Moglie in spalla, facciamo la guerra al fisco
Fra tasse e divi del cinema non c’è mai stata buona armonia. Ora un nuovo elemento per contestare l’ha scoperto Andrea Checchi, nei panni non di attore-divo ma di attore-lavoratore a reddito fisso: «Per la Vanoni mia moglie costa 50 mila lire all’anno. E’ da matti!»
Roma, aprile
E' la contestazione più singolare di questi ultimi anni perchè non ha una matrice intellettuale nè operaia. ma nasce nella "middle class” e si avvale della legge come strumento di pressione per modificare la legge. In sostanza, una rivolta. quella contro il Fisco, che sarebbe piaciuta a Leo Longanesi. «In Italia manutenzione, non rivoluzione». disse il caustico scrittore romagnolo analizzando i mali della borghesia nazionale. Queste le premesse. Quanto al gesto dell’attore Andrea Checchi che ha denunciato lo Stato per la "Vanoni”, esso non è clamoroso, come hanno scritto certi giornali, ma semplicemente coraggioso. Checchi non ha avuto paura di confessarsi italiano in un Paese in cui tutti si comportano all’italiana in maniera smaccata: il contestatore del Fisco ha puntato infatti sui sentimenti e argomentato sulle necessità della sua signora per scuotere l’uditorio durante una conferenza-stampa. «Com'è possibile — ha detto Checchi, — che nella dichiarazione dei redditi, io debba detrarre soltanto 50mila lire all'anno per mia moglie?».
L’interrogativo, non privo di una sua logica efficacia, ha fornito l’occasione, alla casalinga italiana, di proporre in termini nuovi le sue angosce esistenziali e di discutere finalmente, su calcoli economici, il suo apporto di lavoro nell’ambito della moderna organizzazione sociale. Quanto vale un anno di fatiche domestiche e, soprattutto, quanto valgono i vizi che la casalinga ha rifiutato di avere?
«Il problema che io ho posto — risponde Andrea Checchi salendo le scale della Questura di Firenze — non riguarda la sociologia nè il romanticismo operaio, ma la solida umiltà delle cose di buon senso. Ecco sono io quel tal cittadino italiano che il povero mini stro Vanoni ipotizzava nel la sua riforma tributaria Ho sempre dichiarato il vero sui miei cespiti e sulle mie entrate. Ma qual é sta to il risultato, in uno Stato come questo fondato sulla reciproca diffidenza? Non sono mai stato preso in parola e così, per quanto possa sembrare assurdo, ho dovuto vendere tutto quanto possedevo per pagare le tasse. Per questo ho citato in giudizio lo Stato. Voglio che cessi la persecuzione contro i cittadini a reddito fisso che un sistema di tassazione assurdo consegna, legati mani e piedi, nelle braccia del Fisco».
Quello del Fisco, ha scritto recentemente un noto economista, è un cane che abbaia molto ma che, al di fuori dei redditi fissi, morde assai poco. A comprova di quest’affermazione, stanno le cifre. Contrariamente a quel che si crede, da noi. la pressione fiscale è fra le più basse del mondo. Lo scorso anno, le entrate tributarie dello Stato formavano solamente il 17.5 per cento del prodotto lordo nazionale. Quest’anno, la pressione fiscale è scesa ancora di qualche decimo di punto. Ma chi le paga le tasse se il gettito è modesto e le aliquote alte?
L’evasione o la semievasione non è distribuita in maniera uniforme fra tutti i contribuenti. I lavoratori a reddito fìsso possono evadere assai meno degli altri contribuenti. Secondo uno studio della rivista del Ministero delle Finanze, su un totale di 14.700 miliardi di redditi di persone fisiche, 11.400 sono redditi di lavoro dipendente, cioè redditi fissi di stipendi e salari che costituiscono il 78 per cento dell’intera massa di redditi personali accertati dal Fisco.
