Piangeva su ogni de Curtis
Mentre la Tv ci ripropone Totò, ascoltiamo la rievocazione affettuosa di un suo grande amico. Il conte Marco Rocco di Torrepadula ci descrive le grandi qualità e le innocenti manie del comico napoletano cui è dedicato un ciclo televisivo • «Cercava dappertutto antenati blasonati», dice. «Andava persino nei cimiteri a leggere le lapidi» • «A Torino trovò la tomba di un certo Antonio de Curtis: si commosse tanto che gli attori della sua compagnia finirono tutti a piangere con lui» • «Ad una vecchietta pagava i pasti al ristorante»
Napoli, aprile
Ecco, questo è un regalo di Totò. Più che un portasigarette è un’antica tabacchiera di gusto molto raffinato, di quelle che si usavano un secolo fa. L’attore me la mandò in occasione del mio matrimonio, il 10 ottobre del 1966. Lui era tra gli invitati e ricordo che, subito dopo la cerimonia religiosa, si avvicinò a Maria Teresa, diventata da pochi minuti mia moglie, le baciò la mano e le disse: "Contessa Rocco di Torrepadula, i miei omaggi”. Volle insomma immediatamente rivolgersi a lei, secondo un’usanza che vige nell’aristocrazia, col nome e col titolo che, sposando me, aveva acquisito. Al ricevimento all’albergo Excelsior, poi, Totò era compostamente euforico. Al mio matrimonio, infatti, era intervenuto tutto il fior fiore dell’aristocrazia napoletana. A Totò, immagino, non gli pareva vero di trovarsi, forse per la prima volta in vita sua, in compagnia di tanti aristocratici. Debbo dire che si comportò proprio come un nobile».
Totò, al secolo Antonio de Curtis, aveva, come suol dirsi, il pallino della nobiltà, lui che Il 15 febbraio del 1898, quando i nacque, era stato denunciato allo stato civile col cognome della madre, Anna Clemente, non ancora moglie di Peppino de Curtis. Successivamente, specie dopo che suo padre l’ebbe ufficialmente riconosciuto, Totò si diede da fare per rivendicare un blasone, secondo lui spettante ai suoi avi, e tramite una serie di cause protrattesi fino al 1950 riuscì a farsi riconoscere i nomi e i titoli di Antonio Griffo Focas Flavio Angelo Ducas Comneno Porfirogenito Gagliardi die Curtis di Bisanzio, altezza imperiale, conte palatino, cavaliere del Sacro Romano Impero, esarca di Ravenna, duca di Macedonia e di IIliria, principe di Costantinopoli, di Cilicia, di Tessaglia, di Ponto, di Maldavia, di Dardania, del Peloponneso, conte di Cipro e di Epiro, conte e duca di Drivasto e di Durazzo.
Pur essendo basata su una serie di sentenze emesse da vari tribunali italiani, la nobiltà di Totò fu sovente messa in discussione dai nobili italiani, molti dei quali guardavano con diffidenza a quelle sentenze valide, secondo loro, solo da un punto di vista formale. A Napoli, tuttavia, Totò poteva vantare alcune sincere amicizie con nobili di antico e sicuro lignaggio, fra i quali il duca Lucio Caracciolo d’Acquara e il conte don Marco Rocco dei princìpi di Torrepadula. È appunto con quest’ultimo che sto affrontando il problema della nobiltà di Totò.
Come spieghi, Marco, il fatto che Totò, che pure aveva mietuto molti successi nel mondo dello spettacolo, ci tenesse tanto a vedere confermati i suoi titoli nobiliari? Forse per bilanciare quel vuoto di paternità che gravava, all’inizio, sulla sua carta d’identità e che fu colmato solo quando i suoi genitori si sposarono?
«Secondo me il motivo è un altro, ed è ben più profondo. Totò vide la luce, come sai, in via Santa Maria Antesaecula, una strada del popolare rione della Sanità. C’è però da considerare che, almeno fino al Seicento, quella era una zona collinare abitata esclusivamente da nobili. Alla Sanità edificarono i loro palazzi, tanto per portare degli esempi, i Cattaneo della Volta di San Nicandro e i De Liguoro di Presicce. I palazzi nobiliari che sorgono in quella zona sono numerosissimi e del resto lo stesso caseggiato in cui Totò nacque era di proprietà, in origine, dal barone Stanislao Campagna. In epoche successive, poi, intorno a quei palazzi gentilizi furono costruiti edifici popolari, i cui inquilini, per lo più, erano al servizio dei nobili. La gente del rione Sanità, perciò, era abituata a vedere nei nobili la massima espressione del mondo che li circondava. Da bambino Totò, e questo l’ho afferrato anche dai lunghi discorsi che io e lui abbiamo avuto, guardava i nobili del rione Sanità con ammirazione e, forse, con segreta invidia. Avrebbe voluto essere uno di loro, avrebbe voluto giocare con i loro figli. E invece doveva accontentarsi di giocare con gli scugnizzi».
Quando tentò per la prima volta, Totò, di fregiarsi di un titolo nobiliare?
