giuseppe Amato, in un contesto lacrimoso da romanzo d’appendice, dirige Totò in una figura commossa di “guitto” dell’avanspettacolo di cinquantanni fa, con un registro sempre controllato sino all’amarissimo finale. (Per inciso, lo “sketch” che il comico interpreta su un palcoscenico di “café-chantant” nella prima parte del film costituisce un prezioso documento di quella che fu la “maniera” di Totò appunto in quegli anni lontani di apprendistato). L’anno seguente Eduardo in Napoli milionaria, tratto dalla sua commedia, affida all’attore il personaggio del poveraccio che per vivere fa il “finto morto” a pagamento. Di qualche buona situazione è dotato 47 morto che parla (1950) di Bragaglia, sullo spunto di una commedia di Petrolini adattata per lo schermo da un discreto commediografo come Manzari. Se l’indice del richiamo commerciale del comico può essere dato dal fatto che ogni esordio di nuovi sistemi tecnici del cinema fu alla sua insegna (Totò a colori di Steno inaugurò in Italia il cinema a colori nel ’52, Il più comico spettacolo del mondo di Mattòli, l’anno seguente, il cinema tridimensionale), e se la pigrizia dei produttori lo sfruttò oltre ogni limite per la parodia dei film via via di successo, nella decade ’50-’60 molti registi seri si servirono invece di Totò per dei film di qualche importanza.
Steno e Monicelli ottengono forse il risultato più compiuto in Guardie e ladri (1951), alla cui sceneggiatura pongono mano Brancati e Flaiano disegnando una figura di “ladro per necessità” il quale stringe un patto di amicizia non scritto con la guardia che lo deve portare in prigione; Rossellini nel discontinuo (e non montato dal regista) Dov’è la libertà? affida ad un Totò intristito la denuncia del relativismo morale e dell’egoismo della società italiana di quegli anni; Monicelli, ancora con la sceneggiatura di Flaiano, imposta in Totò e Carolina (1953) la sfaccettata figura di un agente della “Celere’’ che deve risolvere il problema di una povera ragazza stila. Nell’ambito di un cinema più facile ma non privo di doti di efficienza spettacolare, si possono ricordare i numerosi adattamenti di Mattòli da commedie di Eduardo Scarpetta, mentre penoso è l'involgarimento, malgrado la decorosa prestazione di Totò, che Steno raggiunge nell'adattare L’uomo, la bestia e la virtù di Pirandello (1953). Cechov (Totò e i re di Roma), Moravia (Racconti romani, Risate di gioia), Pirandello (a parte il film sopra citato, vi e la perfetta resa dello jettatore de La patente in Questa è la vita), sono autori che trovano nell’autodidatta ex-fantasista di varietà un interprete scrupoloso e vitale.
Un aspetto del Totò attore di cinema da non trascurare è infine la sua saltuaria attività di caratterista, in apparizioni marginali che spesso garantivano il successo di un film per la lucentezza di un talento che non si impegnava meno per il fatto di non essere in panni di protagonista: basti pensare al “professore di scassinamento” ne I soliti ignoti (1958) di Monicelli, al fra’ Timoteo della Mandragola (1965) di Lattuada, da Machiavelli, al “carcerato privilegiato” di Operazione San Gennaro (1966) di Dino Risi. Mentre altri con gli anni decadono, il prestigio di Totò rimase intatto (1), pur, se per qualche periodo qualche produttore volle cautelarsi affiancandogli come “alter ego” un altro comico, Peppino De Filippo. E significativo che sul finire della vita l’incontro con un poeta, Pasolini, gli abbia consentito in Uccellacci e uccellini (1966) e in Le streghe (1967) di portare più avanti il suo personaggio, verso la direzione di un simbolismo che non lo staccava peraltro dal fondamento concreto della sua personalità: la sequenza del fraticello francescano medioevale che impara a parlare dagli uccelli resterà uno dei traguardi più alti di Totò, che appunto, pochi mesi prima della sua scomparsa ottenne, col “Nastro d’argento", il riconoscimento “ufficiale”, se ve ne fosse stato bisogno, della critica italiana come migliore attore dell’anno.
Ernesto G. Laura, «Bianco e nero», anno XXVII, n.6, giugno 1967
(1) Curiosa e invece la difficoltà di Totò nel farsi apprezzare all’estero, dove era considerato forse troppo legato a radici folklorchic. Comunque lo definisce in modo singolare — e assurdo — John Montgomery nel suo libro «Comedy Films» (London, George Alien & Unwin Ltd.,* 1954): «The most popular of thè Italian comedians is probably Totò, who looks like a cross between Keaton, Somerset Maugham, and Claude Rains». («Il più popolare dei comici italiani è probabilmente Totò, che sembra un incrocio tra Keaton, Somerset Maugham e Claude Rains»).
Ernesto G. Laura, «Bianco e nero», anno XXVII, n.6, giugno 1967 |