Fonti di guadagno
«Anche l’attore è un lavoratore a reddito fisso — ha sostenuto Checchi consegnando il suo esposto a un funzionario della Questura di Firenze, — perchè ogni scrittura costituisce un sicuro indice di valutazione di opera prestata. Non puoi sfuggire: l’esattore legge il tuo nome nel cast e individua immediatamente la tua fonte di guadagno». Il guaio è che l’agente del Fisco non si limita a "localizzare” gli introiti dei personaggi dello spettacolo.
«C’è in questi impiegati — dice un noto attore, accreditato in patria e fuori per alcune parti di latin lover egregiamente sostenute — una sorta di spirito di rivalsa, come se milioni di cittadini confinati nel grigiore dell’impiego trovassero in loro gli esecutori di una pubblica vendetta. Notorietà, successo, viaggi, una vita fuori della norma della noia quotidiana, suggeriscono all’italiano medio la deformata immagine di un lusso faraonico e acuiscono il suo astio per il privilegiato che può concedersi una serata di gala e la segretaria all'uscio. Ed è cosi che lo agente delle tasse assume, agli occhi di molti, il volto dell’esecutore delle alte opere di giustizia in quanto restituisce alla comunità ciò che le sarebbe stato indebitamente tolto con poca fatica e molta gigioneria».
Il ragionamento potrebbe trovare un riscontro in quanto disse Franca Faldini quando si trattò di discutere sull’asse ereditario del defunto prìncipe Antonio de Curtis: «Totò è stato spogliato dalle tasse». In realtà, intorno agli anni Cinquanta, Totò era considerato uno degli interpreti meglio retribuiti del cinema italiano. Come spiegare allora la modestia del suo patrimonio? Lo spiegò la Faldini: «Attori e attrici di buon nome possono guadagnare molto ma sono costretti a spendere anche molto e non possono farne a meno».
Vittorio De Sica, intervenendo sulle polemiche che si accesero intorno all'espatrio di una nota diva, chiarì ancora meglio il concetto: «L’attrice che partecipa a dieci serata di gala — disse il regista — deve apparire necessariamente diversa. E’ il suo fascino che l’impone. I suoi abiti saranno confezionati da un sarto di gran nome e avranno, come contrappeso, un’alta fattura da saldare. Inoltre, il protagonista di un film di successo. un cantante alla moda, insomma un personaggio sulla cresta dell'onda non può permettersi di andare in giro su un’utilitaria: ne scapiterebbe il suo prestigio, ne rimarrebbero deluse le sue ammiratrici e, infine, il produttore lo pagherebbe meno».
Insomma, la linea di difesa degli attori è questa: d’accordo, il denaro della gente dello spettacolo può essere anche facile, ma non è valuta stabile, è moneta fluida; è merce di scambio per guadagnare altro danaro che a sua volta si disperderà in mille rìvoli. A meno che l’attore non decida di declassarsi al rango di comparsa. Ma nessuno che non sia autolesionista rinuncerebbe a una bella casa o a un viaggio in aereo per mettere d’accordo tasse e coscienza.
«Noi viviamo in rappresentanza del Fisco — sostiene Gina Lollobrigida che contro le tasse ha condotto epiche battaglie, — ma il Fisco non può o non vuole capirlo, tanto che ci concede esenzioni pari a quelle di un ragioniere sconosciuto a tutti, tranne che alla propria portinaia».
A loro volta, gli esattori rigettano questa formulazione del problema. «Nel nostro lavoro — dice uno dei funzionari delle Finanze — il rapporto attore-fisco è più complesso. Abbiamo innanzi tutto una divisione fondamentale: i sardoni e le sardelle. In Italia, i sardoni sono non più di dieci e formano il parterre dei grandi interpreti nazionali. Ovviamente, le cronache delle loro imprese ci forniscono il materiale primo dell'azione di accertamento fiscale. Sappiamo perfettamente il cachet di una diva come Sofia Loren e conosciamo il prezzo per il disturbo di un grande regista. Nei nostri uffici c’è una specie di listino di borsa dei valori dello spettacolo italiano che cerchiamo di tenere costantemente aggiornato nelle sue oscillazioni di mercato».