«Mi risulta che Totò, quando non aveva ancora vent’anni e recitava all’Orfeo, un piccolo teatro della zona della ferrovia, agguantò un ottuagenario principe, appartenente alla migliore nobiltà napoletana, il quale era, appunto, fra i suoi spettatori abituali. "Principe, perché non mi adottate?”, gli chiese un giorno Totò. ”Io adottarti? Come sarebbe? Spiegati meglio”, sobbalzò l’altro. "Ecco, principe. Io, vedete, sono figlio di principe di sangue ma non di diritto. Se invece voi mi adottate, io divento principe anche di diritto. No, principe, non vi preoccupate per l’eredità, non è a quella che miro. Anzi, principe, se permettete, sarò io a fare un regalino a voi”, spiegò l’attore. Il principe si alzò di scatto. ”Totò, ma che ti credi? Io all’Orfeo ci vengo per guardare le ballerine, mica per comprare i guaglioni”, rispose. E da quella sera non si fece più vedere in quel teatro».
Risulta però che in seguito Totò riuscì a farsi adottare da un vero nobile. Cosa puoi dirmi, a questo proposito?
«Effettivamente nel 1933 Totò riuscì a farsi adottare dal marchese Francesco Maria Gagliardi Focas. Dal vecchio Gagliardi, così, l’attore ottenne un titolo nobiliare e un congruo numero di cognomi.
Il successivo riconoscimento da parte del vero padre, lo mise poi in condizione di iniziare le varie cause, di cumulare titoli su titoli e di poter esibire sentenze di tribunali che lo proclamavano ultimo discendente degli imperatori di Bisanzio».
Indipendentemente dalle sentenze, giuridicamente ineccepibili ma molto differentemente commentate in alcuni ambienti dell’aristocrazia, tu nella tua qualità di conte don Marco Rocco dei principi di Torrepadula consideravi Totò un nobile oppure no?
«Io, per la verità, non mi sono mai posto il problema dell’ascendenza di Totò. Non mi sono mai messo a studiare il suo albero genealogico, ma non per evitarmi delusioni, bensì perché sono stato sempre convinto che Totò, anche se non fosse stato nobile, avrebbe meritato di esserlo, cioè avrebbe meritato di essere lui il capostipite di una famiglia di nobili. Se l’Italia non fosse stata una Repubblica, se in Italia vi fosse stato, anche negli ultimi decenni, un re, che è l’unica fonte di nobiltà, Totò sarebbe stato certamente insignito di un titolo nobiliare. In Inghilterra, dove c’è la monarchia, fu fatto baronetto l’attore Laurence Olivier; più recentemente sono stati fatti baronetti i Beatles. Sia Olivier che i Beatles avevano onorato l’Inghilterra. Totò ha onorato l’Italia».
Malgrado i suoi film fossero, per la maggior parte, del genere cosi detto commerciale?
«Ti risulta forse che i Beatles suonino musica sinfonica? E poi non parliamo della vita privata dei Beatles. Totò, invece, nella vita privata agiva come un gran signore. In sua presenza non si potevano raccontare barzellette spinte. Totò, nella vita privata, non ha nemmeno pronunciato mai la parola "fesso”. In casa sua parlava sempre a voce bassa. E, proprio come un vero nobile, non infieriva mal sugli umili: il campanello elettrico, in capo al letto, lo teneva solo per bellezza, ma in realtà non l'adoperava mai, né permise mai che qualcuno gli pulisse le scarpe. Iniziava la giornata segnandosi devotamente e andava a messa ogni domenica. Totò ha interpretato centodiciassette film e una grande quantità di riviste ma negli uni e nelle altre non ha mai dileggiato i nobili».
Vuoi raccontarmi degli episodi relativi alle ricerche genealogiche che compiva Totò?
«Fin da quando era capocomico di compagnie di avanspettacolo, fra gli anni 1933 e 1940, Totò approfittava del suo girovagare attraverso l’Italia per compiere indagini sui De Curtis. Di mattina, quando con la sua compagnia arrivava in una nuova città, Totò anziché starsene a letto a riposare, andava nei cimiteri e leggeva attentamente le lapidi. A Torino, una volta, trovò la tomba di un Antonio de Curtis, vissuto qualche secolo prima. Convinto che si trattasse di un suo avo, invitò tutti gli attori della compagnia a visitare il sepolcro, davanti al quale accese lumini e collocò fiori; si commosse talmente che anche agli attori venne da piangere.
«Questa ricerca di antenati Illustri talvolta assumeva toni ossessivi. Nel gennaio del 1961 Totò venne a sapere che in un'aula del municipio dì Cava dei Tirreni, cittadina presso Salerno, era esposto il ritratto di un Camillo de Curtis, presidente della "Somma Real Camera” all’epoca della dominazione spagnuola e a sua volta discendente di un certo De Courtenay venuto a Napoli con Carlo d’Angiò; ritenendo senz'altro che quel Camillo de „ Curtis fosse un suo avo, e pregustando addirittura la gioia di poter dimostrare di discendere da un De Courtenay del 1200, Totò chiese ufficialmente al sindaco di Cava dei Tirreni, Eugenio Abro, la restituzione del quadro. Riunito in seduta straordinaria, il consiglio comunale di Cava dei Tirreni rigettò la richiesta. Totò soffrì fino a piangerne».
