A sei anni dalla morte esplode il «fenomeno Totò»
Stasera in TV il primo film dedicato al grande comico
Forse mai prima d’ora si era assistito, nel mondo dello spettacolo, a un «revival» di proporzioni così vaste: l’attore napoletano viene paragonato a Buster Keaton e a Charlie Chaplin. Dichiarazioni di registi e compagni di lavoro I ricordi di Fabrizio Sarazani che fu suo intimo amico
Principe che cosa è mai la vita? Totò sui quotidiani. Totò sui rotocalchi, Totò al cinema, Totò alla televisione. In vita, di essere un mito non gli accadde mai. Tutt’al più quando il tramonto fisico, la cecità incombente imponevano una valutazione diversa, frutto più del pietismo che della convinzione; solo allora Totò conobbe qualche tardivo, come di chi si sente in colpa, riconoscimento delle sue qualità. Oggi si spendono nomi celebrati: Buster Keaton, Charlie Chaplin e si guarda a Totò come ad una occasione mancata dal cinema italiano. E’ diventato un «classico». Tutti concordi, quasi un coro. Eppure, fino a sei anni fa Totò era là, con il suo mento sbilenco, con i suoi arti da burattino, pronto ad offrire quella genialità artistica che venne interpretata soltanto come una dozzinale merce di consumo.
D’altronde accade ancora; con queste artificiose rassegne che si accavallano attraverso tutti i mezzi di comunicazione. mentre la «riscoperta» di Totò è stata un fenomeno genuino, spontaneo. Là dove giornali, impresari, produttori, direttori di programmi non avevano capito niente è stata la massa, il pubblico a comprendere tutto. E così da qualche proiezione estemporanea, seguita da un successo inatteso, si è arrivati all'odierno «revival». Adesso è una gara. Da una parte l’attore, dall'altra l'uomo; due maschere distinte, completamente differenti. Totò popolaresco e De Curtis araldico; Totò guitto e Totò signore. Un’unica tristezza, probabilmente, da coltivare al suono delle risate, quelle degli altri.
Le battute inventate
«Io credo — dice Carlo Campanini — che il grande comico napoletano non sia mai stato sfruttato per il suo vero, grande valore. A volte, nella cinematografia di trent'anni or sono, si doveva fare tutto in fretta; cosi Totò non sfuggiva alla regola. Soltanto la sua grande abilità consentiva un certo risultato perché chiaramente non era sorretto da soggetti adatti e tagliati su misura.»
Peppino De Filippo: «Era un compagno affettuoso, delizioso. I film che girammo insieme ebbero una vicenda assai fortunosa in quanto non esistevano i copioni e bisognava inventarci addirittura le battute o le situazioni. Del resto io lo dicevo sempre a Totò: tu che fai il cinema professionalmente (io invece lo facevo negli spazi lasciati liberi dal teatro) non fare un film al mese, ma uno all’anno e che sia valido. Comunque i film di Totò erano e rimangono validi perché Totò era un grande attore».
Mario Monicelli: «Totò era un attore molto istintivo, spontaneo, intelligente; non studiava la parte e bastavano poche parole all'ultimo momento, prima di cominciare a girare per fargli comprendere il personaggio. Bisognava lasciargli molta libertà. Non ho mai capito bene se non volesse studiare il copione per pigrizia o soltanto per non perdere la sua spontaneità. Fatto sta che ho dovuto sempre dargli la briglia sciolta. Per me lavorare con lui era come fare un documentario. Soltanto negli ultimi anni si è cominciato ad
avere qualche barlume sulla eccezionalità deUe sue doti. Ma sarebbe stato meglio averci pensato prima».
Mario Mattoli: «Attori di quel livello, direi formidabili - ha precisato - ce ne sono o ce ne sono stati in tutto due o tre, non di più. In questo rilievo è anche la spiegazione della eccezionale ripresa dei film di Totò che c’è stata negli ultimi due anni. A mio parere si tratta di una ripresa commerciale unica nella storia del cinema, cominciata dapprima con qualche timida apparizione nei cinéma d'essai e rapidamente sviluppatasi fino a giungere — ritengo peraltro con un po’ di ritardo — alla televisione. Naturalmente io sono felice che nel ciclo televisivo la mia firma appaia due volte (I due orfanelli e Totò sceicco) anche perché cosi il mio nome, che ho sentito recentemente storpiato o anche ignorato, riavrà almeno la sua abituale composizione.
