Totò vent'anni dopo riabilitato dalle risate dei giovani
Dopo il felice esperimento di questa estate a Milano, nelle sale di tutta Italia tornano a grande richiesta i film del comico napoletano. Accorrono i vecchi spettatori, ma soprattutto le nuove generazioni che scoprono quello che viene definito definito "il più grande mimo del mondo”
Roma, dicembre
Con retorica si è soliti dire: lo spettacolo e i suoi misteri. Per misteri si intendono successi insperati e insuccessi non previsti, quando il pubblico dice sì a uno spettacolo al quale forse la critica ha detto no e viceversa. Uno di questi misteri — ma in realtà è qualcosa di più e di diverso di un mistero — lo si sta vivendo quotidianamente e ormai da qualche settimana in alcuni cinema di Roma e di Milano; trattandosi però di cinema e quindi di pellicole che girano in più copie, il mistero si sta estendendo anche ad altre città. Vogliamo parlare di Totò, della riscoperta di Totò, della nuova programmazione dei suoi film e del successo, ci si consenta di usare aggettivi da iperbole, incredibile e anche entusiasmante che essi ottengono.
Se prima chi amava Totò era costretto a lunghi attraversamenti cittadini per raggiungere squallidi cinema di periferia dove queste pellicole erano proiettate, oggi non senza sorpresa si vedono annunciati i film del grande comico non solo nei cinema centrali ma addirittura nei cinema d’essai, notoriamente ritrovi d’avanguardia dove con lo "specifico filmico” si discute, utilmente o no, per ore. A tutt’oggi, tre cinema di Roma proiettano film di Totò ininterrottamente, le sale sono gremite a ogni spettacolo, la maggior parte del pubblico è formato da giovani d’età non superiore ai 23 anni e da intellettuali che fino a cinque anni fa, quando il 15 di aprile 1967 Totò morì, non solo non erano mai andati a vedere i suoi film, ma l’avevano deriso, incasellandolo e collocandolo alla stregua di un comichetto da quattro soldi. Un esempio di poche sere fa: quando anche noi siamo tornati a vedere un film di Totò ("Totò a colori” per la cronaca) abbiamo visto uscire Michelangelo Antonioni: ma, miracolo, non serio e malinconico come sempre, bensì sorridente.
Se Totò avesse potuto vedere il sorriso di Antonioni all’uscita del suo film, ne avrebbe gioito come mai nella vita. Non sappiamo se Antonioni in passato sia stato un estimatore di Totò, del suo umorismo e dei suoi modesti e piacevolissimi film. Possiamo dire con certezza che oggi lo è. Sì, perchè fu proprio questo il vero unico grande cruccio di Totò, fino agli ultimi giorni della sua vita: di non essere considerato dal cinema, dai maghi della regìa, dalla grande critica altro che un bravissimo, intelligente ed estroso caratterista. Eppure, in mezzo alla miriade di filmetti di serie C (che tra l’altro sono proprio quelli che oggi, rispolverati, hanno successo perchè illustrano forse meglio la maschera di Totò ai vecchi e soprattutto ai giovani suoi estimatori), troviamo titoli e autori che non sfigurerebbero in un circolo del cinema. Sin dal lontano "Animali pazzi” (1939), di Carlo Ludovico Bragaglia alla "Napoli milionaria” (1950) di Eduardo De Filippo, a "Guardie e ladri” (1951) di Steno e Monicelli, a "Tempi nostri” (1953) di Alessandro Blasetti, a ”L’oro di Napoli” (’54) di Vittorio De Sica, a ”I soliti ignoti” ('54) di Mario Monicelli. Negli ultimi anni soltanto Pier Paolo Pasolini sembrava aver creduto in Totò: nel ’66 lo chiamò a interpretare ”Uccellacci e uccellini” e Totò ne era stato felice e quando qualcuno, per far dello spirito, gli domandava come s’era trovato con Pasolini, lui rispondeva: «Pasolini è stato capace di ridare fiducia in me stesso, una fiducia che credevo di non trovare mai più». Con una parrucca a ricci color carota, il suo umorismo alogico, bizzarro e patetico, la sua mimica disarticolata, da marionetta surreale e metafìsica, Totò grazie a Pasolini tornò a essere la grande "maschera”, l’arguto e ingenuo ometto alla continua ricerca del modo più semplice e più sereno per sopravvivere.
Oggi non può che incuriosire questo nuovo imprevisto successo dei film di Totò. Incuriosisce anche Franca Faldini, la donna che per quindici anni fu accanto a Totò anche come attrice e che adesso, dimentica della vita d’allora, ha lasciato il mondo del cinema per occuparsi, con intelligenza, di produzione di libri. Franca Faldini fa un discorso realistico: «Il favore dei giovani — dice — non mi stupisce: loro non conoscevano Totò, il favore del grosso pubblico è in realtà il successo che sempre ha accompagnato il suo lavoro. Se nomi importanti vanno oggi a vedere i suoi film è forse per il rimorso di avere assassinato un attore che per anni avevano costretto in film spesso di fattura ignobile. Anche Totò di frequente si stupiva di come i suoi film potevano aver successo quando, come lui diceva, per far ridere, talvolta era costretto a incollarsi casse da morto... Comunque questo successo di oggi è di grande soddisfazione per chi lo ha stimato e per chi gli ha voluto bene. Ma non è da credere che i distributori o i produttori l’abbiano voluto come riparazione; ancora una volta ha giocato il caso: hanno provato l’estate scorsa, in un cinema di Milano, a proiettare un film di Totò; vista l’accoglienza si sono affrettati a stampare altre copie dei suoi vecchi film e a immetterle di nuovo sul mercato. Sì, qualcuno potrebbe pensare a un omaggio del "mondo del cinema” al grande attore; ma no, ancora una volta è stato il pubblico a rendere questo omaggio al grande attore, non il mondo del cinema».