L'atteggiamento di Totò in società era o non era quello di un nobile?
«L’atteggiamento formale forse no, perché quello è il risultato di una dura e talvolta opprimente educazione ricevuta nell’infanzia, cosa di cui Totò era stato privo, o anche il risultato della quotidiana dimestichezza con i nobili, che a Totò mancava. Ma questo non vuol dire. Gli anziani domestici del circoli riservati agli aristocratici, per esempio, abituati a frequentare da decenni i nobili, si muovono quasi come questi eppure non sono nobili. La sua nobiltà spirituale, che è diversa ma non meno importante di quella araldica, Totò la manifestava ogni giorno, con i suoi atti di bontà».
Vuoi raccontarmene qualcuno?
«Sono innumerevoli. Tanto per incominciare, tl dirò che ogni mattina, appena usciva di casa, Totò distribuiva ai poveri, per abitudine, diecimila lire in biglietti da mille ciascuno. Sparsasi la voce nel rione, i mendicanti, ormai pratici dei suoi orari, arrivavano molto per tempo per essere i primi della coda, sotto il portone di viale Parioli a Roma. Andò malauguratamente a finire che, in una seduta di condominio, gli inquilini del caseggiato, scocciati dal vocio degli accattoni, aggiungessero un nuovo articolo al regolamento: era fatto obbligo al custode di tener lontani dal palazzo tutti gli importuni.
«Sparito dunque il capannello dei poveri, Totò ogni mattina, prima di uscire per il lavoro, volle dedicare un’oretta alla compilazione dei vari moduli di conto corrente che gli pervenivano da orfanotrofi, istituti religiosi, ospedali, fino al raggiungimento di diecimila lire. Una volta, poi, in quartiere Prati scorse una vecchietta la quale, sull’uscio dì una caserma, attendeva che le gettassero un po’ dei residui del rancio in un barattolo di stagnola. Si commosse, Totò; portò con sé la vecchietta in un ristorante, le fece scegliere cibi prelibati, quindi stipulò un regolare contratto col proprietario della trattoria: l’anziana donna sarebbe andata lì ogni giorno a consumare i pasti, lui sarebbe passato una volta al mese per saldare il conto.
«A parte gli atti quotidiani di bontà, l’attore nel 1960 si appassionò a un’opera per l’assistenza ai cani randagi e, spendendo quarantacinque milioni, fece costruire un moderno e attrezzatissimo canile che chiamò "Ospizio dei trovatelli”. A un cane che era rimasto privo di zampe posteriori, fece applicare, per consentirgli di muoversi, una specie di protesi a rotelle».
Il famoso comico era nato a Napoli il 15 febbraio del 1898 ed era stato denunciato allo stato civile col cognome della madre, Anna Clemente. Dopo che il padre, Peppino de Curtis, l’ebbe riconosciuto legalmente, Totò si diede da fare per rivendicare un blasone secondo lui spettante ai suoi avi. Riuscì a ottenerlo nel 1950, al termine di lunghe cause giudiziarie. La serie televisiva di film dedicati al comico, aperta con - «I due orfanelli», continuerà con «Totò le Mokò», «Yvonne la Nuit», «Totò sceicco», «Totò e Carolina», «I due marescialli», «Il comandante» e «Uccellacci e uccellini».
Come si comportavano i beneficati, nei confronti di Totò?
«Purtroppo talvolta Totò fu ripagato in malo modo dalle persone che soccorreva. Nel 1953, mentre lavorava negli stabilimenti della Ponti-De Laurentiis, gli capitò di udire le lagnanze di un elettricista: doveva alzarsi due ore prima, per raggiungere il posto di lavoro; se invece avesse posseduto almeno una motocicletta... Totò acquistò immediatamente una motocicletta e la donò all’operaio. In capo a una settimana, però, il giovanotto era di nuovo appiedato: aveva perduto il veicolo in una partita al biliardo.
«Un’altra volta, nel 1955, Totò si soffermò su una notizia comparsa su un giornale: un uomo, colto in flagrante e arrestato mentre rubava un pollo, agli agenti aveva dichiarato di aver commesso il furto per somministrare un brodino al figliuolo, ammalato di tubercolosi. Profondamente commosso, l’attore telefonò al suo avvocato di fiducia, Eugenio de Simone, dandogli mandato ufficiale di assistere il poveretto. La sera stessa in cui riacquistò la libertà, il ladro di polli rubò la valigia dell’avvocato De Simone. E tuttavia Totò perdonava volentieri a queste persone. "C’è un antico proverbio che avverte: fai bene e scorda”, diceva. Ecco, questo era proprio un modo di comportarsi da nobile».
Vittorio Paliotti, «Oggi», anno XXIX, n.14, 5 aprile 1973
Vittorio Paliotti, «Oggi», anno XXIX, n.14, 5 aprile 1973 |