«Totò, del quale io ho diretto alcuni film "prima maniera" — continua il regista — era soprattutto un attore che non sopportava che nel film stesso venissero presentate "tesi". Era un vero comico e preferiva, almeno nella prima parte della sua lunga attività cinema tografica, affidare il successo alla sua eccezionale mimica, alla sua spontaneità. In Totò era rappresentata tutta la tradizione del teatro dialettale ed in particolare di quello napoletano che ha avuto, in tale genere di spettacolo, diversi validi rappresentanti, espressioni di una situazione particolare della città partenopea, forse per il clima stesso, o anche per una predisposizione naturale. Fra questi comici, però, Totò era senza dubbio il migliore, il più completo».
Renato Salvatori: «Quando lavorai con Totò nei Soliti ignoti ero ancora molto giovane. Avevo 24 anni e Totò ne aveva 51. Rimasi immediatamente affascinato dalla sua eccezionale personalità. Non avevo mai visto lavorare Totò in teatro, ma lo avevo visto sul set di non ricordo quale film, un giorno che mi ero recato nei teatri di posa della De Laurentiis. Era stato un incontro casuale, ma ero rimasto così colpito che ritornai più volte a vederlo mentre "girava".
«Quando fui al suo fianco, insieme con Mastroianni, Gassman, la Cardinale e la Gravina, nei Soliti ignoti mi resi conto delle dimensioni del "fenomeno Totò". Era un personaggio imprevedibile. Non si faceva condizionare né dalla sceneggiatura né dal regista e del resto nessun regista che conosceva Totò avrebbe mai pensato di condizionarlo. Non faceva mai due volte la stessa scena, improvvisava sempre».
Dichiarazioni, memoriali, cicli, monografie, retrospettive. Chi fu in realtà Totò, il principe Antono De Curtis, ultimo erede del trono di Bisanzio? Troppo semplicistico e complesso, tentare di darne una risposta. Per questo abbiamo preferito, in concomitanza con gli otto film che la televisione propone da oggi, cercare di restituirne alcuni aspetti attraverso i ricordi i momenti vissuti da un amico fraterno di Totò, il conte Fabrizio Sarazani, che ne raccolse quotidianamente le confidenze, che accompagnò ad Assisi la figlia del comico all'altare perché lui «si emozionava troppo», che fu il primo ad accorrere quando Totò si spense.
«Era poco prima dell'alba del 15 aprile 1967 — racconta Sarazani —, le tre. Venni avvisato telefonicamente. Presi un taxi. Giunti a destinazione l'autista, che aveva compreso da alcune mie parole di cosa si trattava, rifiutò quanto gli era dovuto e chiese: "Dottò voglio salì su con lei". Totò non credeva nella morte, aveva terrore solo delle malattie. Un uomo profondamente infelice e certamente buono; buono senza essere santo. Fiero della sua miseria come della sua nobiltà, anche se la miseria odiò con tutto se stesso e se quel marchio che lo spaventava, persino nel momenti migliori, contribuì a condizionare molte delle sue scelte.» Totò povero (è sempre Sarazani che riferisce questi episodi) che ereditava nella Napoli dei vicoli un cappotto foderato di pelliccia, 'o cappotto d' 'o muorto, che gli andava grande fino a coprirgli i piedi e con il quale ai avviava per via Caracciolo dove, incontrando Eduardo De Filippo, nasceva un battibecco. Perché Eduardo se lo voleva «accattò» e Totò non voleva: Totò nobile e ricco che sceso, subito dopo la guerra, con l'amico all'Hotel de Paris a Montecarlo e scorta in una vetrina di una gioielleria di Cartier una splendida «parure» decideva di acquistarla; al commesso che lo interpellava dubbioso: «Ma lei non sa quanto costa!», replicami: «Il prezzo lo dica al portiere del mio albergo» e commentava infine: «Questa è una soddisfazione che ho dato a Totò non al principe».
