Pierpaolo Pasolini: ecco il mio Totò
In "Uccellacci e uccellini" lo scrittore gli aveva affidato il ruolo di un personaggio innocente fuori dalla storia e dalla politica, strappandolo all’immagine di aggressiva volgarità alla quale l’aveva consegnato il cinema italiano degli anni cinquanta senza capirne la bontà, l'estrema saggezza, il distacco delle cose.
Pasolini, in molte sale cinematografiche si proiettano i vecchi film di Totò. Siamo di fronte a un recupero? Possiamo tentare una analisi di questo fenomeno?
«Il recupero dei film di Totò mi sembra puramente casuale, non ha altro senso se non quello di riproporre alla volgarità degli anni settanta la volgarità degli anni cinquanta. Sono sicuro che i film che ha fatto Totò durante gli anni cinquanta sono tutti orribili, squallidi e volgari. Non per colpa sua, perché in questo caso bisogna ipotizzare una distinzione assolutamente netta, precisa, tra autore del film ed attore. In quanto attore Totò si è autocreato ed è vissuto autonomamente ma i film che ha fatto sono oggettivamente brutti.
E altera che senso ha riproporli?
«Infatti: questo dimostra che sostanzialmente nulla è cambiato, ed anzi probabilmente quanto a volgarità e sotto-cultura gli anni settanta non hanno da invidiare agli anni cinquanta. Voglio dire, in realtà non c’è stato un caso Totò negli anni cinquanta. Negli anni cinquanta Totò è stato uno dei tanti prodotti, delle tante merci che si sono consumate quasi senza accorgersene. Non è stato un caso di cultura, perché negli anni cinquanta c’erano altri problemi, altri casi, molto più interessanti, più vivi, più reali, anche se, come tutte le cose umane, superati. Invece oggi, negli anni settanta Totò è una scoperta, una scoperta che ha carattere di una scoperta cosiddetta culturale. Per me non lo è, significa che negli anni settanta si sono scatenate delle forze, degli interessi che erano rimasti sopiti allora e che esplodono adesso».
Nel suo film, «Uccellacci e uccellini», lei ha usato questo personaggio per quello che era, un piccolo borghese che non vede ia storia che gli passa vicino...
«No, nel mio film ho scelto Totò per la sua natura doppia: da una parte c’è il sottoproletario napoletano e dall’altra c’è il puro e semplice clown, cioè un burattino snodato, l'uomo dei lazzi, degli sberleffi. Queste due caratteristiche insieme mi servivano a formare il mio personaggio ed è per questo che lo ho usato. Nel film non si presenta come piccolo borghese, ma si presenta come proletario, sottoproletario, lavoratore. E il suo non accorgersi della storia è il non accorgersi della storia dell’uomo innocente, non del piccolo borghese che non vuole accorgersene per i suoi miseri interessi personali e sociali».
C'è stato un particolare» apporto di Totò, oppure l’attore si è piegato a una sceneggiatura di ferro?
«E’ difficile fare questa distinzione perché io uso attori e non attori ma, praticamente, mi comporto con loro allo stesso modo. Cioè li prendo per quelle che sono, non mi interessa la loro abilità, se prendo un attore lo prendo per quello che è. Mettiamo Ninetto Davoli: non era attore quando ha cominciato a recitare con Totò, e l’ho preso per quello che lui era, non ne ho fatto un altro personaggio. La stessa cosa ho fatto per Totò. Naturalmente un attore porta in questa operazione la sua coscienza e quindi può essere usato proprio per la realtà che lui è. Molte volte non accetta, resiste, ma sostanzialmente il risultato finale espressivo non tiene conto degli apporti professionali dell’attore, ma di quello che lui è ”anche” in quanto attore».
Ma Totò uomo era forse un personaggio completamente diverso, prendiamo per esempio quella suo goffa ansia di nobiltà...
«Ma no, quella sua ansia di nobiltà é molto ingenua! Quando io dico prendo una persona per quella che è, intendo soprattutto come uomo. Nel fondo di Totò c’era una dolcezza, un atteggiamento buono, e al limite qualunquistico, ma di quel qualunquismo napoletano che non è qualunquismo, bensì innocenza, distacco dalle cose, estrema saggezza, decrepita saggezza. Quindi, quando di dico Totò nella sua realtà intendo di dire nella sua realtà di uomo, ed aggiungo "anche" di attore».
