Prima di tutto il pubblico
I ricordi inediti del suo impresario Elio Gigante. «Era un uomo inguaribilmente buono e generoso». Gli anni dell'avanspettacolo e dei debiti: geniale ma «distratto», si accorse tardi della sua statura di interprete.
Prima di diventare manager di Mina, Elio Gigante è stato per dodici anni amministratore e impresario di Totò e la carriera teatrale dell’indimenticabile comico napoletano non solo l’ha vissuta tutta o quasi, ma è stato addirittura lui ad imprimerle delle svolte importanti. Udinese, fama di amministratore integerrimo, sessanta sigarette al giorno, corporatura da pugile, un metro e 90, Gigante non ha mai voluto parlare di Totò prima d’ora. Oggi, a sei anni dalla scomparsa (aprile '67), si è deciso a farlo quasi per un debito di riconoscenza, «ma soprattutto perché il pubblico sappia quanto Totò lo amasse».
S’incontrarono per la prima volta nel 1936. Totò lavorava nell’avanspettacolo, al «Principe», un cinema-teatro romano oggi chiuso; Gigante, che in precedenza aveva fatto un po’ di tutto, dal carpentiere al giornalista, era allora impiegato alla Consulta Araldica, circostanza questa molto significativa se si tiene presente l’ostinazione quasi infantile che Antonio de Curtis, principe di Bisanzio, conte di Ferrazzano, profuse per anni per ottenere il riconoscimento dei suoi titoli nobiliari. In realtà Gigante nei meandri dell’araldica ci si rigirava con mal-celato disagio e in questo campo doveva rivelarsi un pessimo collaboratore di Totò; in compenso aveva concepito una violenta quanto duratura passione per il mondo dello spettacolo. L’attore mise un po’ di tempo a rendersene conto, ma quando lo capì. Gigante perse la qualifica di «consulente araldico» del principe de Curtis per conquistare quella, più ambita, di «amministratore» di Totò. Il ménage non fu mai liscio e tranquillo, spesso culminava in epiche litigate.
Ma erano litigi fatti di stima e di affetto. «Totò», ricorda Gigante, «era inguaribilmente buono e comprensivo, il che costringeva me a fare spesso la parte del cattivo e del duro. Quando, per esempio, ero costretto ad infliggere qualche multa, il che accadeva molto di rado, lui se ne amareggiava, chiamava nel camerino il multato e, alla fine, se la multa era di 300 lire gliene dava 500 di tasca sua. Io punivo, lui premiava. In compenso la compagnia era sempre una famiglia. Capitava spesso che qualcuno faceva le bizze per i camerini, poiché in teatro il camerino è l’equivalente del rango; ebbene, più d’una volta Totò cedette il suo. Odiava le grane, voleva evitare i malumori ad ogni costo. Ricordo che Edoardo Passarelli, che gli faceva da spalla, prese un’impuntatura proprio per una questione di camerini e Totò gli offrì il suo. “No, voi siete il primo comico”, gli disse Passarelli. E Totò: “ No, io so' Totò, E' 'n 'ata cosa”.
L’episodio è curioso perché si sa che Totò, come del resto molti attori di razza, si scava senza andare troppo per il sottile. Si accorse tardi della propria statura. E i contrasti tra lui e Gigante, sul principio, avvenivano proprio per questo. «Spesso mancava di autocritica», dice Gigante, «era abitudinario. Per esempio alla fine dello spettacolo era capace di uscire in passerella con il frac e le pantofole, per il fastidio di mettersi le scarpe. Se lo rimproveravo mi rispondeva bonariamente che in fondo il pubblico si divertiva. Il suo problema fondamentale era sempre quello: far divertire il pubblico».
Ma Gigante, così facendo, non tendeva in fondo a reprimere l’istintiva genialità dell’attore che, magari, si esprimeva proprio calzando le pantofole sul frac? «Beh, sì», riconosce, «forse gli facevo un po' di violenza. Il fatto è che mi faceva rabbia vederlo sempre pieno di debiti, frequentare alberghi e ristoranti di terza categoria, prendere quattro soldi di paga, che in fondo era la più bassa di tutti dal momento che tutti gli spettacoli si reggevano sulle sue spalle. Mi faceva rabbia vederlo alle prese con copioni scadenti, spesso conditi di doppi sensi e di battutacce, che egli recitava sempre con la solita scusa che il pubblico si divertiva». Evidentemente, da amministratore di buon fiuto. Gigante pensava ad altri pubblici, pensava ai teatri del centro, pensava alle «poltronissime» con le signore in pelliccia. Ma ebbe un'intuizione: quella di andare a «proporre» Totò a Michele Galdieri e ad Anna Magnani. Sul principio lo presero per un visionario. «Totò? Quel guitto? Come le viene in mente!». «Sì, Totò, quel grande guitto!», rispondeva lui. E da via Cola di Rienzo, dov’era il «Principe», Totò passò finalmente al «Quattro Fontane», sulla via omonima, prosecuzione di via Sistina. La rivista aveva per titolo Quando meno te l’aspetti; con Totò e la Magnani nel cast figuravano Lya Origoni, Vera Worth, Paola Orlowa, Beatrice Dante, Paola Paola, Minnie Èva, Mario Castellani e Harry Feist. Fu un successo. Sandro De Feo sul Messaggero e Ercole Patti sul Popolo d'Italia attribuirono a Totò «fantasia e nevrastenia di comico», «leggera e aerea follia».