Odiavo la miseria
Come la sua, Totò odiava e cercava di combattere la miseria degli altri «Se gli chiedevi l’ora - rammenta Sarazani — ti regalava l'orologio». Così una volta sul set di un film assistette ad un litigio tra un capo della troupe e un operaio arrivato in ritardo. Totò si informò; «Io vengo da lontano; sono costretto a prendere sempre i tram» si giustificò l'operaio. L'indomani lo attendeva una motocicletta fiammante; «Però non lo devi dire» lo pregò Totò. Così, quando già era costretto a leggere con una spessa lente il giornale, venendo a sapere di un poveretto vicino a Fontana di Trevi che non aveva i soldi per farsi l'operazione delle cataratte, inviò il denaro occorrente. Che nessuno sapesse. Non gli piaceva essere ringraziato. Come non gli piacevano gli strilli le urla, le persone che parlavano a voce alta. «Nella sua compagnia - dice Sarazani -una volta fuori di scena, regnava una disciplina conventuale. Ed un giorno che una signorina, alla quale avevano scippato la borsetta, andò in escandescenze, Totò pregò che la portassero nel suo camerino. Non si preoccupi, pago io, ma non alzi la voce. La voce costa cara, se la tenga preziosa, mentre i denari non valgono niente.»
Come artista non ebbe rimpianti, anche se i suoi film li giudicava «schifezze» Sapeva di valere di più. Se ne accorse una notte d’inverno, in un paesino della Sicilia, vicino Palermo. Il teatro era più o meno una stalla, il palcoscenico una grande panca, gli avvisi della compagnia erano stati affissi sui muri con la carta scritta con il carbone. La sera in platea erano solo uomini con la coppola in testa. «Parevano di zinco — raccontava Totò —. Ed ora come faccio a farli ridere? Eppure li feci ridere. Non guadagnai un soldo, più o meno un pasto, però capii che ero bravo.»
Fabrizio Sarazani è l’autore del soggetto di Yvonne la nuit, una delle pellicole che la televisione si appresta a mandare in onda, un film che rappresenta anche il primo tentativo di convertire Totò in attore drammatico. Una vicenda passionale, sullo sfondo delia grande guerra, fra una cantante ed un ufficiale. Un dramma che interpretava i gusti del tempo, in cui Totò era Nino, un capocomico segretamente innamorato, che si sacrificava per i begli occhi della donna che amava un altro e che, dopo una serie di drammatiche traversie, precipitava con lei nella miseria più nera Una storia scritta per Anna Magnani, ma che vide Olga Villi nelle vesti di protagonista. C'erano anche Charles Latimore. Gino Cervi ed Eduardo De Filippo. Un ruolo insolito che Totò non gradiva; riteneva di non poter tradire quel cliché che gli aveva dato agiatezza e popolarità. Non se la sentiva. Quel Nino eroe sul Carso, che ritornava con i piedi congelati per accompagnarsi e dividere le tragedie dell’affascinante vedova dell'ufficiale, gli sembrava troppo lontano dai personaggi nei quali il pubblico era abituato a riconoscerlo.
Per convincerlo Sarazani lo raggiunse a Firenze dove Totò si trovava all’albergo Savoia. «Si, la storia è bella ma...» «Ha detto Rizzoli che fi film si fa solo se ci sei tu». «D'accordo, ma,..»
«Allora non vuoi farmi lavorare». Equivaleva a metterlo con le spalle al muro. Non volle nemmeno un compenso. «Che mi diano quello che gli pare». Ricevette una preziosa collana. Chiese solo che venisse soppressa una scena. Quella in cui Nino diventava cieco. Era nato Totò drammatico. Era il 1949. La pellicola ebbe successo. Ma ci fu chi preferì non accorgersene. La marionetta rendeva molto di più. Oggi tutti sembrano aver intuito e rimpiangono in lui soprattutto il Nino di Yvonne la nuit.
Ruggero Marino, «Il Tempo», 28 marzo 1973
Ruggero Marino, «Il Tempo», 28 marzo 1973 |