Come mai, in «Uccellacci e uccellini», per trovare un antagonista ad un intellettuale di sinistra in crisi lei ha scelto proprio questo tipo di personaggio già codificato nel qualunquismo?
«La mia ambizione era proprio quella di strappare Totò dal codice, cioè di decodificarlo. Come era il codice attraverso cui uno poteva interpretare Totò allora? Era il codice dei comportamento dell’infimo borghese italiano. dell’infima borghesia portata alle sue estreme espressioni di volgarità e di aggressività. di inerzia, di disinteresse culturale. Totò, innocentemente, faceva tutto questo, vivendo parallelamente (attraverso quella dissociazione di cui parlavo prima) un altro personaggio che era al di fuori di tutto questo. Però il pubblico lo interpretava attraverso questo codice. Ed allora io per prima cosa ho cercato di passare un colpo di spugna su questo modo di interpretare Totò ed ho tolto tutta la sua cattiveria, tutta la sua aggressività, tutto il suo teppismo, tutto il suo fare sberleffi alle spalle degli altri. Questo è scomparso completamente dal mio Totò. Il mio Totò è quasi tenero, e indifeso come un implume, è sempre pieno di dolcezza, di povertà fisica, direi, non fa le boccacce dietro a nessuno. Sfotte leggermente qualcuno ma come qualche altro potrebbe sfottere lui, perché è nel modo di comportarsi popolare il desiderio di sfottere qualcuno... ma è una sfottitura leggera e mai volgare. Quindi come prima cosa ho cercato di decodificare Totò, avvicinandomi il più possibilmente alla sua vera natura che veniva fuori in quel modo strano che dicevo. Una volta fatto questo, l’ho opposto in quanto antagonista all’intellettuale marxista ma borghese. Ma è un antagonismo che non sta in Totò o nel corvo che fa l’intellettuale, sta nelle cose. Insomma ho opposto un personaggio innocente, fuori dall’interesse politico immediato, cioè fuori dalla storia, a chi invece fa della politica il suo vero e profondo interesse e vive in quella che lui crede essere la storia. Cioè ho opposto esistenza a cultura, innocenza a storia».
Nelle prime cose di Totò qualcuno ha visto un certo legame con l’avanguardia, per esempio con il futurismo.
«L'avanguardia nasce sempre come un’élite battagliera, paradossale e scandalosa, ma poi la sua prima preoccupazione è quella di annettersi il più possibile epigoni e fonti. Il caso Totò mi sembra una di queste operazioni tipiche dell‘avanguardia per allargare il proprio dominio territoriale. Si, si può dire che Totò, il suo modo di essere, di presentarsi, di esprimersi fisicamente, ha qualcosa di avanguardistico in senso lato, e cioè ha se non altro l’estraniamento: si stacca dalle cose, dal mondo degli altri e costruisce questa specie di marionetta che non ha quell’interezza umana tipica dell’arte classica, semmai è tipica dell’avanguardia».
E l’uso del dialetto?
«Il rapporto di Totò con il dialetto è molto realistico. Probabilmente decise fin dalle origini di non essere un attore dialettale napoletano, come per esempio Eduardo De Filippo, e i tipici attori dialettali. Ha voluto essere un attore dialettale di origine napoletana ma non strettamente napoletano. E cioè la sua lingua è stata una specie di mimesi del dialetto o del modo di parlare del meridionale emigrato in una città burocratica come Roma. E allora ecco gli inserti di lingua burocratica, di lingua militaresca, dei vari gerghi del parlare comune, quello sportivo per esempio. Ma nell’uso che io ho fatto di Totò ho eliminato tutto questo. Ho eliminato le parole dette tra virgolette, le citazioni burocratiche, militaresco-sportive, e gli ho dato un linguaggio che se non è il linguaggio corrente dialettale napoletano o romano è un misto dei due. E' una lingua che può parlare un emigrato meridionale che non vive più al sud da venti o trenta anni e quindi ha perso le sue caratteristiche linguistiche mescolandole con le nuove».