Ma non è tutto: il Fisco ha scoperto che molti dei valori economici sanciti per contratto non corrispondono a introiti effettivamente incamerati. Ha saputo, per esempio, che attore e produttore, dopo aver discusso il compenso del film, si dicono a quattrocchi: «Tu mi dai dieci milioni e io ti firmo una ricevuta per due». Durante la lavorazione, poi, il produttore troverà le occasioni per giustificare in mille modi, davanti al Fisco, una spesa maggiore di quella realmente sostenuta. Da queste acquisizioni partono gli 1 agenti delle tasse quando "sparano” le bordate fiscali sui grossi calibri del cinema, del teatro, della canzone.
E tuttavia, verso i grandi "incassatori”, il Fisco è spesse volte longanime sia perchè il grosso nome, comunque, incute rispetto, sia perchè l’accertatore diffìcilmente, per quanto indaghi, riesce a rendersi conto della effettiva consistenza dei guadagni acquisiti. E dunque, anche nel campo dello spettacolo. si ripete quella sperequazione che segna il divario fra il reddito fiscale dei professionisti e degli altri percettori di compensi variabili e il reddito fiscale dei lavoratori a reddito fisso. In poche parole, fra la gente dello spettacolo le tasse finiscono per pagarle in buona parte le sardelle, cioè l’attore medio, l’attrice modestamente popolare o il cantante che fa qualche comparsa davanti al video.
«Lei è stata al Festival di Cannes — si sente dire l’attrice che ha tanto faticato per farsi scattare una foto sulla Croisette — e avrà guadagnato, poniamo cinque milioni». L’attrice sbarra gli occhi, sorride, replica leggiadramente che i festival ”non pagano" ma, tetragono, l’impiegato delle tasse insiste: «E allora, quel viaggio con la rappresentanza italiana in Estremo Oriente, eh? Non mi dica che l’ha fatto gratis. Bene, allora quanto mettiamo?». L’attrice appena affermata si stringe nelle spalle. Sulle prime ha vergogna di ammettere che, tranne il biglietto, tutto il resto ha dovuto pagarlo di tasca sua e quando finalmente "confessa”, la goffaggine rende ancora meno attendibili le sue dichiarazioni.
Vortice di cambiali
«Il Fisco, spesso, non riesce a rendersi conto che dietro i fasti di quel gran baraccone rutilante che è il cinema italiano, c’è un vortice di cambiali e un mare di debiti». Questo è il discorso di un produttore romano che spesso ha dovuto pagare del proprio per far fronte a impegni di cointeressenza mai mantenuti. Naturalmente anche gli attori più rinomati, tante volte (e anche per le iniziative che sembravano solide) devono accontentarsi di "farfalle” (cioè di cambiali) al momento di riscuotere il compenso pattuito. Il guaio è che, anche quando le "farfalle" non vengono "catturate” (e può accadere), il nome dell’attore rimane nel cast del film e l’agente delle tasse difficilmente si persuade che non si tratta di un imbroglio.
«Così non si può andare avanti — la conclusione è ancora di Andrea Checchi. — In 37 anni di attività ho fatto 137 film e ho partecipato a più di cento commedie, non ho proprio niente da nascondere, e se è vero che dal 1962 ho omesso di presentare la dichiarazione dei redditi, l’ho fatto per compiere un gesto di protesta in un Paese in cui non sembra lecito dire la verità. Io vorrei sapere come fa un lavoratore a mantenere un familiare a carico con 50mila lire l’anno. Certo, la norma è incostituzionale ma prima di me chi se ne era accorto? Voglio una legge meno ingiusta. Questa si chiama politica delle cose, e magari tutte le rivoluzioni si potessero fare con la carta bollata: risparmieremmo tempo e chiacchiere». E’ giusto: resta solo da dire che le carte bollate, in Italia, quando s’incontrano, si salutano con estremo rispetto.
Gianni Di Giovanni, «Tempo», anno XXXII, n.15, 11 aprile 1970
Gianni Di Giovanni, «Tempo», anno XXXII, n.15, 11 aprile 1970 |