Totò nella sua lunga carriera ha girato circa cento film, i quali globalmente hanno reso miliardi, hanno fatto la fortuna di tanti produttori, hanno consentito a giovani registi di lanciarsi e di avere la prima occasione; ma lui — il protagonista, il ”nome”, il comico di cassetta — non ha certo guadagnato quello che oggi guadagnano i big dello schermo. Si pensi che il compenso massimo raggiunse i 45 milioni a film: oggi l’attore di cassetta, il ”nome” riceve, oltre a un congruo numero di milioni, anche una percentuale vertiginosa sugli incassi.
Ma non è certo il discorso economico quello giusto per Totò: vale, invece, ricordare come erano confezionati i film che Totò interpretava e quale era il suo apporto. Innanzi tutto venivano girati al massimo in quattro settimane quando, *i sa per certo, girare in quattro settimane significa fare una volta una scena e giudicarla comunque buona. Di solito era attorniato da attori modesti che dovevano fungere soltanto da spalla; e i suoi film in realtà non erano storie costruite ma occasioni per far ridere.
Fino al 1952, quando cioè scoprì che forse poteva riscuotere nel cinema lo stesso successo avuto in teatro, Totò non leggeva neppure il copione, si faceva raccontare la storia e poi entrava, scena per scena, improvvisando, aggredendo i partner e creando dal niente, dalla frase di uno o dal gesto di un altro, l’occasione per andare avanti. In realtà continuava a fare teatro e le sue scene più famose, per esempio l’incontro con l’onorevole Trombetta nello scompartimento di un vagone-letto, era stata presa pari pari proprio dal teatro.
Totò era solito dire della sua maniera di lavorare: «La mia comicità è come lo champagne: passate le bollicine è come un vino qualunque». Infatti non poteva rimanere sul set per troppe ore, riusciva a scrollarsi la maschera di tristezza e di malinconia che lo accompagnava per tutta la giornata, solo per un’ora o due; dopo, anche se fosse restato sotto i riflettori altre sei ore, non gli sarebbe venuta nessuna battuta, nessun effetto, nessun gioco di improvvisazione.
Spesso s’è detto della malinconia degli attori comici; certo Totò di questa malinconia era il cultore più attento e ossequioso. Non riusciva a rintracciare negli atti e nelle parole degli altri un motivo di autentico divertimento, e ogni volta che si provava a fare un bilancio della sua vita, ed era un’occasione che volutamente sollecitava spesso, finiva col dire che forse aveva sbagliato molte cose. Però il mondo lo incuriosiva e negli ultimi anni, quando era ormai quasi cieco, invitava la Faldini a leggergli la sera i quotidiani: l’ascoltava, avido di sapere, pronto a commentare con un borbottìo le dichiarazioni di un uomo politico o con una battuta sibilante un fatto di cronaca.
Una volta aveva detto: «Io sono stato sempre molto curioso di tutto e di tutti, da bambino mi chiamavano ’o spione perchè stavo ore e ore alla finestra a guardare la gente che passava. Oppure certi pomeriggi cominciavo a girare per Nàpoli e se vedevo passare una persona che mi destava maggiore curiosità gli andavo dietro, per ore, per vedere dove andava, cosa faceva, con chi si incontrava». E’ una confessione importante perchè dà la matrice della sua comicità: Totò non ha raccontato nei film i nostri tic o il nostro costume, ma ha piuttosto esasperato i nostri gesti, i nostri comportamenti e poi ha condito tutto con una splendida cattiveria; e la comicità — su questo crediamo non ci siano dubbi — è fatta principalmente di cattiveria.
Quando un suo film fu presentato per scopi benefìci a una serata di gala di Parigi, i giornali dissero di lui: «E’ il più grande mimo del mondo» e infatti (al di là delle battute ormai diventate celebri come ”siamo uomini o caporali”?) la sua autentica vis comica era proprio mimica, gestuale. E’ morto con un desiderio: interpretare un film muto fatto soltanto di situazioni e gag. Ma nessun produttore, nella splendida miopia che da sempre accompagna i nostri cineasti, prese mai in considerazione questa proposta, come se Totò non avesse potuto bissare, se non superare, gli analoghi successi di Buster Keaton. Diceva: «Il sonoro è stata una grande scoperta. Bene, adesso torniamo al muto».
Maurizio Costanzo, «Tempo», anno XXXIII, n.52, 26 dicembre 1971
Maurizio Costanzo, «Tempo», anno XXXIII, n.52, 26 dicembre 1971 |