Sulla scena burattino in frac
Al contrario di Petrolini, che si piaceva molto, Totò concepì, verso la fine della vita, una sorta di risentimento verso se stesso. « Totò non mi piace », dichiarò a un intervistatore pressante, « mi diverte, ma non mi piace». E del resto nemmeno Charlot piaceva più a Charlie Chaplin. Per Totò la ricerca delle identità era già totalmente esaurita nel titolo di Principe di Bisanzio, mentre il suo personaggio, malconcio e goffo, ancora si arrabbattava nella equivoca arte di arrangiarsi, manichino burattinesco di piccolo borghese che tende tutt’al più a divenir medio e grande, ma non certo aristocratico.
La frattura tra miseria e nobiltà era però, a ben guardare, il grande tema del teatro napoletano, e Totò non vi si è mai sottratto: i nobili da lui rappresentati sono sempre stati sciocchi, blesi e futili, mentre i miseri hanno sempre avuto la superba affascinante crudele furbizia della fame: quella aggressiva ricerca del cibo che rendeva del tutto simile l'ometto ebreo con le scarpacce beffarde sbarcato a New York e il pulcinello in frac e bombetta approdato da un basso napoletano agli sventramenti della Roma Imperiale, cioè da San Giovanni Decollato a Fermo con le mani.
Il ritratto cinematografico di Totò, dopo il suo intenso revival degli ultimi anni, è il più completo possibile, basta girare le sale di una grande città. Ma ora gustosamente lo possiamo arricchire di raffinate fonti scorrendo il libro che he il più fedele tra i devoti, Goffredo Fofi, ci offre col titolo provocante «Il teatro di Totò» (Più-Libri, pagg. 225, lire 10.000). Vi sono raccolti i testi dei copioni passati in censura tra gli anni 1942 e 1946, per essere recitati nell'avanspettacolo e nella rivista.
Teatro, nel senso tradizionale della parola, Totò non lo ha ha fatto mai. Non ha mai tentato di recitare Molière (qualche regista ha provato a fargli apprendere le battute dell'Avaro, ma ne è è venuto fuori tutt’altro), e solo al cinema ha accettato Scarpetta o Eduardo o Pirandello. Ha rifiutato la tentazione dell’attore colto, forse per per accentuare il distacco tra l'uomo e la maschera, che doveva essere il più possibile volgare, cialtrona, ribalda e scurrile, cioè lontana e astratta.
Quanto a scurrilità questi copioni non sono davvero reticenti. «Deh, lasciami andare sui prati bisciare», recitava Totò Tarzan nel ’38, ma l’equivoco fonetico sulla «biscia» lo si può sentire ancora al teatrino di Pulcinella. Totò portava infatti sui palcoscenici delle periferie annaspanti nella volgarità del regime una voglia di aggressività verbale, di sessualità guardona, di doppi sensi oltraggiosi. Non si può parlare mai di satira, in questi canovacci che inizialmente nascono dalla tradizione della scena napoletana (il come scroccare un pranzo all'osteria) e poi si indirizzano verso gli oggetti di dileggio ammessi dalla presunta virilità del regime, come «Il gagà e la gagarella», del 1942.
Sono questi gli anni dell'incontro di Totò con Anna Magnani e con la vena di versificazione qualunquistica in cui fu rigoglioso Michele Galdieri. Il cinema ci ha restituito molti di questi testi talvolta irresistibili, come «L’onorevole in vagone letto» (con Isa Barzizza e Mario Castellani). Della Magnani non abbiamo nulla, eccetto un patetico delizioso sketch restaurato in «Risate di gioia» di Mario Monicelli. Dobbiamo dunque affidarci alla scrupolosa filologia di Fofi, cercando di ricostruire con gli occhi del ricordo (quando si ha la fortuna di serbarlo), o con la fantasia non solo l'immagine della grande maschera insostituibile, ma anche il ritratto meno confortante di una italietta forse un po’ troppo dura a morire.
Tommaso Chiaretti, Mario Morini, «La Repubblica», 3 agosto 1976
Tommaso Chiaretti, Mario Morini, «La Repubblica», 3 agosto 1976 |
Riferimenti e bibliografie:
Questa intervista con Pier Paolo Pasolini risale al 1974 ed è in gran parte inedita. Solo qualche piccolo brano è stato inserito nel programma televisivo «Perché Totò», realizzato da Tommaso Chiaretti e Mario Morini.