«La coppia Totò-Magnani funzionava a meraviglia», dice Gigante, «prima di tutto perché con l’enorme carica e bravura che avevano riuscivano a risolvere sempre tutto in palcoscenico, e poi perché Totò non conosceva cosa fosse l’invidia o la gelosia. Per esempio, dopo quel primo spettacolo con la Magnani non mi chiese mai con chi facevo compagnia, chi fossero i suoi nuovi compagni di lavoro. Per lui andavano bene tutti, non aveva inimicizie, rancori, strascichi. In fondo Totò era un gran sentimentale».
Credo che pochi attori abbiano amato il pubblico come lui
Eppure la sua comicità, così diversa da quella di un Rascel e spesso paragonata a quella di Buster Keaton, farebbe pensare di no. «Come batte il tuo cuore!», gli dice una ragazza in Totò le Mokò. E lui: «Sciocchina! E’ l’oriuolo». E' una di quelle battute per mezzo delle quali Totò, come dice Soldati, «faceva piazza pulita di tutte le balle della nostra società e della nostra cultura, di tutte le cose e le persone noiose». Il sentimentale, il patetico sembra che gli facciano quasi orrore. Ma Gigante dice di no, dice che nella vita privata il comportamento di Totò era del tutto diverso: racconterebbe degli episodi se fosse convinto di averne il diritto. «Violerei una sfera così intima», afferma, «che potrebbero giustamente accusarmi di tradire, lui morto, una fiducia e anche una amicizia che egli mi aveva spontaneamente e affettuosamente accordato da vivo».
Insomma, secondo Gigante, fuori dalla scena il «manichino metafisico» era un uomo di sentimenti delicatissimi, con le sue debolezze, i suoi abbandoni. «Credo che pochi attori, in tutto il mondo, in ogni epoca», continua Gigante, «abbiano amato tanto il pubblico quanto Totò. Bisogna che si sappia che per lui il pubblico aveva qualcosa di sacro, sia che recitasse nell’avanspettacolo che nella rivista, per i poveri o per i ricchi, al “ Principe ” come al “ Quattro fontane Valga per tutti un episodio molto significativo. Una volta a Palermo, sotto ad un contratto che avevamo spedito per posta, un impresario del luogo aveva aggiunto di suo pugno, e piuttosto disinvoltamente, che la domenica dell’ultima settimana di programmazione nel suo teatro, avremmo dovuto fare tre spettacoli. Ohé, tre spettacoli! Non sono mica uno scherzo da nulla! Non avevo nemmeno il coraggio di dirlo a Totò. Senonché l'ultimo sabato, cioè il giorno prima della fatidica domenica dei tre spettacoli, Totò (ancora all’oscuro di tutto) comincia a non sentirsi tanto bene. La notte peggiora e l’indomani mattina è a letto con un febbrone. Bene, mi dico, a quell'impresario gli sta proprio bene: ora gli faccio recapitare un bel certificato medico e così, per cause di forza maggiore, di quei maledetti tre spettacoli non se ne fa più nulla. Lo dissi a Totò, senza fargli ancora parola dei tre spettacoli in cartellone, ma lui si oppose al certificato confidando che la febbre gli sarebbe scesa e che in qualche modo ce l'avrebbe fatta. Insistetti a lungo e, quando vidi che si era proprio impuntato, decisi di rivelargli l’inganno del terzo spettacolo per dissuaderlo definitivamente dall’idea di recitare così malamente conciato. Ebbene: non volle saperne ugualmente. S’imbottì di pillole e di coperte e alle due e tre quarti si presentò in teatro, febbricitante e con gli occhi arrossati. Andò avanti, eroicamente, fino a oltre l’una, non so nemmeno io come. Quando l'impresario andò a salutarlo e a ringraziarlo, Totò gli disse seccamente: non l’ho fatto mica per lei, ma solo per quella gente che aveva pagato il biglietto e alla quale, in fondo, ho regalato una domenica di buonumore».
Giuseppe Tabasso, «L'Europeo», 1973
Giuseppe Tabasso, «L'Europeo», 1973 |